Thursday 27 October 2011

Hurts live @ Alcatraz, Milan

Credo di poterlo dire senza problemi: adesso sì che posso morire felice. Dopo il concerto degli Hurts di ieri sera credo di essere davvero arrivato al nirvana, e ora sono in un tale stato di beatitudine che se mi cadesse un meteorite in testa non mi lamenterei nemmeno per la sfortuna cosmica.
Quelli che hanno seguito da vicino le mie vicende artistiche degli ultimi mesi avranno certamente notato che questo concerto l’ho aspettato con molta trepidazione e mi ci sono preparato a dovere: rimasto vedovo dei Theatre of Tragedy, infatti, senza nemmeno accorgermene mi sono totalmente innamorato di questo duo, eleggendoli a fonte d’ispirazione primaria, tanto da ritrovarmi in breve tempo con un numero sufficiente di foto da poterci stampare un book. Detto fatto, ecco che Inspiration Hurts, il mio primo photobook in assoluto, ha visto la luce, composto dalle undici foto a tema che sono riuscito a scattare prima della fatidica data. Aggiungendo poi il fatto che Theo Hutchcraft è uno dei miei sogni erotici ricorrenti, nonché la qualità della proposta musicale dei nostri, non c’è da meravigliarsi se ho cominciato a dare di matto con largo anticipo, per poi partire letteralmente per la tangente quando il gran giorno è arrivato.

Stavolta, niente incidenti onirici che mi hanno salvato per il rotto della cuffia dal perdere il treno: per evitare qualsiasi problema sono infatti arrivato a Milano il giorno prima, gentilmente ospitato da Daniela, e ho trascorso la mattinata in giro per Corso Buenos Aires con Deborah Luna, fra vetrine, ristorante cinese e l’immancabile Grom. Il progetto originale prevedeva di piantarmi davanti all’Alcatraz dalla mattina, elegantemente vestito con la mia giacca in velluto blu di H&M e la sciarpa damascata al collo, abbinate a jeans neri e alle mie scarpe eleganti nuove, ma dopo aver programmato anche l’uscita con Deborah ho deciso di rinviare l’accampamento a subito dopo pranzo; tuttavia, il giro di vetrine mi ha tentato troppo e ho ritardato fino a poco dopo le tre, quando, armato di photobook, booklet di Happiness e cardsleeve dei singoli, mi sono diretto all’Alcatraz, pronto a fare le mie quattro ore di fila prima dell’apertura dei cancelli. Inutile dire che sono rimasto alquanto sorpreso (ed infastidito) nel trovare già una coda chilometrica, dato che, facendo gli Hurts musica di classe, non mi aspettavo che avessero tanto pubblico in Italia. Alla fine, mi sono semplicemente rassegnato alla mia sorte e mi sono messo in fila, inizialmente con Deborah che mi faceva compagnia; quando poi lei è andata via, mi sono dedicato all’attività primaria di quel pomeriggio, ovvero la mia personale scalata al successo alle prime file. Così, mentre analizzavo il variegato campionario di umanità che gli Hurts sono stati capaci di mettere assieme - altri Goth come me o ex tali, ragazzine di buona famiglia, qualche tamarro, gli ormai immancabili hipster, altra gente orribilmente sciatta che avrebbe fatto rischiare il collasso a Theo, fino ad arrivare a tre ragazze che facevano il cosplay delle ballerine del video di Wonderful Life - compivo continuamente passetti di mezzo centimetro, approfittando di chiunque fosse così ingenuo da voltarmi la schiena per infilare uno dei miei piedini eleganti nel primo spazio libero e guadagnare così, con molta nonchalance, posizioni su posizioni. Tutto questo finché non è arrivato un pulmino con i vetri oscurati: lì si è scatenata un’ondata di fangirlismo (ingiustificato, perché non erano Theo e Adam), di cui ho prontamente approfittato per sgusciare a faccia tosta fino a poche persone dalla porta dell’Alcatraz. Il pià era fatto, non restava che aspettare l’apertura dei cancelli alle sette per approfittare di disordine, gente che andava al bagno, al guardaroba e a bere, varie, eventuali e variabili per guadagnarmi un posto dignitiso. E così è puntualmente stato, tant’è che senza particolari sforzi sono riuscito ad arrivare in seconda fila, leggermente spostato a destra rispetto al centro. Giro di sms di trionfo, chiacchiere con le ragazze davanti a me, spogliarello per rivelare l’outfit da concerto (camicia bianca e bretelle), ed è iniziata la paziente attesa per la performance.

Il gruppo spalla, tali The Heartbreaks, era un quartetto di hipster dal look piuttosto discutibile (a partire dal cespuglio in testa al cantante), ma dalla proposta musicale più che accettabile, un rock orecchiabile e accattivante accompagnato da una discreta presenza scenica, per cui non sono stati una tragedia. Certo, pensare che in passato gli Hurts avessero avuto come spalla Clare Maguire non ha aiutato molto, ma data la lunga esperienza di supporters veramente discutibili che ho alle spalle (qualcuno ha nominato i Pythia e gli Amberian Dawn?) non ho avuto di che lamentarmi (ad eccezione dei calzini color salmone del cantante). Terminato il loro numero, i quattro ragazzi hanno salutato e il palco è stato celermente (ma non troppo) sbaraccato ed allestito per gli Hurts: sfondo a finestroni, batteria dietro a sinistra, sintetizzatore sulla destra, postazione per la chitarra più avanti a sinistra, allestimento di violini, sassofono, violoncello e arpa sulla destra (quest’ultima combinazione mi ha quasi fatto partire l’epistassi, dato l’amore che nutro verso questi strumenti). E davanti a tutto, accanto ai due ventilatori, il synth con supporto trasparente e rose bianche di Adam e l’asta (del microfono) di Theo.

Hurts live @ Alcatraz, Milan

Con un leggero ritardo sulla scaletta, finalmente le luci si sono spente, si sono accesi i ventilatori, è partita l’intro, Adam e Theo sono saliti sul palco ed è iniziata la magia.

1. Silver Lining
2. Wonderful Life
3. Happiness
4. Blood, Tears & Gold
5. Evelyn
6. Sunday
7. Gloomy Sunday
8. Verona
9. Mother Nature
10. Unspoken
11. Devotion
12. The Water / Confide in Me
13. Affair
14. Illuminated
15. Stay

16. The Water
17. Better Than Love

Senza girarci tanto intorno, è stato il miglior concerto a cui abbia assistito subito dopo i Theatre of Tragedy a Stavanger (il che, in soldoni, significa la miglior performance che chiunque non sia i Theatre of Tragedy mi potesse dare). Fra i giochi di luce abilmente calibrati, le proiezioni sullo sfondo presenti ma mai distraenti, le coreografie delle ballerine, un uso parsimonioso delle basi preregistrate grazie anche al quartetto d’archi con seconde voci dal vivo (a differenza di certi multimilionari di nostra conoscenza, ed ogni riferimento a rAmynescence e Naituiss è puramente casuale), una presenza scenica a dir poco iconica di Theo e una setlist magistrale che è andata a toccare non solo l’intero album ma anche tutte le bonus track originali e una delle cover note (con due piccole sorprese), si è potuta benissimo perdonare l’acustica non propriamente perfetta (d’altro canto è pur sempre l’Alcatraz, cosa si può pretendere?). La resa di molte canzoni si è dimostrata addirittura migliore che su disco (Blood, Tears & Gold, Stay e Sunday in testa), e più o meno tutte hanno riservato sorprese, variazioni ed abbellimenti che me le hanno fatte riscoprire anche dopo più di quaranta ascolti ossessivo-compulsivi a testa.
L’opener Silver Lining, preceduta dall’intro su cui si muovevano due figure incappucciate con bandiere nere, ha saturato immediatamente l’atmosfera, scaldando il pubblico che si è messo a cantare appresso a Theo senza esitazioni, e presentandoci sia i nostri, sia la band di supporto subito in perfetta forma, carichi e impeccabili nella poshness dei loro abiti; lodevole il pattern della batteria sul ritornello che, sebbene meno ancheggiabile di quello dell’album, ha infuso un’incredibile energia al brano, specie sul climax. A questo proposito, inutile dire che le mie sinapsi hanno avuto il primo collasso quando sono partiti i cori del finale, dato l’amore viscerale che nutro per la canzone in generale e per quella parte in particolare, ed è stato un piacere vedere che il resto del concerto si è mantenuto sulla stessa linea. Wonderful Life ha infatti fatto esplodere il pubblico (ovvio, è uno dei singoli più noti), con tanto di ballerine che danzavano a lato palco riprodotte dalle silhouette proiettate sullo sfondo (e Cristo, voglio imparare quella coreografia!) e assolo di sassofono sul bridge.
Happiness, la terza canzone, ha visto Theo interagire ampiamente col pubblico, dirigendo i coretti di “happiness!” sulle strofe, supportate da una batteria quasi martellante che ha dato un tocco notevolmente più rock al brano. Dopo il momento up-tempo, Blood, Tears & Gold ha riportato un momento di calma con una graziosa nevicata proiettata sullo sfondo, facendosi apprezzare e, al tempo stesso, spianando la strada a uno dei pezzi da novanta del concerto. Ogni cosa in Evelyn rappresenta infatti uno dei climax emotivi del concerto (a prescindere dal fatto che è una delle mie canzoni preferite in assoluto), dalla sofferta interpretazione di Theo alla foga con cui Adam, momentaneamente abbandonato il synth, graffia le corde della chitarra (e i due ci hanno regalato anche un tête-à-tête yaoieggiante, en passant). Trattandosi di una canzone che entra sotto la pelle e fa male, non c’è da sorprendersi se Theo finisce puntualmente per massacrare l’asta del microfono, cosa che ha ovviamente fatto anche davanti ai nostri occhi; menzione particolare per l’arpa, che ha impreziosito i momenti più calmi ed il finale della canzone mandandomi definitivamente in orbita.
Passata la tempesta, i nostri ci hanno portati tutti a saltare (o, nel mio caso, a ballare) con l’energica Sunday; come accennato, dal vivo questa canzone ha una resa esponenzialmente migliore che sull’album, e si è fatta apprezzare tantissimo al naturale nonostante personalmente abbia sviluppato nel tempo una forte predilezione per il Glam As You Radio Mix. Il pubblico ha risposto calorosamente scatenandosi, e non avrebbe potuto essere diversamente, considerando la carica di energia del brano. Non sorprende, dunque, che per calmare le acque i nostri si siano concessi un piccolo momento di riposo su Gloomy Sunday, uno stacchetto strumentale che vede protagoniste le signorine agli archi e due ballerine con tutù nero e nastri rossi (e un trucco fortemente reminescente di Black Swan) che hanno eseguito una deliziosa coreografia dal sapore clasicheggiante. Ed il mood è rimasto sul classico andante mentre il pianoforte introduceva la placida Verona, inevitabilmente accolta con entusiasmo dal pubblico italiano (specie dopo che Theo ha annunciato che il progetto Hurts è nato durante una vacanza in quella città), e i violini avvolgevano la bellissima ed intensa Mother Nature, che ha guadagnato numerosissimi punti grazie al quartetto d’archi dal vivo (band symphonic, prendete nota).
A questo punto, Theo ha annunciato la successiva traccia, la prima composta come “Hurts”, ovvero Unspoken, che ha visto nuovamente il bel cantante alle prese con il pubblico mentre dirigevao qualche coretto; la successiva Devotion è stata ovviamente cantata interamente da Theo, incluse le parti della Zia Kylie
, senza che per questo il pathos ne risentisse (anzi, con tutto l’ammoreh per la Zia, forse ci ha anche guadagnato, sebbene non mi sarebbe dispiaciuto se Theo avesse qualche sussurro sexy à la Kylie). E sempre per rimanere in casa Minogue, le nostre fanciulle hanno eseguito una bellissima versione strumentale di The Water come intro per la cover di Confide In Me; rispetto alla versione semiacustica pubblicata come b-side del singolo di Stay, la canzone ha acquistato sul palco una vita tutta nuova, sostenuta e resa più intensa da chitarra e batteria, con un ritmo bello ballabile che ha invogliato ad ancheggiare un po’ stile Zia Kylie.
A questo punto, è arrivata una piccola chicca totalmente inaspettata, ovvero una bellissima e praticamente inedita versione acustica di Affair che ha visto come unici protagonisti Theo al microfono e Adam alla chitarra e ha dato i brividi al pubblico. Considerando che hanno iniziato a suonarla dal vivo relativamente da poco (setlist.fm sostiene che l’hanno suonata solo una decina di volte), la sorpresa è stata decisamente gradita sia dai fan digiuni di video live del duo, sia dagli incalliti frequentatori di YouTube. Quale modo migliore, dunque, di spianare la strada a quello che, almeno per me personalmente, è stato il massimo picco emotivo della serata? Pensavo che dopo aver resistito a Evelyn sarei stato a posto per tutto il live, e invece le lacrime sono arrivate su Illuminated, intensa come poche altre cose al mondo; la partecipazione del pubblico è stata nuovamente enorme, specie nei momenti in cui Theo dirigeva il coro (un po’ a convenienza, direi, visto che ci ha fatti cantare sulle parti più alte). Date le premesse, è stato sorprendente che l’ultima canzone della serata non sia passata in cavalleria a causa dell’afterglow della precedente; e invece, Stay è stata estremamente coinvolgente, anche lei con una resa notevolmente migliore rispetto al cd, e con un Theo più che visibilmente coinvolto nel cantare e interagire col pubblico, specie chiedendoci di cantare gli “stay” del ritornello. Inutile dire che quando lui e Adam hanno abbandonato il palco il pubblico non voleva saperne di lasciarli andare, e sono così partiti i coretti per riaverli indietro. Anche perché di lasciarli sbaraccare senza aver suonato Better Than Love non se ne parlava nemmeno, ben chiaro.
Quando finalmente i nostri sono tornati sul palco, era quella che ci aspettavamo; quale sorpresa, quindi, nel sentire The Water, stavolta intera, cantata da un Theo visibilmente commosso e col pianoforte che accompagnava gli archi (una delle violiniste ha anche riprodotto quel delizioso stridio di corde che si sente a metà della seconda strofa. Finita la bella ballata, è arrivato quindi il momento di ballare (e voglio dire, ballare) con Better Than Love, degna conclusione della serata. Introdotta da un pulsare di grancassa e un loop di percussioni elettroniche, ha travolto il pubblico con il suo ritmo irresistibile e la sua energia, con l’ovvia conseguenza che ho sculettato come una spogliarellista (cit. Stefano). Anche questa canzone ha riservato una sorpresa, dato che è risultata leggermente più lunga verso la fine (ha praticamente ripreso la versione dei Daggers, ma con il verso in più che si sente nel Freemason Mix), e con la sua endovena di elettronica ha posto fine al concerto.
Tirando le somme, a parte i sopraccitati problemini audio dipendenti dalla notoria pessima acustica del locale, non ci sono state vistose pecche. L’osservato speciale si è comportato magnificamente (alcuni live un tantino vecchiotti che avevano sentito mi avevano fatto inarcare le sopracciglia a più riprese), con una performance vocale magari non impeccabile ma sicuramente d’effetto, senza che le imprecisioni pregiudicassero l’espressività, come è giusto che sia (d
altro canto, che te ne fai della tecnica impeccabile e dei megavibrati se trasmetti meno emozioni di un frullatore che gira a vuoto?). La sua presenza scenica è stata davvero iconica, Theo ha saputo tenere perfettamente il pubblico sia quando interagiva che quando si occupava di cantare e muovere le, mmmh, mani guantate, spaccare le aste dei microfoni, yaoieggiare con Adam (troppo poco, purtroppo) e tutto il resto. Fra l’altro, non ho potuto fare a meno di notare che dal vivo sul palco è molto più virile di quanto appaia in foto e nei video, elemento che, mmmh, ci piace.
L’impianto scenografico ha fatto la sua parte senza mai distrarre l’attenzione dal piatto forte, amalgamando armoniosamente i vari elementi (luci, scenografia, ballerine) in modo da dare ad ogni cosa il giusto spazio. Come scritto sopra, la setlist è stata assolutamente lodevole e completa, mancavano all’appello solo All I Want For Christmas Is New Year’s Day (che sarebbe stata atrocemente fuori stagione), la cover di Live Like Horses (che ha fatto bene a restarsene dove stava), quella di Once (che, chissà, magari con tutta la band ci avrebbe guadagnato come Confide In Me) e quella di Jeanny (per niente indispensabile). Un piccolo rimpianto è che durante il concerto Theo lanciava rose bianche sul pubblico e non ne ha mai lanciata una nella mia direzione, ma forse è un bene, dato che mi sarei accapigliato con chiunque pur di acciuffarla. Insomma, pace.

A concerto concluso, i soliti, simpatici individui dell’Alcatraz ci hanno dato giusto il tempo di evitare la disidratazione e dare uno sguardino al banco del merchandising (dove ho comprato un poster dei due bei fanciulli) prima di sbatterci fuori come al solito alla velocità della luce. A quel punto, i programmi della serata prevedevano rimanere inchiodati lì ad aspettare che i ragazzi uscissero per assalirli (nel mio caso la cosa era abbastanza tassativa, dato che dovevo dare loro il regalo), anche a costo di aspettare anche fino alle due di notte come ci prospettavano gli addetti del locale (e noi ci abbiamo creduto, seeeeh). È stato a questo punto che ho avuto a che fare per la prima volta con due ostacoli che, nel rapporto con gli artisti, non avevo mai affrontato prima: una folla molto numerosa e le groupie. Essendo abituato ad andare a vedere band che, in media, si filano dai quattro ai dieci gatti (undici se gira bene), tanto da finire a sbevazzare birra nel pub accanto, chiacchierare davnti al tourbus o chattare su Facebook con la cantante (come con i Theatre of Tragedy), farmi dedicare le canzoni perché mi sono fatto notare prima del concerto per quanto sono un ammoreh (come con i The Gathering) o improvvisare photoshoot tramite la fidanzata del bassista (come con gli Autumn), ritrovarmi ad essere davvero un viso fra i tanti era una cosa che non sapevo bene come gestire. Con i Nightwish e i Within Temptation semplicemente non avevo urgenza di affrontare la cosa, mentre qui il discorso era diverso. Così, per ritagliarmi almeno un po’ di vantaggio, mi sono fatto strada fino ad appostarmi subito accanto all’uscita, pronto a fiondarmi su chiunque uscisse. Per le groupie, beh, c’era poco da fare: hanno misteriosamente fatto breccia nel cuore dei buttafuori grazie a... mmmh... al loro bel sorriso, così sono entrate a farsi i loro comodi, ma tant’è, evidentemente hanno dato mostra di particolari meriti (ho mica sentito qualcuno cantare Government Hooker?) ... (sì, la mia è tutta invidia, lo ammetto; le tette non tornano utili solo agli esami di Economia degli Scambi, a quanto pare). Fatto sta che, sgambettate via le groupie sui tacchi su cui non sapevano camminare (gnè!), passati avanti e indietro i quattro hipster malvestiti (che hanno tuttavia rimediato un po’ di ammoreh dai fan), uscite le violiniste, il chitarrista, il batterista, il tastierista, arrivate le pizze, passata gente varia ed eventuale avanti e indietro, e sfollata almeno un minimo la gente, ecco intorno all’una di notte i nostri due figoni uscire dal locale. In realtà, da brava fangirl io puntavo a Theo (non si era capito?), ma dato che si stava lanciando sul tourbus praticamente con la rincorsa, ho deciso che l’urgenza della missione aveva la precedenza sull’ormone e ho scelto la strada di minor resistenza, fiondandomi su Adam come una faina e fermandolo col mio pacchetto in mano. A quel punto, la scena è stata tragicomica.
Adam!”, lo chiamo io, sgomitandogli vicino ed esibendo un sorriso con occhi luccicanti. “You got a second? I made a present for you and Theo.
Lui mi guarda con sospetto. “What is it?”, e anche la voce è piuttosto sospettosa.
Rabbrividisco sotto la sua occhiata torva, ma non mi perdo d’animo. “It is a... a photobook. A book of photos I have taken, which are inspired by your songs.
Lui batte le palpebre, realizza la cosa e BAM!, si illumina di colpo, viso e voce. “Oh. Wow! That’s amazing! Really! Thank you so much!
Interdetto da tanto entusiasmo così improvviso, allargo il sorriso come un deficiente e me lo lascio quasi scappare, prima di realizzare che: “You’re welcome, it’s... well... oh, and by the way, have you got the time for a couple of autographs?
Tiro fuori l’armamentario, lui mi chiede se ho la penna, prendo il pennarello argentato, gli dico dove voglio le firme, un paio di prove tecniche per far uscire l
inchiostro ed è fatta. A quel punto tento di farmi largo verso il tourbus, dove Theo sta facendo la corsa ad ostacoli, ma lo manco di mezzo secondo prima che salga. L’idea era di spalmargli almeno il booklet di Happiness in faccia e approfittarne per accennare al regalo, ma dato che il book era in doppia copia ho fatto affidamento all’ovvietà dell’ovvio e al fatto che difficilmente ad Adam sarebbe interessato tenersene due. Missione compiuta, ultima metropolitana persa, ritorno a casa a pedibus col Google Maps dell’iPhone di una delle ragazze conosciute lì, e finalmente collasso indiscriminato sul letto dopo aver spazzolato metà vasetto di nutella di Daniela.

Ora, stranamente il fatto che l’incontro in cui speravo tanto con i ragazzi (con il ragazzo, in realtà, e fra l’altro Adam dal vivo è molto più gnocco che in foto) sia stato molto in volata non mi ha deluso: dopo un concerto del genere sarebbe stato abbastanza difficile rimanerci male, e mi rendo conto che uscire all’una di notte con mezzo Alcatraz ancora lì non è proprio il massimo. Avere a che fare con Nell mi ha insegnato che anche gli artisti sono esseri umani (a parte me, quel lato lo sto sopprimendo con cura), e non si può pretendere di ingabbiarli nel loro personaggio pubblico costantemente. Avrò comunque occasione per rifarmi col prossimo album e tour, questo è poco ma sicuro. E poi, chissà che la percentuale di autospam contenuta nell’operazione regalo non dia i suoi frutti, prima o poi. Never say never...

Monday 24 October 2011

Chiavi di ricerca - Ottobre

Questo mese, anticipo il post sulle chiavi di ricerca dato che domani parto per Milano e poi proseguo per Lucca e non avrò tempo di scrivere niente. Raccolto particolarmente fruttuoso, questo mese: raramente si vedono tante idiozie così divertenti conentrate nello stesso elenco, cosa che mi ha decisamente divertito. Fra le chiavi di ricerca serie, invece, ho notato varie volte i V-malice, e ciò mi ha indubbiamente fatto piacere. Ma dato il ben di dio che abbiamo qui, evito di proseguire con le autocelebrazioni e cedo la parola agli internauti e ai disastri che sanno causare.

nicholas chiron
Addirittura Nicholas, ora?
uomini con i capelli lunghi e tenebrosi
uomini tenebrosi foto

Ci piace questo elemento.
canzoni dei within temptation sugli angeli
Mah... non so se me ne vengono in mente. Tipo Angels, potrebbe essere?
amy lee chiesa cattolica
evanescence chiesa cattolica

Sì! Andate a chiederlo direttamente a lei, così le esplodono le coronarie per la christian thing!
emilie autumn è di religione cristiana cattolica?
Ma di sicuro, non si nota? (In tutto ciò cos’è, qualche oratorio cerca nuova musica per i bimbi?
emelie costa negozio minsk
I beg your pardon?
theo hutchcraft fidanzato
Con me! Oh sì, che lo sarà! E anche a breve!
efebo goth
Ora... Chi mi cerca e, soprattutto, perché?
come truccarsi da dorian gray
E da quando Dorian Gray si truccava?
cerco ludwig
E hai sbagliato blog.

ange auguri cartamodello
Mi sfugge di che tipo di vestito dovrebbe trattarsi...
come fare ad avere un bel fisico
Di certo troverai un sacco di consigli nel blog di uno che si scofana il cinese ogni volta che può ed è sistematicamente allergico a qualsiasi tipo di sport. Sempre sia lodato il mio metabolismo!
vortice linee di potenziale
Perché sento puzza di matematichese? E perché Google ha diretto la cosa da me?
compleanno anticristo
Oh carini, vogliono fargli la festa?
eastwick video sculetta
Sinéad meets Le Streghe di Eastwick.
enormi sopracciglia
I fan di Madonna continuano ad approdare al mio blog!
monociglio smile
Anche io sorriderei se fossi la figlia di Madonna!
la storia del dottor tomoe
Un pomeriggio di marzo di tre anni fa, feci una grossa bravata alla Bloempje e mi misi a ridere in maniera isterica come il Dottor Tomoe. Da allora porto quel nick su messenger. Soddisfatti?
dorian gray frocio
Questa mi ha lasciato un tantino perplesso. Se qualcuno è abbastanza colto da googlare Dorian Gray, poi perché ci accosta aggettivitipo “frocio”?

rotella rosa nel ramen
Per fortuna in quello che mangio io non ci sono rotelle rosa!
pseudo: the drag queen murders
Che cosa inquietante, ora c’è anche il serial killer di drag queen!
vasca antica con donna grassa dentro
Eww!
made in japan poços de caldas belial
Questa dovete proprio spiegarmela, mi ha lasciato speechless.


E per ultimi, ecco due piccoli capolavori di questo ottobre:

lady gaga fata turchina
Infatti è la madrina di tutti i P(h)inocchi! ♥
non lo apro. ne ho timòre
Io ho timòre della Prestigiacomo che ha timòre di aprire il mio blog...

Friday 21 October 2011

Una relazione di due anni

A ben pensarci, potrei dire di essere in una relazione da più di due anni. Se, infatti, lasciarmi trasportare completamente da Falling Deeper è stato qualcosa di abbastanza inaspettato, che mi ha dato le emozioni dei primi tempi di un amore, Forever Is The World ed io siamo più come amanti di vecchia data. Ormai abbiamo una conoscenza tale l’uno dell’altro, siamo talmente collaudati, che tocchiamo alla perfezione tutti i punti giusti per un’esperienza soddisfacente e piena.
Non solo: mi sono anche accorto che, ormai, ognuna delle undici canzoni dell’album mi dà sensazioni che corrispondono a momenti ben specifici, così che ascoltando l’album nella sua interezza è come se vivessi un’intera, felice, soddisfacente relazione concentrata in 53 minuti.

Hide And Seek, e l’ho sempre detto, è il megasesso; è la canzone perfetta come sottofondo per una di quelle scopate epocali da trovarsi graffi e lividi la mattina dopo, fa partire la libido per la tangente, dà il giusto ritmo al corpo, si trascina con una pesantezza, un’intensità da affondare le unghie nella pelle, da finire con i capelli strappati in mano, ed è già abbastanza da rimanere appagati e contenti per il resto della giornata. Poi insomma, sui ritornelli c’è da inarcare la schiena dal piacere, l’ultimo è un orgasmo in piena regola.
A Nine Days Wonder, complice il testo, è quel momento di assoluto e perfetto romanticismo che arriva quando ti rendi conto di essere ricambiato. È un sogno, l’inizio di un viaggio, le farfalle nello stomaco che non ti danno più la nausea, quell’attimo di incertezza e smarrimento che compare solo per poi essere risucchiato dal piacere di un abbraccio. E il piccolo assolo di pianoforte che sfuma nei violini dell’ultima parte è l’esatto momento in cui, dopo aver sentito il primo “ti amo”, sei così felice che potresti piangere.
Revolution è di nuovo il sesso. Altra canzone con un ritmo perfetto per muovere il bacino, a differenza di Hide And Seek rappresenta quel sesso meno intenso ma più intrattenitivo, quando si ha voglia di esplorare il corpo di qualcuno e provare cose nuove, con quel tocco di narcisismo che deriva dal far impazzire il partner. Poi seriamente, ditemi se il botta e risposta violoncelli-violini non è un bacio fatto, finito e ricambiato.
Transition, che ha iniziato a piacermi un po’ per ultima (non si fa capire facilmente), è il momento delle coccole spensierate, del ridere assieme, del giocare a letto senza tensione sessuale, dell’essere sereni e non mettersi preoccupazioni di alcun genere. È l’attimo di felicità da cogliere, senza un motivo particolare.
Hollow è quel momento in cui si rimane abbracciati a farsi carezze lievi, per il solo gusto (o bisogno) di assaporare la reciproca presenza. È il riscoprirsi nei piccoli gesti, lo stare insieme senza parlare, semplicemente sapendo di avere accanto qualcuno su cui si può contare qualsiasi cosa succeda là fuori. È l’esserci in sé, l’essere insieme, fino a lasciarsi sopraffare da questa sensazione e finire per scacciare qualsiasi dubbio.
Astray è il flirt, frizzante e accattivante. Quello dell’inizio di una relazione, così come quello che continua anche quando si sta assieme da tanto ma si mantiene viva la storia; il flirt per il semplice gusto di vedere uno sguardo malizioso, un’espressione di sorpresa, la complicità nell’altro. È fare piedino sotto il tavolo, farsi l’occhiolino, una palpata all’improvviso, provocarsi gratuitamente per il solo gusto di farlo.
Frozen è invece quel momento in cui ti svegli la mattina presto, la luce di un’alba nuvolosa che illumina appena la camera, e abbracci la sua schiena mentre lo osservi dormire. In silenzio e immobili, semplice contemplazione mentre ti perdi nei tuoi pensieri, nelle tue emozioni, nelle sensazioni che provi. È il sottile piacere del fatto che il solo averlo accanto, senza che faccia o dica nulla, ti è in qualche modo di conforto.
Empty riprende un po’ il discorso interrotto da Astray, è il sesso intenso e romantico dopo una serata passata a stuzzicarsi. È la complicità portata al suo stato più fisico, il piacere che si unisce al sentimento in un tipo di sesso più lento e meno egoistico di quello di Hide And Seek o Revolution. È la ricerca tesa al piacere dell’altro anche più che del proprio, quel pizzico di perversione per sorprenderlo, quel tocco di tenerezza per confortarlo. La luce soffusa, il profumo nella stanza, i baci su tutto il corpo.
Illusions, similmente, continua dopo il risveglio di Frozen. È un momento di quotidianità, occuparsi delle faccende di casa insieme, preparare la colazione in una mattina grigia dentro la casa riscaldata, chiacchierare mentre si beve il tè, assaporare un po’ il lato sereno e rassicurante della routine. E, sul finale, è invece quel gesto quotidiano, quella piccolezza che fa scoppiare l’ormone e ritrovare la passione all’improvviso, sullo stesso tavolo della cucina magari.
Deadland rappresenta il lato pratico di una relazione, il sostenersi a vicenda nel quotidiano, l’avere un punto di partenza solido dal quale affrontare la vita, un obiettivo comune che entusiasma e dona ottimismo, il lavorare per andare verso quella direzione, superare le difficoltà, le incomprensioni per ritrovarsi a remare insieme contro il resto del mondo.
Forever Is The World, infine, è semplicemente l’essenza stessa dell’amore, racchiusa in due versi: eccoci, che tremiamo sull’orlo del mondo tenendoci per mano.

È stato un piacere riscoprire tutto questo, oggi. Da quando è uscito Last Curtain Call, avevo un po’ messo da parte Forever Is The World, così che, passata l’assuefazione, ho riscoperto le emozioni che quest’album mi dona in tutta la loro intensità. Così, da una parte, sin dal primissimo ascolto ho avuto un vero e proprio colpo di fulmine (che mi ha praticamente mandato in cortocircuito le sinapsi), e dall’altra quest’album mi dona le stesse sensazioni dell’ammoreh, di uno felice, ricambiato e senza turbamenti. E tutti questi evidenti vantaggi, va aggiunta la voce della mia cantante preferita. Cosa posso volere di più? Alla faccia di chi dice che non si può vivere di sola arte.

Almost love

Oggi, quando mi sono svegliato, non avevo assolutamente voglia di uscire dal letto, così ho tenuto l’avvolgibile abbassata, mi sono allungato verso il comodino per afferrare l’iPod e ho deciso di rimanere al caldo sotto le coperte e ascoltare Falling Deeper degli Anathema senza occuparmi di nient’altro. Dire che è stata un’esperienza quasi fisica non è un’esagerazione: per tutti e 38 i minuti di quel piccolo capolavoro, il mio corpo è stato attraversato da brividi e una miriade di sensazioni spettacolari, che si condensavano nel mio cervello regalandomi nitide immagini. Mentre ascoltavo il magnifico quartetto d’apertura composto da Crestfallen, Sleep In Sanity, Kingdom e They Die, mi sentivo come galleggiare sull’oceano, un oceano tiepido e sereno che mi abbracciava con una dolcezza commovente. Su Everwake mi sono invece trovato improvvisamente disteso in un campo di papaveri di notte, ad osservare le stelle mentre la brezza mi accarezzava; J’Ai Fait Une Promesse mi ha invece trasportato in una piccola rue parigina dal selciato umido di pioggia, con una malinconia tutta bohèmienne che si è dissolta quando ...Alone fa fatto comparire una foresta autunnale ai piedi di rocce scoscese, sotto la pioggia battente assieme dal sapore tutto amaro di un abbandono. We, The Gods mi ha invece sollevato fino alla cima di una montagna, adagiandomi sulla neve colorata dalla luce del sole morente nella vallata brumosa. E infine, Sunset Of Age mi ha riportato all’oceano dell’inizio, ma sulla riva, lambito appena dalle onde che, col progredire della canzone, si sono gonfiate sempre di più fino all’irrompere di quello che credo sia l’assolo di chitarra più bello che abbia mai sentito, talmente progressivamente intenso da non avere nulla da invidiare a un orgasmo.
Ed è così che, finito l’album, mi sono reso conto di averci praticamente fatto l’amore. Stessa soddisfazione, stessa vaga euforia, stesso momento di quiete dopo

Il che mi ha fatto venire voglia, dopo, di provare a farlo anche con Forever Is The World dei Theatre of Tragedy, ma questa è un’altra storia per un altro post. Che scriverò, tipo, ora.

Raison d’être

Riflettevo sul fatto che dal lontano marzo 2010, il mio stato personale su messenger è una specie di gioco a tirare a campare con proroga. Dopo l’epocale (almeno per me) concerto dei Theatre of Tragedy a Londra, ho infatti tirato fuori il fatto che “Non posso morire felice solo perché ho promesso ai Theatre of Tragedy di esserci a Stavanger”. Ovviamente, dopo il concerto di Stavanger è spuntata fuori un’altra cosa che dovevo assolutamente fare prima di morire felice, ovvero rivedere il tutto in dvd, così ho messo su come stato “Non posso morire felice finché non ho visto Last Curtain Call” (tralasciando, poi che lo split della band mi ha reso alquanto infelice). Una volta uscito Last Curtain Call, però, è spuntata fuori un’altra data imperdibile, ovvero il concerto dei Within Temptation (“Ora posso morire felice grazie a Last Curtain Call. Ma un concerto dei WT ci sta prima”). Adesso che ho visto il loro concerto, “posso morire felice grazie a Last Curtain Call. Ma prima devo vedere gli Hurts”, i quali, essendo diventati la mia band non-metal preferita, sono assolutamente da sentire live prima di morire.

Resta un grosso interrogativo aperto: e dopo mercoledì? Che cosa mi invento per tirare a campare?

Wednesday 19 October 2011

Within Temptation live @ Alcatraz, Milan

Ho menzionato un paio di post fa che erano circa sei anni che morivo dalla voglia di vedere i Within Temptation live, ovvero da quando ho visto il dvd di The Silent Force Tour e ho avuto modo di constatare che, oltre ad essere spettacolari a livello visivo, la resa delle loro canzoni dal vivo è semplicemente sensazionale. Poi Sharon, che live è giù brava di suo, mi era sembrata una vera dea, dato che come metro di paragone avevo quelle ciofeche di Pescy e della Tamj, rispettivamente in Anywhere But Home e From Wishes To Eternity (che già allora mi lasciavano alquanto a desiderare, specie il secondo). Il concerto di Bologna per il The Heart Of Everything Tour nel 2008 lo persi perché vivevo ancora in Africa e, molto stupidamente, avevo prenotato tutto per i Nightwish prima ancora di sapere che anche i Within Temptation avrebbero suonato in Italia, così sono rimasto a bocca asciutta fino a l’altro ieri.

Se la giornata era iniziata in maniera lol (e ho dimenticato di menzionare il flirt random con il barista al bancone di uno dei bar di Centrale), è continuata ancora più delirante, specie quando ho incontrato tutta la truppa, nell’ordine Luisa, Wretchie, Klaus e Claudio-Gaga con amico-Luigi al seguito. Baci, abbracci, akoalamenti (specie su Wretchie), bagagli mollati in albergo, e ci siamo subito diretti verso il centro per un po di shopping musicale nei soliti negozi ben noti (fra l’altro, sotto Piazza Duomo c’è un vero labirinto, trovare la Mariposa è stata una vera impresa).
Inutile dire che, come da lungo tempo profetizzato, io e Gaga ci siamo coalizzati per molestare il povero Wretchie, trasformandolo praticamente nel nostro toy-boy da scarrozzarci a braccetto per le vie del centro, sbaciucchiare a piacimento, palpeggiare a tradimento con rocambolesche rincorse (perché fuggiva, la tacchina!), e con cui cantare la Bjorka in metropolitana. Dopo un pranzo da Panino Giusto, siamo tornati in Piazza Duomo per incontrare l’alta fanciullA secsi della giornata, ovvero il buon Jonah, che ha fatto giusto un cameo prima di fuggire abbandonandoci crudelmente all’entrata della metropolitana. Cattivo, Jonah, cattivo!
Ovviamente, arrivati all’Alcatraz (con una fila già spropositata dato il sold out, come annunciato
), la sfrantness è continuata a livelli disastrosamente alti, dato che mettere me e Gaga nella fila dello stesso concerto significa trasformare il pomeriggio in un gay pride in mezzo ai metallari. Senza scendere nei dettagli, abbiamo passato il tempo in coda a blastare allegramente la Pescivendola e certi altri soprani ben noti che se la tirano, cantare le canzoni di Gaga (praticamente tutte quelle di The Fame Monster e Born This Way, per la serie “cose da fare in mezzo ai metallari”), sparare idiozie assolutamente random e, qualcuno (ma non diciamo chi), limonare praticamente da quando abbiamo iniziato a fare la fila a dopo che siamo scesi dal metrò a Centrale di ritorno al concerto. Beh, bata gioventù.
L’apertura dei cancelli ha ovviamente visto il solito casino di gente che tentava di travolgersi superarsi, e noi ci siamo buttiati nella mischia fiondandoci verso il palco e prendendo una dignitosa settima fila per poi fare i turni per bagno e guardaroba. Inutile dire che, con la mia abilità combinata con la faccia di bronzo e la magrezza, in breve tempo la settima fila è diventata una quarta con centro perfetto del palco, il tutto nel tempo compreso fra l’attesa per l’allestimento e la performance del gruppo di spalla.

Ora, sul detto gruppo di spalla, tali TriggerFinger, non so tutt’ora cosa pensare. Belgi, rock alternativo a tinte blues con sprazzi ballabili, e fin qui nulla da ridire. Solo che, appena saliti sul palco, la prima cosa che si è notata è che avevano ciascuno quarant’anni a gamba; in tre come minimo totalizzavano un’età di molto superiore a tutti e sei i Within Temptation. Il cantante/chitarrista, Ruben Block, è praticamente Theo Hutchcraft degli Hurts andato a male e in versione (ancora più) frocia; il bassista, Paul Van Bruystegem, sembra un usuraio mafioso di quelli proprio cattivi, e non si è tolto gli occhiali da sole nemmeno un secondo; il batterista, Mario Goossens, (che, avendo un nome italiano, ha ovviamente mandato in brodo di giuggiole lo stupidame ivi riunito) indossava un improbabilissimo completo a righe rosse e bianche larghe almeno cinque centimetri ciascuna. Insomma, l’impressione iniziale è stata un bitch, please bello è buono.
La performance in sé ha più o meno risollevato le sorti di questi tre arzilli signori, specie quando il Ruben, che sa indubbiamente tenere palco e pubblico, scheccava e sculettava nel suo completo elegante, dimostrando anche un sex appeal per niente arruginito (roba che, se avesse avuto trent’anni in meno, ci avrei fatto un pensierino volentieri; tanto è sicuramente una passiva). Le canzoni non posso nemmeno giudicarle adeguatamente, trattandosi di un genere con cui non ho nessuna familiarità, ma come intermezzo in attesa di un concerto sono state molto più piacevoli di quelle di altri supporter che ho dovuto subire nel corso degli anni.

Terminata la performance dei nostri vecchietti, è iniziato l’allestimento del monumentale palco dei Within Temptation, che ha previsto, oltre agli strumenti, due livelli collegati da scale, un sipario scorrevole che, unito al bordo del secondo livello, recava il logo dei Within Temptation ri-stilizzato a fenice come su The Unforgiving, un megaschermo alle spalle del tutto e un impianto di luci davvero faraonico, specie per gli standard dell’Alcatraz; nonostante il dispiego di forze tecnologiche, però, non ci sono state particolari sbavature o esagerazioni: a casa gli angeli di cartapesta, l’edera finta, le colonne con scritte in elfico, i troni e gli altri pezzi scenografici da imnaginario tipicamente Symphonic che nel 2011 sarebbero risultati pacchiani e anacronistici, indice di una maturazione della band avvenuta anche a livello estetico (diciamo “quasi”, ma questo punto lo spiegherò più avanti).
Con puntualità svizzera, alle 21 si sono spente le luci, il megaschermo si è illuminato dietro il sipario facendo risplendere la metà superiore della fenice, il sipario si è aperto, e l’inquietante Mother Maiden è comparsa sul megaschermo per raccontarci la stua storia e introdurre così il concerto, lasciando posto all’opener.

1. Shot In The Dark
2. In The Middle Of The Night
3. Faster
4. Fire And Ice
5. Ice Queen
6. The Howling
7. Our Solemn Hour
8. Stand My Ground
9. Sinéad
10. What Have You Done?
11. Iron
12. Angels
13. Memories
14. Deceiver Of Fools
15. Mother Earth

16. Stairway To The Skies

Lo show si è aperto con l’arrivo dei musicisti, che hanno preceduto una Sharon che, con la sua presenza, ha illuminato il palco ancora più dell’impressionante gioco di faretti. Con addosso il corpetto della copertina del singolo di Fater impreziosito da una cintura con fibbia in strass e pantaloni in pelle (inizialmente anche la giacchetta tamarra del video di Sinéad, ma per fortuna senza il famoso cannolo in testa), ha ingranato da subito fugando il timore suscitato dalle performance estive (discutibili per usare un eufemismo), dimostrandosi a proprio agio sia nella conduzione del palco che sulle linee vocali, senza strafare in nessuno dei due casi. Il terzetto d’apertura, tratto interamente da The Unforgiving, ha confermato l’impressione ricavata dall’ascolto dell’album, e cioè che si tratta di canzoni progettate per essere strepitose dal vivo, ognuna a modo suo. Se Shot In The Dark ha infatti immediatamente scaldato il pubblico con i suoi riff catchy e In The Middle Of The Night ha fatto esplodere il lato più metallico (headbanging, salti, corna agitate in aria), su Fater io e Luisa ci siamo immediatamente scatenati per muovere un po’ i bacini a ritmo di musica (un po’ di sana disco-dance sotto il palco dei Within Temptation l’avevamo in progetto sin dall’uscita del singolo). Sempre dall’ultimo album è tratta la prima ballad dello show, una Fire And Ice che dal vivo è scensa dritta al cuore (peccato che qualcuno avesse su la segreteria telefonica). Anche su questa canzone il riscontro del pubblico è stato notevole, ma è stato quando la band ha tirato fuori uno dei classici evergreen, l’ormai undicenne Ice Queen, che c’è stata una vera esplosione di coretti, salti e mani inaria, sicuramente incentivati da una Sharon in formissima che ha regalato una performance migliore anche delle varie registrazioni pubblicate nel corso degli anni, indice della maturità vocale che ha raggiunto. Sempre in retrospettiva le tre successive tracce, che hanno riproposto al pubblico il sinfonico a tinte dark del precedente full length con The Howling e Our Solemn Hour - la prima carica di energia e la seconda che, introdotta dal discorso di Churchill, ha permesso alla band di fare una breve pausa, con Sharon che è tornata sul palco con una specie di robo a metà fra una palandrana e vestaglia di dubbio gusto sopra l’outfit - e più classico con una intramontabile Stand My Ground, particolarmente apprezzata dal pubblico. È arrivato dunque il momento della seconda pausa, occupata dal cortometraggio di Sinéad, che ha introdotto la relativa canzone. Ora, una delle mie cose da fare assolutamente nella vita era ballare su questa canzone con Luisa al concerto, e considerando il ritmo martellante ed accattivante che ha assunto dal palco, la cosa è stata fatta con sommo piacere; dire che ci siamo scatenati e abbiamo sculettato come su una dancefloor è un eufemismo (fra l’altro Luisa balla davvero bene, dobbiamo fare una serata di discoteca casalinga con le nostre canzoni la prossima volta che ci troviamo anche con gli altri). Subito dopo, però, c’è stato uno degli episodi forse evitabili della serata, una What Have You Done? (con Keith Caputo ancora uomo registrato sia in audio che in video) indubbiamente ben eseguita ma che, a fronte di una cinquantina di canzoni all’attivo, avrebbe potuto benissimo cedere il posto a qualche titolo più interessante. Se non altro, noi perfide tacchine abbiamo ridacchaito un po’ alla faccia della cara Keith Mina, e io ho avuto modo di riprendermi per la successiva Iron, che si è confermata la Canzone Live Definitiva dei Within Temptation. Ho saltato, ho headbangato, ho agitato mani, corna, braccia e tutto il corpo, ho sudato tanto da dovermi sbottonare la camicia per non soffocare dal caldo e ho cantato a squarciagola. Peccato che, incomprensibilmente, il resto del pubblico non sembrasse aver gradito altrettanto: tolti noi pochi, sembrava di essere al Museo delle Cere di Madame Tussaud, cosa assolutamente assurda data la portata della canzone che, dal vivo, si è rivelata in tutta la sua magnificenza. Ancora più avvilente vedere i morti risvegliarsi con la successiva Angels che, per quanto singolo famoso e, nuovamente, ben eseguito, presenta gli stessi dubbi di What Have You Done? (The Silent Force ha canzoni ben più interessanti da offrire). Anche Memories, secondo lento della setata, avrebbe potuto essere sostituita con qualcosa di più fresco, ma grazie alla bellissima performance di Sharon, ha dimostrato di aver saputo resistere bene all’usura degli anni.
Altra pausa per la band, stavolta riempita dall’intro di un’altro dei classici, ovvero Deceiver Of Fools. Per l’occasione, Sharon ha rispolverato il suo timbro acido e cattivo per la gioia di molti (me compreso), riproponendo con freschezza e passione questo brano ormai decennale. Ma è stato con la canzone successiva, l’iconica e sempreverde Mother Earth (altra canzone da sentire assolutamente live prima di morire, per me), che lo show ha raggiunto il culmine, con Sharon che, alla sua solita danza con le mani, ha aggiunto anche degli ancheggiamenti sexy da epitassi (la parentesi con Armin van Buuren deve averle fatto davvero bene, a quanto pare). E brava la Sharona Milfona! Su questo finale di tutto rispetto, la band ha salutato il pubblico, tutt’altro che intenzionato a lasciarli andare tanto presto. Infatti, dopo una congrua dose di coretti, ecco partire la conclusione più degna alla serata, ovvero Stairway To The Skies. Tralasciando che ci vuole tutta la classe di Sharona Milfona per inciampare sui gradini mentre canta una canzone con questo titolo (fortuna che non ha fatto il capitombolo), oltre ad essere il perfetto finale per l’album da cui è tratta si è dimostrata anche il perfetto culmine emotivo per la performance, che non ha minimamente fatto rimpiangere la retrocessione di Ice Queen a inizio show. Ancora una volta, l’espressività di Sharon, genuina ma mai esagerata, ha fatto la differenza in un brano che fa dell’essere commovente in maniera sobria il suo punto di forza.

Tirando le somme, buona parte della magia dello show si è basata sulla performance di Sharon, sia come vocalist che come intrattenitrice. La gravidanza deve averle fatto davvero bene perché, sebbene il corpetto abbia ancora un buon margine di restringimento, di viso era semplicemente luminosa. Nonostante sia sulla soglia dei quaranta, si è mantenuta una donna di rara bellezza (non a caso è Sharona Milfona!) e, cosa ancora pià importante, né l’età, né le tre gravidanze hanno intaccato la sua voce, il punto su cui serpeggiava maggiore preoccupazione: ottima nel registro basso, in falsetto e anche col timbro cattivo. Gli altri musicisti hanno svolto il loro compito un po’ nelle retrovie, ma la cosa è abbastanza normale, considerando che la lunga assenza dalle scene della band avrebbe sicuramente catalizzato comunque lattenzione sulla frontwoman.
Come accennato sopra, la setlist è stata generalmente soddisfacente, ben bilanciata fra i vari album (considerando che ormai per Enter ci abbiamo perso le speranze) e con solo due episodi (e mezzo, con Memories) che avrebbero potuto essere sostituiti con qualcosa di migliore. Poi vabbè, personalmente avrei gradito The Promise al posto di Deceiver Of Fools, ma lì è una semplice questione di gusti.
Un punto che non ho invece apprezzato più di tanto è stato il megaschermo. Indubbiamente ottimo per la presentazione dei cortometraggi e per il cameo di Keith (Mina) Kaputo, l’ho trovato invece un elemento di disturbo durante le performance; se alcuni video erano semplicemente i clip delle canzoni (Sinéad, Angels, The Howling che ha fatto un mischione fra le due versioni) ed altri ne riprendevano blandamente il tema (Ice Queen con le montagne innevate, Our Solemn Hour con scene belliche, Mother Earth con vari panorami, Stand My Ground la pioggia davanti ai grattacieli, Memories con le foglie che cadono, i candelieri al soffitto e Sharon che vaga stile fantasma), altri erano piccoli cortometraggi inediti che tendevano a distrarre da ciò che stava succedendo nel palco, spesso anche con effetti speciali di dubbia efficacia (il video per Stairway To The Skies è stato abbastanza atroce). Ma come pecca non è nemmeno madornale, alla fine sta allo spettatore decidere dove dirigere l’attenzione, e Sharon si destreggia più che bene nel non faarsi rubare la scena dalle animazioni. In questo sta il famoso “quasi” riferito alla maturità visiva della band, visto che in questo ambito si è ancora un po’ strafatto.

In definitiva, comunque, la lunga attesa per questo concerto dei Within Temptation è stata più che ripagata. Una delle band più importanti della mia vita e che volevo assolutamente vedere in concerto mi ha regalato una performance assolutamente soddisfacente (top 5 assicurata), e spero vivamente in qualche altra data accessibile nel corso del tour (dovesse anche essere Londra, per dire). Bravi, Within Temptation, e a presto rivederci!

Sì, e ora?

There is love in your body, but you can’t hold it in.
It pours from your eyes and spills from your skin.
Tenderest touch leaves the darkest of marks
And the kindest of kisses break the hardest of hearts,
The hardest of hearts,
The hardest of hearts,
The hardest of hearts.

There is love in your body, but you can’t get it out.
It gets stuck in your head, won’t come out of your mouth,
Sticks to your tongue and shows on your face
That the sweetest of words have the bitterest taste.

Darling heart, I loved you from the start,
But you’ll never know what a fool I’ve been.
Darling heart, I loved you from the start,
But that’s no excuse for the state I’m in.

The hardest of hearts,
The hardest of hearts,
The hardest of hearts.

There is love in our bodies and it holds us together,
But pulls us apart when we’re holding each other.
We all want something to hold in the night,
We don’t care if it hurts or we’re holding too tight.

There is love in your body, but you can’t get it out.
It gets stuck in your head, won’t come out of your mouth,
Sticks to your tongue and shows on your face
That the sweetest of words have the bitterest taste.

Darling heart, I loved you from the start,
But you’ll never know what a fool I’ve been.
Darling heart, I loved you from the start,
But that’s no excuse for the state I’m in.

The hardest of hearts,
The hardest of hearts,
The hardest of hearts.

My heart swells like a water at work,
Can’t stop myself before it’s too late.
Hold on to your heart
‘Cause I’m coming to take it.
Hold on to your heart
‘Cause I’m coming to break it.

[ Hardest Of Hearts - Florence + The Machine ]

Nonostante il concerto di ieri, la canzone della giornata non è dei Within Temptation. Probabilmente sembrerà strano. Altrettanto probabilmente, lo è davvero.

Monday 17 October 2011

I don’t speak German, but I can if you like, awaah!

Il viaggio di stamattina alla volta di Milano per il concerto dei Within Temptation verrà sicuramente appuntato con menzione d’onore negli annali del LOL. È iniziato in maniera comica ed è continuato in maniera tragicomica, anche se, per fortuna, si è almeno concluso in maniera abbastanza normale.

Tanto per cominciare, stamattina ho fatto un sogno. Ho sognato che parlavo con Sharon den Adel del più e del meno e che, ad una certa, decidevamo di andare verso casa. Lungo la strada (di notte), ci troviamo ad attraversare un tunnel completamente buio, da non vedere a un palmo dal naso, così Sharon tira fuori un accendino (!) per fare luce, e io, per ridere un po’, mi metto a cantare un pezzo attinente di Deceiver Of Fools (“In my heart there is a place, in my heart there is a trace of a small fire burning”). Lei ride, riprendiamo a chiacchierare un po’, ed ecco che usciamo dal tunnel. A quel punto, stranamente è il tramonto (a rigor di logica potrebbe essere stata l’alba, ma per qualche strano motivo so che è il tramonto), e lo scenario è piuttosto diverso: siamo sul mare, con il lato di una falesia da una parte e una spiaggetta subito sotto, e noi percorriamo una specie di pontile in legno sollevato di una ventina di metri rispetto alla spiaggetta, che conduce a un altro tunnel sul lato della falesia. Ci sono anche altri pontili e piattaforme rialzate rispetto all’acqua, alcuni più bassi del nostro, altri alla stessa altezza, e sono gremiti, come la spiaggia, di bagnanti. Noi non ci facciamo particolarmente caso fino a che arriviamo ad un punto in cui il pontile piega a gomito per andare verso l’altro tunnel: lì vicino c’è infatti una piattaforma piena di persone travestite da vampiro (so che sono costumi perché stanno tranquillamente al sole; e non luccicano). A quel punto, indico una ragazza e dico a Sharon: “Guarda, c’è un cosplay di Sailor Mercury in versione vampiro, che figata!”. Lei commenta che il costume e il trucco sono ben fatti, e a quel punto io noto un ragazzo lì vicino. Mi sembra bello, ma non riesco a definirlo con precisione, così mi fermo ad osservarlo con interesse. Solo che Sharon mi fa: “Ale, non possiamo assolutamente fermarci. Siamo in ritardo, dobbiamo andare adesso”, e a quel punto mi sveglio. Fuori è buio, la luce non filtra ancora dalla tapparella, ma guardo comunque il cellulare per controllare l’ora. Le 6:24. Il mio treno è alle 7:04. La sveglia del cellulare, ancora impostata, non ha suonato.
Così, la giornata è iniziata con me che balzavo in piedi con un “Scheiße!” imprecato a mezza voce per non svegliare mezza casa.
Ad ogni modo, devo ringraziare Sharon, che era evidentemente impaziente di vedermi e ha quindi pensato di comparire in sogno per svegliarmi dicendomi che era tardi, perché pur saltando la colazione e non riuscendo a radermi la barba, il treno l’ho riacciuffato per un pelo.

Essendo la giornata cominciata con un “Scheiße!”, mentre andavo in stazione ho trovato appropriato mettere su Mamma Mostro, non sapendo che la cosa avrebbe portato a ulteriori sviluppi comici. La mia carrozza era infatti la numero 8, naturalmente in coda al treno. Mentre mi affrettavo a lato binario, arrivato al vagone 7 ho dato uno sguardo per accertarmi che non ci fossero controllori che facevano cenni di partenza, e sono arrivato al vagone 9, con la porta del precedente che non aveva il numero. Così, dato che la logica vuole che fra il 7 e il 9 ci sia l’8, sono salito anche se con la sensazione che qualcosa non andava. Ora, io ho il vizio di ascoltare la musica a volume tale che, quando cè silenzio (ma neanche troppo), si sente praticamente tutto nel raggio di dieci metri. Così, mentre irrompevo trafelato nello scomparto e trovavo una suora seduta tranquilla al mio posto, l’aria si riempiva gaiamente di “Judas, Juda-a-a. Judas, Juda-a-a, Judas Gagaaaa!”, con conseguente occhiata perplessa della suora e mio sorrisetto a metà fra l’imbarazzato e il trollface dell’ultimo secondo. Poi, dato che il mio posto era occupato, ho avuto l’illuminazione, sono andato a controllare l’altra porta del vagone, e ho scoperto che era effettivamente il 7, col controllore che mi ha gentilmente spiegato che la carrozza 8 era stata attaccata dopo la 9 per motivi non meglio specificati. Beh, meno male, ci mancava solo mettere assieme per un viaggio un ragazzo con le trecce nascoste sotto il cappello, Lady Gaga e Suor Babila (nome d’arte).

Si è parlato di trecce: volevo infatti farmi i capelli mossi, così li ho intrecciati ancora umidicci la sera prima per raggiungere il risultato. Ovviamente non ho avuto tempo di sistemarli prima di uscire, così ho espletato l’operazione nel bagno del secondo treno che ho preso... per un pelo. Infatti, l’intercity che sono quasi morto per prendere è partito in clamoroso ritardo, e sebbene abbia recuperato un po’ lungo la strada, ho acciuffato la coincidenza unicamente perché partiva dal binario accanto. È abbastanza evidente, a questo punto, che Santa Sharon mi vuole proprio nel pubblico, stasera. Il che è cosa buona e giusta, dato che è dal 2005 che smanio per vedere i Within Temptation live senza possibilità di farlo. Spero solo che stasera propongano una buona setlist, dato che vedere una band live per la prima volta al quinto album non dà molte sicurezze, in questo senso...

Monday 10 October 2011

Il mistero di Evanescence

Il nuovo album di Pescy & soci è una continua fonte di misteri. Molti di essi sono stati risolti da Cassandro – perché sia così brutto, perché ci sia voluto tanto, perché i testi siano così banali. Ma ce n’è uno che nemmeno io sono in grado di chiarire: perché buona parte delle canzoni migliori sono state relegate a bonus track invece che essere incluse nell’edizione regolare?
Ebbene, a ciò non so proprio dare risposta. Piuttosto scettico, ho scaricato oggi la deluxe edition e ho provato a dare una chance alle canzoni extra. Le quali, devo dirlo, mi hanno sorpreso.

La prima, New Way To Bleed, è un buon compromesso fra lo stile più genuino degli Evanescence e la nuova direzione che hanno intrapreso: più soft della scarica di hard rock da supermercato del resto dell’album, ha una bella strofa, un ottimo ritornello e una produzione molto più cesellata. Fra l’altro, il modo in cui Amy enfatizza il testo sfruttando accenti musicali e intervalli nella seconda strofa è davvero lodevole, e l’arpa sul bridge la impreziosisce ulteriormente. Per quale motivo sia solo una bonus track è davvero incomprensibile.
Say You Will segue invece grossomodo il trend dell’album: rock a tutti i costi, un po’ scontata, stufa piuttosto in fretta. La strofa è però interessante, e il ritornello, sebbene meliodicamente bruttino e urlato da Amy come se fosse al mercato del pesce, ha almeno il pregio di rimanere in testa volente o nolente. Come filler avrebbe fatto una figura molto migliore di The Other Side o Siccoviroll Siccoviroll, poco ma sicuro.
Disappear è un’altra canzone forse un po’ troppo ruffiana e americana, ma ha un ottimo ritmo. Ecco, qui sì che si sente il tanto declamato groove di cui Amy parla nelle interviste: coinvolge, fa venire voglia di muoversi a ritmo e ha un ritornello incalzante da cantare appresso. La sostanza non è tantissima, ma sarebbe stato un singolo di lancio molto migliore di Du Uocciuocciuon e avrebbe meritato un posto nell’album.
Infine, arriva Secret Door a dimostrare che ormai la strada di Amy è la cantautrice solista. Le ballate emozionanti sono sempre state il suo forte, e questa non fa eccezione: arpa e violoncello, con qualche sprazzo di pianoforte e del resto del quartetto d’archi, sostengono la sua voce (finalmente non urlata), regalando una canzone delicata e dal sapore intimo che non sfigura affatto accanto ai pezzi storici della band. Il fatto che sia stata relegata a bonus track dipende probabilmente dal fatto che ci sono già due ballate e mezza nell’album, ma sul serio, perché?

Ora, anche volendo considerare Say You Will per il filler che è, se queste quattro canzoni fossero andate nella regular al posto di Du Uocciuocciuon, The Other Side e Siccoviroll Siccoviroll, avremmo avuto un album con sei ottime canzoni, altre quattro salvabili e tre così così (se poi si fossero degnati di dare un ritornello alla povera Erase This invece di sprecare tutto quel potenziale, ancora meglio). Per quanto non brillante, Evanescence avrebbe così trovato un suo posto nella discografia della band. Ma con quelle tre ciofeche accompagnate da episodi riusciti a metà e buona parte delle cose andate bene relegate alla deluxe… mi spiace, mrs. Hartzel, si ripresenti al prossimo appello.
Ah già, non ci sarà un prossimo appello. “Sicker!”, quoth Cassandro.

Sunday 9 October 2011

Choice




Needed time to clear my mind and
Breathe the free air, find some peace there.
I used to keep my heart in jail but
Choice was love or fear of pain
and...

I...

Chose...

...



[ Anathema ]

Friday 7 October 2011

Inspirarti da strade piovose

Behind The Wheel by `DennisChunga

As I walk,
I breahte you in through rainy roads.
An invisible line
I follow in darkness; your sweet perfume
Set myself free.

[ Rainy Roads - Dama ]


Ps: corrette tutti ad ascoltare Eirwen dei Dama, è il miglior disco italiano dell’anno senza ombra di dubbio.

Friday 30 September 2011

Chiavi di ricerca - Settembre

Settembre: la gente torna dalle vacanze, riprende a usare internet, cerca delle cose improbabili e arriva al mio blog. In realtà, quello accade un po’ tutti i mesi dell’anno, ma negli ultimi trenta giorni se ne sono viste davvero delle belle, come non se ne vedevano dai tempi d’oro delle chiavi di ricerca. Buon divertimento, perché a questo giro si ride tanto!

italian gothicnarcissus from his deviantart site
ayl site:gothicdoor.splinder.com
nick chiron/ accademia delle belle arti di brera

A quanto pare, questo è il mese degli stalker.
belli e tenebrosi
Cercano sempre noi, in sostanza.
"gelato di grom" splinder
Mi chiedo proprio per quale motivo siano arrivati al mio blog...
sailor moon bunny piange
All’incirca ogni due scene e mezza...
sicker quoth cassandro
Il mio catchphrase inizia ad attecchire anche sul web, ottimo.
grecas decorativas
Muy hermosa y diosa y linda. Jajajaja! (Che sarebbe tutto lo spagnolo che so, assieme a “descargar”).
a cosa ha dato origine il dottor faust
A un bel sacco di roba, incluso uno dei mie Infernal Lords.
talmud manipulation
Giusto per rimanere in tema...
maledizione dell’ ultimo giorno
Quando per un verso o per l’altro uscivo infortunato da ogni ultimo giorno di scuola (materna, elementare, media...)
rosario dei 7 dolori della vergine
La cosa più comica di questa chiave di ricerca è che, ingrandendo la relativa foto su google, si apre questa pagina (ho controllato) con demoni, stralci di manga yaoi e gente a un concerto metal. Immagino già il colpo apoplettico che sarà preso alla fragile vecchietta che avrà visto la pagina.
"bustine da tè" bagaglio a mano
Se la Ryanair mi interdice pure quelle, giuro che dò loro fuoco.
limbos door porn evil angel
caccia mortale porn hamster

In base a cosa Google ritiene che il mio blog contenga film porno, di grazia?

voce evanescence live
Per rimanere in tema di cose oscene; magari la cercava qualche masochista che si eccita per il dolore ai timpani...
lucifero ti amo
Ok, lo ammetto: adoro leggere di queste uscite!
within temptation cristiani
Eh, non si vede? Specie su Mother Earth!
di cosa parla angels dei within temptation?
Di quanto i Within Temptation sono cristiani, è ovvio!
delusi dagli evanescence
Ancora una volta, mi chiedo come mai abbiano trovato il mio blog...
architetto tette splinder
Ammetto di apprezzare l’allitterazione, ma wtf?
far west kimono
In realtà ha più senso di quel che sembri, dato che ancora più a west del far west c’è il Giappone, però...
roger garth+dorian gray
= Bitch, please.
scopata in fiera
Mi ricorda una canzoncina che ideammo anni fa io e Giovix: “Alla fiera dell’est per due soldi un puttaniere Maria Paola trombò. E venne il giorno di fare il test, e le uscì positest, e Maria Paola nella merda si trovò...” E non è un’opera totalmente di fantasia.

Ed ecco il meglio di settembre:

un bel 5 nel culo
Qui mi vengono in mente i Nine Inch Nails: “Big time, hard line, bad luck, fist fuck.
"lanciare sarde"
Se si tratta di Meri, suggerirei il finestrino di un aereo in quota.

Tuesday 20 September 2011

Il dramma di Henrietta

Era certa di non aver ascoltato, di non aver prestato attenzione a ciò che la modella le diceva, eppure la consapevolezza di quanto meschina e spregevole fosse Doris era penetrata nella sua mente e aveva inconsapevolmente influenzato le sue mani.

Mi rivedo disperatamente nel dramma, abilmente descritto da Agatha Christie, della scultrice Henrietta Savernake che, basando la sua Nausicaa su una ragazza incontrata per strada, si è ritrovata ad aver inavvertitamente catturato nella sua scultura, oltre all’espressione vacua e i lineamenti che le interessavano, anche tutta la grettezza di Doris Sanders, una ragazza insulsa e volgarmente ciarliera che, mentre posava, ammorbava la povera artista con raccontini dei suoi inutili problemi con la moglie dell’uomo che le regalava costosi braccialetti (anche se no, non avevano fatto nulla di sconveniente e la signora era solo paranoica).
Questo discorso è spaventosamente vero anche per me. Riesco a fotografare le persone solo se voglio loro bene e le stimo, oppure se non le conosco affatto. Una volta che le conosco e scopro che sono sgradevoli, vuote, sciocche ed inutili, non riescono più a dare altro alla mia arte. L’idea di fotografarle diventa tutt’altro che attraente, e le eventuali foto escono fuori vuote, prive di sentimento, artificiose e banali.
(A questo proposito, mi sento autorizzato a considerare una prova della mia professionalità il fatto che ben pochi sembrano accorgersi di ciò: in un caso in cui ciò è capitato, la risposta dei fan, ed anche di parte della critica, è stata incredibilmente entusiastica. O sono ciechi loro, o davvero bravo io).

Pensiero random ispirato da Poirot e la Salma, l’ultimo libro che ho comprato e che sto attualmente leggendo.

Friday 16 September 2011

Auguri, GothicDoor V

Happy Birthday Nobody by ~alexortease
Un pochino è vero che il Male rappresenta la morte dei blog: quando ho un sassolino stupido da togliermi, a preferenza pubblico uno stato lì e la faccio finita, e qui invece posto soltanto quando ho delle cose (più o meno) articolate da dire. Non posso dire di starmi impegnando al massimo per evitare tutto ciò, ma cè anche da dire che è un periodo piuttosto piatto, e questo contribuisce a farmi trascurare il Teatro. Tuttavia, oggi è e rimane un giorno speciale, per tutto ciò che questo blog ha rappresentato e ancora rappresenta pr me.
Auguri, GothicDoor, anche dopo questo quinto anno.

Tuesday 13 September 2011

Ho fatto pace con Sally

Temo sia abbastanza inevitabile che, nonostante tutto, in questo periodo finirò per tornare su Amy Lee e gli Evanescence a più riprese. Perché, per quanto come Nell nessuna mai e non andrei letteralmente in capo al mondo per il concerto di nessun altro dopo i Theatre of Tragedy, è anche vero che il primo amore non si scorda mai. E, se mi soffermo a pensarci, gli Evanescence me li porterò dentro per tutta la vita, artisticamente parlando: basti solo pensare alla mia specialità fotografica, i ritratti integrati all’architettura, che sono riconducibili all’amore che ebbi per le promo di The Open Door; credo che il mio cuore palpiterà sempre nel fotografare qualcuno davanti a portoni, cancelli, finestre, inferriate, portefinestre e simili.

Detto ciò, dopo aver letto i testi di Evanescence (album), mi sono reso conto che il titolo non è tanto casuale quanto pensavo inizialmente. Non lo è affatto, anzi, ed Amy non scherzava quando diceva che parla della band. Nella fattispecie, è facile leggervi una montagna di rancore per la label e insofferenza verso la band, e il suo desiderio di libertà artistica. È tutto un susseguirsi di frustrazione per la situazione presente, rimpianto per gli errori passati e desiderio di libertà e ricongiungimento in futuro. Dato che l’intero album è praticamente una violenta dichiarazione di odio verso la pesante e soffocante macchina mediatica che si muove sotto il brand “Evanescence”, il titolo acquista senso.
Il che è comprensibile: vedersi costretta a suonare un genere di musica verso il quale ha perso interesse perché non ha avuto la schiettezza di decidere da che parte stare e dover mettere nel frattempo in pausa i progetti che davvero le stanno a cuore deve essere terribilmente avvilente. Considerando poi che ha avuto due anni estremamente frustranti a livello artistico (scrivere sotto la pressione del ritorno di Ben Moody e soci, e poi rifare tutto daccapo forzatamente perché alla label non piaceva) e che ora sarà costretta a fare buon viso a cattivo gioco ripetendo a manetta la stessa pappardella su quanto ama la musica che ha composto in ogni intervista, oltre a doverla riproporre live notte dopo notte fino alla fine del tour, è inevitabile che Amy finisca per farmi un po’ di compassione. Sottolineamo “un po’”, però: alla fine, ha semplicemente imaparato anche lei che si raccoglie ciò che si semina. Se non avesse voluto tenere il piede in due staffe ai tempi di decidersi sul da farsi, sondando il terreno per camminare da sola senza però sciogliere la band per non far rivoltare i fan, non si sarebbe ritrovata a gestire questo disastro, quindi le sta fin troppo bene.

A questo proposito, se considero che, appena finito di ascoltare il disco, la prima cosa che mi è venuta in mente è che non vedo l’ora di sentirla impegnata in un progetto ispirato e bello sulla scia di Swimming Home o Halfway Down The Stairs, mi sembra quasi assurdo, tre anni fa, di aver fatto il diavolo in quattro di fronte alla prospettiva degli Evanescence sciolti ed Amy Lee solista a fare chissà cosa lontano dal rock. Mi sento un po’ stupido per aver dato di matto per quello che, alla fine, sarebbe stata lo scenario migliore, e mi sento tristemente svuotato di una parte del rancore che nutro verso Amy (che, tuttavia, non riesco a perdonare per aver infangato il nome della band della mia adolescenza con mosse mediatiche di dubbio gusto e un album indegno, e per la montagna di bugie e sotterfugi verso i fan, nonostante sappia che la cosa le è sfuggita di mano e i suoi tentativi di apologia in The Change).
È vero che allora gli Evanescence erano ancora la vetta del mio Olimpo musicale, che ero in una fase di enormi cambiamenti nella mia vita e perdere uno dei miei punti fermi era una brutta prospettiva, che i Theatre of Tragedy erano entrati nel mio mondo da troppo poco tempo per rivelare la portata dell’amore che mi avrebbe legato a loro, che Forever Is The World sarebbe uscito a rivoluzionarmi nuovamente la vita e farmi innamorare di Nell solo un anno più tardi, che la mia deriva elettronica era ancora un’utopia perché avrei ascoltato Musique e Assembly solo pochi mesi più tardi, che non avevo ancora incontrato Kari Rueslåtten e non ero dunque stato battezzato al variopinto mondo delle cantanti soliste e le varie Emilie Simon, Florence Welch e Amanda Somerville - figurarsi Björk - dovevano ancora arrivare. Insomma, è vero che all’epoca non ero ancora musicalmente abbastanza maturo da uscire dal mio schemino dark e accogliere una novità del genere. Però resto sbalordito nel vedere un capovolgimento diametrale dei miei sentimenti verso i progetti musicali di Amy.

Poco fa, il mio iTunes mi ha passato Sally’s Song in riproduzione casuale, e l’ho messa in repeat per svariate volte perché mi sono accorto che mi piace. E dire che ho passato gli ultimi tre anni a odiare ciecamente quella canzone. In parte per i brutti ricordi che rievoca in virtù del periodo in cui è uscita. Ma soprattutto perché la consideravo il punto di non-ritorno della band, il momento in cui Amy ha capito di non averne più bisogno e da cui è partito tutto il dramma.
Oggi la mia visione è più chiara, e capisco che, Sally o no, il cuore di Amy aveva semplicemente smesso di battere per gli Evanescence, e forzarlo in quella direzione non ha portato ad altro che a un disastro. D
altro canto, ora comprendo il suo desiderio di libertà e innovazione: io stesso non ho più voglia né ispirazione di scattare le canoniche foto gotiche di qualche tempo fa, sento il bisogno di integrare con elementi eterogenei e ammiccare al fashion, e se mi obbligassero a tornare alle damine in corpetto e gonna lunga fine a se stesse finirei per fare qualcosa di poco ispirato.

Ottimo, noto di aver scritto un post enorme, confusionario e pieno di roba, e non ho proprio voglia di tentare di renderlo un tantino più organico e scorrevole. Basti sapere che la sostanza è che, per quanto non abbia ancora perdonato Amy per aver preso per i fondelli i fan e aver infangato la memoria della band con cui sono cresciuto sfruttandola prima per pararsi il sedere e poi perché non aveva scelta, la compatisco per il limbo artistico in cui è andata a ficcarsi. Però ben le sta, così impara, ecco. E Sally’s Song mi piace di nuovo.

Monday 12 September 2011

La vita di un artista

La vita di un artista è sregolata per definizione. Nessuna sorpresa, dato che se l’ispirazione ti cogie alle due e passa del mattino e non ti abbandona per ore, finisci a fare le sei e mezza scrivendo canzoni.
È stata una nottata proficua, tuttavia, dato che ho terminato due testi in più o meno avanzato stato di composizione, e riarrangiato una canzone e scritto più di tre quarti del suo testo da zero. L’immobilità uccide, ma sfogare l’ispirazione è un ottimo modo per raggirarla.

Fra le tante, credo  che l’ultimo testo che ho scritto sia l’unico in cui sembro un essere umano con dei sentimenti (gli altri due sono rispettivamente un affresco a tinte violentemente misantrope del personaggio di Dorian Gray e un monologo in cui spiego come e perché sono finito per diventare felicemente zitella). Non a caso, è dedicato alla Bloempje, e lei tira sempre fuori il meglio di me. Era tanto che aspettavo l’ispirazione giusta per scrivere questo testo, per cui sono doppiamente soddisfatto.
Ok, forse ora sarebbe il caso di andare a nanna, piuttosto che spiegare perché ho fatto mattina componendo musica così, all’improvviso. Ma qui sul Teatro ho solo fatto pochi accenni alla cosa, fino al mese prossimo non rovino la sorpresa a nessuno!

Oh, e a proposito: ieri notte, alla serata gaia, indovinate chi si è sporto verso il mio orecchio e mi ha detto che ballo “da dio” (nel momento in cui ero intento a pestare i piedi mentre scrivevo un messaggio, quindi dubito di aver dato questo gran spettacolo)?
Sì, esatto: uno stupido, stramaledetto vecio con la faccia smangiucchiata dalle rughe. Nessuna sorpresa che sia sempre più spinto sulla strada dell’eterosessualità. In compenso ho scoperto che limonare con me porta fortuna alle ragazze, poi si procurano incontri romantici dal nulla.

Saturday 10 September 2011

Evanescence, fra alti e bassi

È ottobre 2006: gli Evanescence, reduci dal successo plurimilionario del loro debutto internazionale Fallen, danno alle stampe la loro nuova fatica The Open Door. È dicembre 2007: dopo più di un anno di tour quasi ininterrotto, la band si prende una meritata pausa, per consentire, fra le altre cose, alla cantante Amy Lee di godersi il matrimonio da poco celebrato. Oggi, nel 2011, a cinque anni dalla precedente uscita discografica, e quattro dalla fine delle attività degne di nota, il quintetto americano torna per riproporci un nuovo full length, terzo con distribuzione internazionale sotto etichetta major e quarto in totale (contando anche il trascurato e quasi disconosciuto Origin). Per introdurre questo album non c’è davvero bisogno di ripercorrere nel dettaglio la storia della band, tanto travagliata da far invidia alla famiglia Forrester di Beautiful; piuttosto, è interessante descrivere i quattro anni intercorsi fra la fine del tour di The Open Door (concluso dopo l’ennesimo cambio di formazione) e l’uscita del nuovo disco.

Attenendosi strettamente alle fonti ufficiali, settembre 2008 vede, dopo un anno di silenzio, la pubblicazione da parte di una Amy Lee solista dell’acclamata cover di Sally’s Song per la compilation Nightmare Revisited, con la menzione, in un’intercista, dell’eventualità di una carriera solista. Alla dichiarazione seguono otto mesi di silenzio quasi assoluto finché, un bel giorno di maggio, Amy annuncia che un nuovo album degli Evanescence è alle porte, con materiale al quale aveva lavorato inizialmente con Will B. Hunt (produttore di Sally’s Song, da non confondersi con l’attuale batterista), e solo successivamente con Terry Balsamo e Tim McCord, unici membri ufficiali ancora nella band. Fioccano le notizie e i tweet sulla direzione electropop e decisamente poco rock dell’album fino a che, circa un anno dopo e a registrazioni praticamente ultimate sotto il produttore Steve Lillywhite, la cantante sente il bisogno (dopo aver fatto ascoltare l’album alla label) di tornare in studio per dare gli “ultimi ritocchi”, che si protraggono per altri otto mesi e includono la riscrittura ex novo dell’album in direzione assolutamente rock, “dark and epic” (cit.), sotto la produzione di Nick Raskulinecz e con la riconferma della stessa formazione che aveva concluso il tour di The Open DoorWill Hunt alla batteria e Troy McLawhorn alla chitarra. La vocalist annuncia che si tratta di un lavoro che coinvolge tutta la band in fase di scrittura (contrariamente ai precedenti album) e, per questo, si chiamerà “Evanescence”, come la band stessa (e il suo primo, scomodo EP del 1998, recentemente degradato a “compilation fatta dai fan” dalle parole della stessa Amy Lee).

Stando invece agli osservatori più scaltri malevoli, si può speculare che Amy volesse lasciar morire la band di vecchiaia concentrandosi sul progetto solista (sull’onda del successo di Sally’s Song), l’abbia tirata fuori sotto preciso ordine della label causa arrivo dei We Are The Fallen (Amy dichiara che la nuova band non ha nulla a che vedere con lei, ma l’annuncio del nuovo album degli Evanescence ha casualmente seguito di pochi giorni quello di Ben Moody), abbia cercato di riconvertire le canzoni del progetto solista in lavori per la band per guadagnare tempo, la label abbia giudicato l’esperimento fallito e abbia spedito la cantante a riscrivere un album di più sicuro impatto commerciale.
Ma queste sarebbero, appunto, solo speculazioni se non fossero avallate dal tenore generale del nuovo full length.


Evanescence si presenta infatti come un album fortemente altalenante, che a momenti di pregevolezza e godibilità ne alterna altri fiacchi, talmente poco coinvolgenti da non essere nemmeno radio-friendly. Tutto ciò non solo fra una canzone e l’altra: anche negli stessi brani si notano oscillazioni fra parti anche interessanti, ma che vengono demolite da altre di una banalità sconvolgente, solitamente nei ritornelli (che sono il vero tallone d’achille della maggior parte del disco). L’impressione generale è di genericità: sono quasi del tutto assenti sia la vena sofisticata e (entro certi limiti) sperimentale che ha caratterizzato il coraggioso ma commercialmente fallimentare The Open Door (che ha venduto sì e no un terzo del predecessore), sia le atmosfere intense e drammatiche del multimilionario Fallen (non parliamo poi del soffuso gothic rock a tinte darkwave di Origin), a favore di un rock nudo e crudo che, se non fosse per la riconoscibile voce di Amy Lee, potrebbe essere stato pubblicato da una qualsiasi band d’Oltreoceano. A parte la clamorosa assenza della tanto sbandierata elettronica, relegata a pochi sprazzi sullo sfondo, l’album punta tutto su chitarre onnipresenti e una batteria martellante, trascurando perfino archi e pianoforte, da sempre elemento chiave del sound degli Evanescence ma ridotti stavolta a spennellate occasionali; perfino il vero trademark della band, la voce di Amy Lee (che appare affaticata – eufemismo – perfino in studio), risulta in qualche modo penalizzato da linee vocali banali e talmente ammiccanti alla radio che, se facessero l’occhiolino, a momenti non aprirebbero più la palpebra.

L’album si apre in bruttezza con What You Want, singolo di traino di rara bruttezza che, sebbene accolto con fedele entusiasmo dai fan più affezionati, desta non poche perplessità per le linee vocali banali (quasi quanto il testo) e una ruffianeria generale da far impallidire la già radiofonica Call Me When You’re Sober; è una tipica canzone da radio rock americana usa e getta, che non lascia nessun sapore e che, come opener, non fa ben sperare.
Sulla stessa linea è l’intro pretenzioso di Made Of Stone, una cantonata hard rock che lascia pochi dubbi sulla direzione stilistica del disco; sfocia in una strofa moscia che, sebbene impreziosita da chitarre più elaborate, perde anche quel poco di smalto in un ritornello assolutamente banale. L’unico elemento degno di nota è il bridge, che vede protagonista un piano d
ispirazione classicheggiante (riconoscibile da uno dei video twittati da Amy in fase di produzione).
The Change, la terza traccia, si apre finalmente con un accenno di sintetizzatore e mostra un sound più morbido e peculiare, con una linea vocale più ricca che finalmente suona “Evanescence”. La strofa, vagamente reminescente di All That I’m Living For, sfocia in un ritornello che convince grazie a una melodia orecchiabile ma non banale. In definitiva, il primo episodio positivo dall’apertura.
Il quarto brano, My Heart Is Broken, è (a dispetto del titolo ultra-cliché) una delle highlight dell’album. Sorprende l’ascoltatore da subito, iniziando come una ballata per piano e voce ma introducendo immediatamente una batteria mid-tempo e chitarre ben presenti, che tuttavia non soffocano la bella melodia che richiama i tempi d’oro della band. Lodevole la linea vocale, da subito interessante e layerizzata nei ritornelli con vari inserti di seconde voci (cosa generalmente poco presente nelle altre tracce, e che indica poca cura nel cesellare i dettagli).
La successiva The Other Side è un nome già noto. Proposta live nelle performance di quest’estate, si era già fatta riconoscere come uno dei filler, con una melodia talmente insipida da richiamare quel buio episodio discografico che è la sua omonima scritta dai Sirenia. La versione di studio conferma l’impressione e le linee vocali, sebbene epurate dalle stonature sentite nel live, si mostrano in tutta la loro inutilità.
Erase This è una delle canzoni più frustranti dell’album. Introdotta da un frenetico arpeggio di piano sostenuto da una batteria martellante, a cui si uniscono chitarre sincopate e una bella melodia vocale nella strofa, avrebbe potuto essere un’altra delle highlight del disco. Ma poi si arriva all’inizio della seconda strofa e ci si chiede che fine abbia fatto il ritornello: quando poi si realizza che era quello stacchetto moscio infilato fra una strofa e l’altra, la canzone scade definitivamente in una seconda parte inutile e anonima. È forse questo il migliore esempio di come quest’album offra dei buoni spunti ma finisca puntualmente per perdersi in un bicchier d’acqua.
Le sorti del disco vengono stavolta risollevate dalla prima vera ballad: Lost In Paradise inizia con un pianoforte minimalista che sostiene una Amy dalla voce ariosa ed emozionante come mai prima (sebbene con un po’ troppo fiato nel tentativo di essere ancora più soffusa, ma dato l’ottima interpretazione la perdoniamo volentieri). Un violoncello solista seguito poco dopo dal resto del quartetto d
archi è l’unico nuovo inserto fino alla fine del ritornello, quando il resto della band irrompe, impreziosendo la traccia in maniera superlativa – ai livelli di episodi fortunati come Lithium o la Band Version di My Immortal. È ballata ricca ed intima, ma non pacchiana o strappalacrime a tutti i costi.
Rifrancato lo spirito, l’intro elettronico e vagamente reminescente della demo Surrender (inedito della sessione di Fallen) della successiva Sick lascia ben sperare. Peccato che la strofa perda subito grinta, fino a sfociare in un ritornello ripetitivo e di una bruttezza davvero rara. La canzone prosegue in un polpettone dove i vari elementi si susseguono monotoni e difficilmente distinguibili, e la voce filtrata di Amy che emerge in una pausa della schiacciasassi di chitarre nella ripresa del ritornello catalizza l’attenzione a mala pena per un secondo e mezzo.
Forse è anche per la pochezza di Sick che la successiva End Of The Dream (o
of the nightmare?) riesce a fare bella figura, con un andamento godibile e una linea vocale davvero bella. Ancora una volta, il ritornello è un po’ sottotono, ma non abbastanza da compromettere la riuscita della canzone, che si attesta più sulla lode che sullinfamia.
Oceans è un’altra delle nuove canzoni presentate live, e già in quella sede, nonostante le imprecisioni di Amy, si è dimostrata un pezzo relativamente valido. La resa sull’album le fa guadagnare ulteriori punti con una bella presenza di sintetizzatori ed archi, una linea vocale dinamica, un ritmo accattivante e il primo vero ritornello rock dell’album. Lodevole è anche l’outro di violini.
Never Go Back è un altro pezzo ben riuscito. Pesante senza essere banale (rasenta il metal), con una struttura che riserva piccole sorprese (il momento di quiete nella seconda strofa), un ritornello azzeccato nel suo essere appena più tranquillo della strofa, un pianoforte che spicca anche sul tappeto di chitarre (specie nel particolarmente lodevole bridge) e una performance di tutto rispetto da parte di Amy, rappresenta un perfetto climax per l’album in vista della chiusura, sebbene alla lunga tenda a stancare un po
.
La chiusura in questione è affidata a Swimming Home, unica superstite riconoscibile della sessione di Lillywhite e piccola perla dell’album. Un delicato connubio di elettronica di stampo Björk-esco, pianoforte, arpa e vocals quasi eteree, messa alla fine di un album così incostante fa sorgere il pensiero che forse, dopo tutto, sarebbe stato meglio se Amy avesse seguito il suo cuore e fosse andata a fare la solista piuttosto che riesumare una band per la quale ha evidentemente perso ogni interesse. (Fra l’altro, se è vero che, come dice lei, le canzoni parlano del suo rapporto con la band compreso presunto reinnamoramento, in questa è facile leggere una dichiarazione di rassegnato amore alla sua creatura solista, in pausa a tempo indeterminato).

In definitiva, l’album è tirato sopra la sufficienza solo da alcuni episodi particolarmente fortunati, che sono però circondati da materiale alla meglio mediocre. Non è sorprendente, considerando che si tratta di un disco scritto in fretta e furia, in maniera forzata e, molto probabilmente, col preciso intento di creare un prodotto vendibile. Contestualizzato in questa maniera, è anche comprensibile perché il lavoro soddisfi solo in parte ma, messo in prospettiva col resto della discografia della band, lascia molto amaro in bocca, nonostante il nucleo di canzoni migliori sia stato appositamente tenuto per il finale in modo da addolcire la pillola.
A dispetto delle spiegazioni di Amy Lee, il titolo “Evanescence” sembrerebbe più dettato dalla poca voglia di spremersi le meningi, a meno che non sia un’allusione a quanto evanescenti siano le tracce del sound caratteristico della band in mezzo a questa profusione di rock preconfezionato. E a questo proposito, una piccola menzione va anche alla copertina, che non è altro che un fractal assolutamente random su sfondo nero, fatto in non più di dieci minuti e senza reale interesse, che ben si accompagna ad un album a cui, fondamentalmente, manca la sostanza, l’anima. I pochi episodi del tutto positivi non valgono certo un’attesa di ben cinque anni e, se non avessi smesso da tempo di strapparmi i capelli per la band, dentro di me sarei rimasto ferocemente deluso, sebbene in superficie avrei sostenuto una silenziosa ma strenua lotta per farmi piacere tutto l’album a forza come molti fan staranno, comprensibilmente, facendo. Prima di decidere per l’acquisto, attenderò di vedere se le bonus track hanno da aggiungere qualcosa di interessante a un pacchetto che, al livello attuale, non varrà certo il prezzo a cui verrà proposto.

Il terzo album degli Evanescence sotto Wind-up è dunque uscito, il contratto è onorato e si può presumere che non ci saranno più obblighi in tal senso, un volta terminato il tour promozionale. Non resta che vedere cosa ci riserverà il futuro della band, anche se per Cassandro non è difficile immaginarlo.