Wednesday 27 October 2010

Fra desiderio e noia

«L’annoiato, lungi dal non volere, vuole.», quoth Schopenhauer.

Aver letto questo post della mia cara Giulia mi ha fatto tornare in mente quanto la mia vita sia una variazione sul tema della filosofia del buon Arthur, e di quanto per carattere io sia naturalmente portato a ricadere nei suoi circoli viziosi. Di tutti i filosofi che ho incontrato al liceo, lui è senza dubbio quello con cui sento maggiore affinità (tant’è che lo ricordo ancora quasi per intero), sebbene non mi accanisca sul mondo tanto quanto fa lui. E anzi, in realtà ritengo molto infantile il suo desiderio di sfuggire a tutti i costi alla Wille zum Leben, e considero il suo affidarsi all’ascesi per sfuggirle poco più che un dispetto da asilo (come se la Volontà inciampasse sullo sgambetto di Schopenhauer), e piuttosto che cercare modi per annientarla mi limito a prenderne atto, scrollare le spalle e vivere la mia vita drogandomi di Arte per non riflettere sul suo assoluto vuoto. Ma il discorso che voglio affrontare è più legato alla teoria del Pendolo che all’Iter Salvifico, a come vivo e accetto la mia vita pur nella consapevolezza del suo orribile vuoto.

Pendulum... by ~crapiolo
Evitando termini inutilmente ridondanti come “dolore”, “sofferenza” e simili (davvero, ad Arthur mancavano solo eyeliner e fishnets per essere un Goth di stampo adolescenziale, e a volte penso che si sia reincarnato in Morten Veland), io sono esattamente il genere di persona che, come il famoso pendolo, oscilla fra desiderio e noia passando per un breve momento di piacere. L’unico stimolo in grado di mobilitarmi è il desiderio, che io non intendo come dolore provocato dalla mancanza, ma come sfida, come eccitante percorso verso la meta. Una volta conquistata, passato quel breve momento di euforia, perdo ogni interesse: è qualcosa che ormai ho, non ha più alcuna attrattiva per me; e non perché l’avevo idealizzata e ha deluso le mie aspettative, ma per il semplice fatto che ormai è raggiunta, mia, sta là e non richiede più attenzioni né sforzi. Il problema non è nell’oggetto, ma nel soggetto, in me. Così, a differenza del buon Arthur, finito il momento di felicità da me non subentra il dolore di una nuova mancanza, ma direttamente la noia, e sono io stesso a posare famelicamente lo sguardo su una nuovo obiettivo per colmarla, per ritrovare l’ebbrezza della ricerca. Volendola mettere in termini sessuali (visto che, a quanto pare, l’umanità non sa fare altro), il plateau è più soddisfacente dell’orgasmo stesso, che è invece seguito da quell’odioso momento di vuoto e disinteresse.
L’unica eccezione a questa regola sono gli album musicali che aspetto con ansia di comprare, che mi offrono una costante scoperta che si protrae ben oltre il tanto atteso momento della conquista, e le fotografie che scatto: anche se quello è un altro percorso nel quale sono costantemente in cammino, scattare una fotografia non mi lascia vuoto e disinteressato, ma pienamente soddisfatto di ciò che ho ottenuto (probabilmente perché, anche in questo caso, il risultato dura ben oltre il momento della conquista).


Le persone, invece, non costituiscono un’eccezione alla regola. Il fatto che, anzi, conquistare una persona richieda molti più sforzi e la caccia sia notevolmente più interessante peggiora le cose: più divertente e difficile è il gioco, peggiore è il senso di vuoto che segue quando questo si conclude (anche se lo fa in bellezza con del buon sesso). D’altro canto, non è poi così sorprendente: una volta che l’ho conquistata, una persona è ormai mia, che me ne faccio a quel punto? Il mio fascino ha fatto centro, continuare ad elargirlo sarebbe un semplice spreco: molto meglio andare avanti e cercare un nuovo obiettivo.
Probabilmente è per questo che ho trovato inaspettatamente appagante una giornata di sole provocazioni reciproche che, per quanto a volte anche pesanti, sono rimaste tali senza andare oltre. Il gioco della conquista non si è concluso, non è stato seguito da quel momento di amarezza e vuoto, e proprio per questo ha mantenuto intatto tutto il suo fascino.


D’altro canto, la cosa migliore è che siamo entrambi perfettamente consapevoli che ci stiamo usando a vicenda: tu usi me per appagare il tuo sciocco desiderio narcisistico di piacere a tutti, io uso te per soddisfare il mio vuoto capriccio di deliziarmi i sensi con qualcosa di bello senza impegno d’acquisto, godendomi il momento senza dovermi preoccupare di perdere tutto il mio interesse per te una volta che ti avrò fatto mio. A te non interessa davvero avermi, a me non interessa davvero avere te, ed è questo equilibrio che rende tutto così deliziosamente divertente e, oserei dire, originale: è il trionfo dell’inconcludenza e del godersi l’attimo.

Tornando al pendolo e a parlare in filosofese, questo è un esempio di applicazione pratica dell’altrimenti inutile paradosso di Achille e la tartaruga di Zenone da Elea, dove il moltiplicarsi ad oltranza del plateau fa sì che le frazioni in cui si divide lo spazio prima che il pendolo raggiunga il vertice del suo arco di circonferenza, ovvero il piacere, crescano in maniera esponenziale, impedendogli di andare oltre e sforare nella noia. Il segreto della soddisfazione, specie nel rapportarsi alle persone, sta dunque nel non raggiungere l’obiettivo ma mantenere viva la corsa verso esso. Una lezione strana, ma che in qualche modo funziona.

2 comments:

  1. Schopenhauer incantò anche me, al liceo; sebbene non abbia mai condiviso l'idea dell'ascesi.

    Continuare a desiderare ciò che oramai s'è ottenuto è la cosa più difficile del mondo, ne so qualcosa.

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  2. Io ho in realtà attinto un po' da tutti (a parte Hegel, che trovo sconclusionato al massimo), ma Schopenhauer è uno di quelli che ho trovato più affini. Il suo pendolo non mente.

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