Friday 30 September 2011

Chiavi di ricerca - Settembre

Settembre: la gente torna dalle vacanze, riprende a usare internet, cerca delle cose improbabili e arriva al mio blog. In realtà, quello accade un po’ tutti i mesi dell’anno, ma negli ultimi trenta giorni se ne sono viste davvero delle belle, come non se ne vedevano dai tempi d’oro delle chiavi di ricerca. Buon divertimento, perché a questo giro si ride tanto!

italian gothicnarcissus from his deviantart site
ayl site:gothicdoor.splinder.com
nick chiron/ accademia delle belle arti di brera

A quanto pare, questo è il mese degli stalker.
belli e tenebrosi
Cercano sempre noi, in sostanza.
"gelato di grom" splinder
Mi chiedo proprio per quale motivo siano arrivati al mio blog...
sailor moon bunny piange
All’incirca ogni due scene e mezza...
sicker quoth cassandro
Il mio catchphrase inizia ad attecchire anche sul web, ottimo.
grecas decorativas
Muy hermosa y diosa y linda. Jajajaja! (Che sarebbe tutto lo spagnolo che so, assieme a “descargar”).
a cosa ha dato origine il dottor faust
A un bel sacco di roba, incluso uno dei mie Infernal Lords.
talmud manipulation
Giusto per rimanere in tema...
maledizione dell’ ultimo giorno
Quando per un verso o per l’altro uscivo infortunato da ogni ultimo giorno di scuola (materna, elementare, media...)
rosario dei 7 dolori della vergine
La cosa più comica di questa chiave di ricerca è che, ingrandendo la relativa foto su google, si apre questa pagina (ho controllato) con demoni, stralci di manga yaoi e gente a un concerto metal. Immagino già il colpo apoplettico che sarà preso alla fragile vecchietta che avrà visto la pagina.
"bustine da tè" bagaglio a mano
Se la Ryanair mi interdice pure quelle, giuro che dò loro fuoco.
limbos door porn evil angel
caccia mortale porn hamster

In base a cosa Google ritiene che il mio blog contenga film porno, di grazia?

voce evanescence live
Per rimanere in tema di cose oscene; magari la cercava qualche masochista che si eccita per il dolore ai timpani...
lucifero ti amo
Ok, lo ammetto: adoro leggere di queste uscite!
within temptation cristiani
Eh, non si vede? Specie su Mother Earth!
di cosa parla angels dei within temptation?
Di quanto i Within Temptation sono cristiani, è ovvio!
delusi dagli evanescence
Ancora una volta, mi chiedo come mai abbiano trovato il mio blog...
architetto tette splinder
Ammetto di apprezzare l’allitterazione, ma wtf?
far west kimono
In realtà ha più senso di quel che sembri, dato che ancora più a west del far west c’è il Giappone, però...
roger garth+dorian gray
= Bitch, please.
scopata in fiera
Mi ricorda una canzoncina che ideammo anni fa io e Giovix: “Alla fiera dell’est per due soldi un puttaniere Maria Paola trombò. E venne il giorno di fare il test, e le uscì positest, e Maria Paola nella merda si trovò...” E non è un’opera totalmente di fantasia.

Ed ecco il meglio di settembre:

un bel 5 nel culo
Qui mi vengono in mente i Nine Inch Nails: “Big time, hard line, bad luck, fist fuck.
"lanciare sarde"
Se si tratta di Meri, suggerirei il finestrino di un aereo in quota.

Tuesday 20 September 2011

Il dramma di Henrietta

Era certa di non aver ascoltato, di non aver prestato attenzione a ciò che la modella le diceva, eppure la consapevolezza di quanto meschina e spregevole fosse Doris era penetrata nella sua mente e aveva inconsapevolmente influenzato le sue mani.

Mi rivedo disperatamente nel dramma, abilmente descritto da Agatha Christie, della scultrice Henrietta Savernake che, basando la sua Nausicaa su una ragazza incontrata per strada, si è ritrovata ad aver inavvertitamente catturato nella sua scultura, oltre all’espressione vacua e i lineamenti che le interessavano, anche tutta la grettezza di Doris Sanders, una ragazza insulsa e volgarmente ciarliera che, mentre posava, ammorbava la povera artista con raccontini dei suoi inutili problemi con la moglie dell’uomo che le regalava costosi braccialetti (anche se no, non avevano fatto nulla di sconveniente e la signora era solo paranoica).
Questo discorso è spaventosamente vero anche per me. Riesco a fotografare le persone solo se voglio loro bene e le stimo, oppure se non le conosco affatto. Una volta che le conosco e scopro che sono sgradevoli, vuote, sciocche ed inutili, non riescono più a dare altro alla mia arte. L’idea di fotografarle diventa tutt’altro che attraente, e le eventuali foto escono fuori vuote, prive di sentimento, artificiose e banali.
(A questo proposito, mi sento autorizzato a considerare una prova della mia professionalità il fatto che ben pochi sembrano accorgersi di ciò: in un caso in cui ciò è capitato, la risposta dei fan, ed anche di parte della critica, è stata incredibilmente entusiastica. O sono ciechi loro, o davvero bravo io).

Pensiero random ispirato da Poirot e la Salma, l’ultimo libro che ho comprato e che sto attualmente leggendo.

Friday 16 September 2011

Auguri, GothicDoor V

Happy Birthday Nobody by ~alexortease
Un pochino è vero che il Male rappresenta la morte dei blog: quando ho un sassolino stupido da togliermi, a preferenza pubblico uno stato lì e la faccio finita, e qui invece posto soltanto quando ho delle cose (più o meno) articolate da dire. Non posso dire di starmi impegnando al massimo per evitare tutto ciò, ma cè anche da dire che è un periodo piuttosto piatto, e questo contribuisce a farmi trascurare il Teatro. Tuttavia, oggi è e rimane un giorno speciale, per tutto ciò che questo blog ha rappresentato e ancora rappresenta pr me.
Auguri, GothicDoor, anche dopo questo quinto anno.

Tuesday 13 September 2011

Ho fatto pace con Sally

Temo sia abbastanza inevitabile che, nonostante tutto, in questo periodo finirò per tornare su Amy Lee e gli Evanescence a più riprese. Perché, per quanto come Nell nessuna mai e non andrei letteralmente in capo al mondo per il concerto di nessun altro dopo i Theatre of Tragedy, è anche vero che il primo amore non si scorda mai. E, se mi soffermo a pensarci, gli Evanescence me li porterò dentro per tutta la vita, artisticamente parlando: basti solo pensare alla mia specialità fotografica, i ritratti integrati all’architettura, che sono riconducibili all’amore che ebbi per le promo di The Open Door; credo che il mio cuore palpiterà sempre nel fotografare qualcuno davanti a portoni, cancelli, finestre, inferriate, portefinestre e simili.

Detto ciò, dopo aver letto i testi di Evanescence (album), mi sono reso conto che il titolo non è tanto casuale quanto pensavo inizialmente. Non lo è affatto, anzi, ed Amy non scherzava quando diceva che parla della band. Nella fattispecie, è facile leggervi una montagna di rancore per la label e insofferenza verso la band, e il suo desiderio di libertà artistica. È tutto un susseguirsi di frustrazione per la situazione presente, rimpianto per gli errori passati e desiderio di libertà e ricongiungimento in futuro. Dato che l’intero album è praticamente una violenta dichiarazione di odio verso la pesante e soffocante macchina mediatica che si muove sotto il brand “Evanescence”, il titolo acquista senso.
Il che è comprensibile: vedersi costretta a suonare un genere di musica verso il quale ha perso interesse perché non ha avuto la schiettezza di decidere da che parte stare e dover mettere nel frattempo in pausa i progetti che davvero le stanno a cuore deve essere terribilmente avvilente. Considerando poi che ha avuto due anni estremamente frustranti a livello artistico (scrivere sotto la pressione del ritorno di Ben Moody e soci, e poi rifare tutto daccapo forzatamente perché alla label non piaceva) e che ora sarà costretta a fare buon viso a cattivo gioco ripetendo a manetta la stessa pappardella su quanto ama la musica che ha composto in ogni intervista, oltre a doverla riproporre live notte dopo notte fino alla fine del tour, è inevitabile che Amy finisca per farmi un po’ di compassione. Sottolineamo “un po’”, però: alla fine, ha semplicemente imaparato anche lei che si raccoglie ciò che si semina. Se non avesse voluto tenere il piede in due staffe ai tempi di decidersi sul da farsi, sondando il terreno per camminare da sola senza però sciogliere la band per non far rivoltare i fan, non si sarebbe ritrovata a gestire questo disastro, quindi le sta fin troppo bene.

A questo proposito, se considero che, appena finito di ascoltare il disco, la prima cosa che mi è venuta in mente è che non vedo l’ora di sentirla impegnata in un progetto ispirato e bello sulla scia di Swimming Home o Halfway Down The Stairs, mi sembra quasi assurdo, tre anni fa, di aver fatto il diavolo in quattro di fronte alla prospettiva degli Evanescence sciolti ed Amy Lee solista a fare chissà cosa lontano dal rock. Mi sento un po’ stupido per aver dato di matto per quello che, alla fine, sarebbe stata lo scenario migliore, e mi sento tristemente svuotato di una parte del rancore che nutro verso Amy (che, tuttavia, non riesco a perdonare per aver infangato il nome della band della mia adolescenza con mosse mediatiche di dubbio gusto e un album indegno, e per la montagna di bugie e sotterfugi verso i fan, nonostante sappia che la cosa le è sfuggita di mano e i suoi tentativi di apologia in The Change).
È vero che allora gli Evanescence erano ancora la vetta del mio Olimpo musicale, che ero in una fase di enormi cambiamenti nella mia vita e perdere uno dei miei punti fermi era una brutta prospettiva, che i Theatre of Tragedy erano entrati nel mio mondo da troppo poco tempo per rivelare la portata dell’amore che mi avrebbe legato a loro, che Forever Is The World sarebbe uscito a rivoluzionarmi nuovamente la vita e farmi innamorare di Nell solo un anno più tardi, che la mia deriva elettronica era ancora un’utopia perché avrei ascoltato Musique e Assembly solo pochi mesi più tardi, che non avevo ancora incontrato Kari Rueslåtten e non ero dunque stato battezzato al variopinto mondo delle cantanti soliste e le varie Emilie Simon, Florence Welch e Amanda Somerville - figurarsi Björk - dovevano ancora arrivare. Insomma, è vero che all’epoca non ero ancora musicalmente abbastanza maturo da uscire dal mio schemino dark e accogliere una novità del genere. Però resto sbalordito nel vedere un capovolgimento diametrale dei miei sentimenti verso i progetti musicali di Amy.

Poco fa, il mio iTunes mi ha passato Sally’s Song in riproduzione casuale, e l’ho messa in repeat per svariate volte perché mi sono accorto che mi piace. E dire che ho passato gli ultimi tre anni a odiare ciecamente quella canzone. In parte per i brutti ricordi che rievoca in virtù del periodo in cui è uscita. Ma soprattutto perché la consideravo il punto di non-ritorno della band, il momento in cui Amy ha capito di non averne più bisogno e da cui è partito tutto il dramma.
Oggi la mia visione è più chiara, e capisco che, Sally o no, il cuore di Amy aveva semplicemente smesso di battere per gli Evanescence, e forzarlo in quella direzione non ha portato ad altro che a un disastro. D
altro canto, ora comprendo il suo desiderio di libertà e innovazione: io stesso non ho più voglia né ispirazione di scattare le canoniche foto gotiche di qualche tempo fa, sento il bisogno di integrare con elementi eterogenei e ammiccare al fashion, e se mi obbligassero a tornare alle damine in corpetto e gonna lunga fine a se stesse finirei per fare qualcosa di poco ispirato.

Ottimo, noto di aver scritto un post enorme, confusionario e pieno di roba, e non ho proprio voglia di tentare di renderlo un tantino più organico e scorrevole. Basti sapere che la sostanza è che, per quanto non abbia ancora perdonato Amy per aver preso per i fondelli i fan e aver infangato la memoria della band con cui sono cresciuto sfruttandola prima per pararsi il sedere e poi perché non aveva scelta, la compatisco per il limbo artistico in cui è andata a ficcarsi. Però ben le sta, così impara, ecco. E Sally’s Song mi piace di nuovo.

Monday 12 September 2011

La vita di un artista

La vita di un artista è sregolata per definizione. Nessuna sorpresa, dato che se l’ispirazione ti cogie alle due e passa del mattino e non ti abbandona per ore, finisci a fare le sei e mezza scrivendo canzoni.
È stata una nottata proficua, tuttavia, dato che ho terminato due testi in più o meno avanzato stato di composizione, e riarrangiato una canzone e scritto più di tre quarti del suo testo da zero. L’immobilità uccide, ma sfogare l’ispirazione è un ottimo modo per raggirarla.

Fra le tante, credo  che l’ultimo testo che ho scritto sia l’unico in cui sembro un essere umano con dei sentimenti (gli altri due sono rispettivamente un affresco a tinte violentemente misantrope del personaggio di Dorian Gray e un monologo in cui spiego come e perché sono finito per diventare felicemente zitella). Non a caso, è dedicato alla Bloempje, e lei tira sempre fuori il meglio di me. Era tanto che aspettavo l’ispirazione giusta per scrivere questo testo, per cui sono doppiamente soddisfatto.
Ok, forse ora sarebbe il caso di andare a nanna, piuttosto che spiegare perché ho fatto mattina componendo musica così, all’improvviso. Ma qui sul Teatro ho solo fatto pochi accenni alla cosa, fino al mese prossimo non rovino la sorpresa a nessuno!

Oh, e a proposito: ieri notte, alla serata gaia, indovinate chi si è sporto verso il mio orecchio e mi ha detto che ballo “da dio” (nel momento in cui ero intento a pestare i piedi mentre scrivevo un messaggio, quindi dubito di aver dato questo gran spettacolo)?
Sì, esatto: uno stupido, stramaledetto vecio con la faccia smangiucchiata dalle rughe. Nessuna sorpresa che sia sempre più spinto sulla strada dell’eterosessualità. In compenso ho scoperto che limonare con me porta fortuna alle ragazze, poi si procurano incontri romantici dal nulla.

Saturday 10 September 2011

Evanescence, fra alti e bassi

È ottobre 2006: gli Evanescence, reduci dal successo plurimilionario del loro debutto internazionale Fallen, danno alle stampe la loro nuova fatica The Open Door. È dicembre 2007: dopo più di un anno di tour quasi ininterrotto, la band si prende una meritata pausa, per consentire, fra le altre cose, alla cantante Amy Lee di godersi il matrimonio da poco celebrato. Oggi, nel 2011, a cinque anni dalla precedente uscita discografica, e quattro dalla fine delle attività degne di nota, il quintetto americano torna per riproporci un nuovo full length, terzo con distribuzione internazionale sotto etichetta major e quarto in totale (contando anche il trascurato e quasi disconosciuto Origin). Per introdurre questo album non c’è davvero bisogno di ripercorrere nel dettaglio la storia della band, tanto travagliata da far invidia alla famiglia Forrester di Beautiful; piuttosto, è interessante descrivere i quattro anni intercorsi fra la fine del tour di The Open Door (concluso dopo l’ennesimo cambio di formazione) e l’uscita del nuovo disco.

Attenendosi strettamente alle fonti ufficiali, settembre 2008 vede, dopo un anno di silenzio, la pubblicazione da parte di una Amy Lee solista dell’acclamata cover di Sally’s Song per la compilation Nightmare Revisited, con la menzione, in un’intercista, dell’eventualità di una carriera solista. Alla dichiarazione seguono otto mesi di silenzio quasi assoluto finché, un bel giorno di maggio, Amy annuncia che un nuovo album degli Evanescence è alle porte, con materiale al quale aveva lavorato inizialmente con Will B. Hunt (produttore di Sally’s Song, da non confondersi con l’attuale batterista), e solo successivamente con Terry Balsamo e Tim McCord, unici membri ufficiali ancora nella band. Fioccano le notizie e i tweet sulla direzione electropop e decisamente poco rock dell’album fino a che, circa un anno dopo e a registrazioni praticamente ultimate sotto il produttore Steve Lillywhite, la cantante sente il bisogno (dopo aver fatto ascoltare l’album alla label) di tornare in studio per dare gli “ultimi ritocchi”, che si protraggono per altri otto mesi e includono la riscrittura ex novo dell’album in direzione assolutamente rock, “dark and epic” (cit.), sotto la produzione di Nick Raskulinecz e con la riconferma della stessa formazione che aveva concluso il tour di The Open DoorWill Hunt alla batteria e Troy McLawhorn alla chitarra. La vocalist annuncia che si tratta di un lavoro che coinvolge tutta la band in fase di scrittura (contrariamente ai precedenti album) e, per questo, si chiamerà “Evanescence”, come la band stessa (e il suo primo, scomodo EP del 1998, recentemente degradato a “compilation fatta dai fan” dalle parole della stessa Amy Lee).

Stando invece agli osservatori più scaltri malevoli, si può speculare che Amy volesse lasciar morire la band di vecchiaia concentrandosi sul progetto solista (sull’onda del successo di Sally’s Song), l’abbia tirata fuori sotto preciso ordine della label causa arrivo dei We Are The Fallen (Amy dichiara che la nuova band non ha nulla a che vedere con lei, ma l’annuncio del nuovo album degli Evanescence ha casualmente seguito di pochi giorni quello di Ben Moody), abbia cercato di riconvertire le canzoni del progetto solista in lavori per la band per guadagnare tempo, la label abbia giudicato l’esperimento fallito e abbia spedito la cantante a riscrivere un album di più sicuro impatto commerciale.
Ma queste sarebbero, appunto, solo speculazioni se non fossero avallate dal tenore generale del nuovo full length.


Evanescence si presenta infatti come un album fortemente altalenante, che a momenti di pregevolezza e godibilità ne alterna altri fiacchi, talmente poco coinvolgenti da non essere nemmeno radio-friendly. Tutto ciò non solo fra una canzone e l’altra: anche negli stessi brani si notano oscillazioni fra parti anche interessanti, ma che vengono demolite da altre di una banalità sconvolgente, solitamente nei ritornelli (che sono il vero tallone d’achille della maggior parte del disco). L’impressione generale è di genericità: sono quasi del tutto assenti sia la vena sofisticata e (entro certi limiti) sperimentale che ha caratterizzato il coraggioso ma commercialmente fallimentare The Open Door (che ha venduto sì e no un terzo del predecessore), sia le atmosfere intense e drammatiche del multimilionario Fallen (non parliamo poi del soffuso gothic rock a tinte darkwave di Origin), a favore di un rock nudo e crudo che, se non fosse per la riconoscibile voce di Amy Lee, potrebbe essere stato pubblicato da una qualsiasi band d’Oltreoceano. A parte la clamorosa assenza della tanto sbandierata elettronica, relegata a pochi sprazzi sullo sfondo, l’album punta tutto su chitarre onnipresenti e una batteria martellante, trascurando perfino archi e pianoforte, da sempre elemento chiave del sound degli Evanescence ma ridotti stavolta a spennellate occasionali; perfino il vero trademark della band, la voce di Amy Lee (che appare affaticata – eufemismo – perfino in studio), risulta in qualche modo penalizzato da linee vocali banali e talmente ammiccanti alla radio che, se facessero l’occhiolino, a momenti non aprirebbero più la palpebra.

L’album si apre in bruttezza con What You Want, singolo di traino di rara bruttezza che, sebbene accolto con fedele entusiasmo dai fan più affezionati, desta non poche perplessità per le linee vocali banali (quasi quanto il testo) e una ruffianeria generale da far impallidire la già radiofonica Call Me When You’re Sober; è una tipica canzone da radio rock americana usa e getta, che non lascia nessun sapore e che, come opener, non fa ben sperare.
Sulla stessa linea è l’intro pretenzioso di Made Of Stone, una cantonata hard rock che lascia pochi dubbi sulla direzione stilistica del disco; sfocia in una strofa moscia che, sebbene impreziosita da chitarre più elaborate, perde anche quel poco di smalto in un ritornello assolutamente banale. L’unico elemento degno di nota è il bridge, che vede protagonista un piano d
ispirazione classicheggiante (riconoscibile da uno dei video twittati da Amy in fase di produzione).
The Change, la terza traccia, si apre finalmente con un accenno di sintetizzatore e mostra un sound più morbido e peculiare, con una linea vocale più ricca che finalmente suona “Evanescence”. La strofa, vagamente reminescente di All That I’m Living For, sfocia in un ritornello che convince grazie a una melodia orecchiabile ma non banale. In definitiva, il primo episodio positivo dall’apertura.
Il quarto brano, My Heart Is Broken, è (a dispetto del titolo ultra-cliché) una delle highlight dell’album. Sorprende l’ascoltatore da subito, iniziando come una ballata per piano e voce ma introducendo immediatamente una batteria mid-tempo e chitarre ben presenti, che tuttavia non soffocano la bella melodia che richiama i tempi d’oro della band. Lodevole la linea vocale, da subito interessante e layerizzata nei ritornelli con vari inserti di seconde voci (cosa generalmente poco presente nelle altre tracce, e che indica poca cura nel cesellare i dettagli).
La successiva The Other Side è un nome già noto. Proposta live nelle performance di quest’estate, si era già fatta riconoscere come uno dei filler, con una melodia talmente insipida da richiamare quel buio episodio discografico che è la sua omonima scritta dai Sirenia. La versione di studio conferma l’impressione e le linee vocali, sebbene epurate dalle stonature sentite nel live, si mostrano in tutta la loro inutilità.
Erase This è una delle canzoni più frustranti dell’album. Introdotta da un frenetico arpeggio di piano sostenuto da una batteria martellante, a cui si uniscono chitarre sincopate e una bella melodia vocale nella strofa, avrebbe potuto essere un’altra delle highlight del disco. Ma poi si arriva all’inizio della seconda strofa e ci si chiede che fine abbia fatto il ritornello: quando poi si realizza che era quello stacchetto moscio infilato fra una strofa e l’altra, la canzone scade definitivamente in una seconda parte inutile e anonima. È forse questo il migliore esempio di come quest’album offra dei buoni spunti ma finisca puntualmente per perdersi in un bicchier d’acqua.
Le sorti del disco vengono stavolta risollevate dalla prima vera ballad: Lost In Paradise inizia con un pianoforte minimalista che sostiene una Amy dalla voce ariosa ed emozionante come mai prima (sebbene con un po’ troppo fiato nel tentativo di essere ancora più soffusa, ma dato l’ottima interpretazione la perdoniamo volentieri). Un violoncello solista seguito poco dopo dal resto del quartetto d
archi è l’unico nuovo inserto fino alla fine del ritornello, quando il resto della band irrompe, impreziosendo la traccia in maniera superlativa – ai livelli di episodi fortunati come Lithium o la Band Version di My Immortal. È ballata ricca ed intima, ma non pacchiana o strappalacrime a tutti i costi.
Rifrancato lo spirito, l’intro elettronico e vagamente reminescente della demo Surrender (inedito della sessione di Fallen) della successiva Sick lascia ben sperare. Peccato che la strofa perda subito grinta, fino a sfociare in un ritornello ripetitivo e di una bruttezza davvero rara. La canzone prosegue in un polpettone dove i vari elementi si susseguono monotoni e difficilmente distinguibili, e la voce filtrata di Amy che emerge in una pausa della schiacciasassi di chitarre nella ripresa del ritornello catalizza l’attenzione a mala pena per un secondo e mezzo.
Forse è anche per la pochezza di Sick che la successiva End Of The Dream (o
of the nightmare?) riesce a fare bella figura, con un andamento godibile e una linea vocale davvero bella. Ancora una volta, il ritornello è un po’ sottotono, ma non abbastanza da compromettere la riuscita della canzone, che si attesta più sulla lode che sullinfamia.
Oceans è un’altra delle nuove canzoni presentate live, e già in quella sede, nonostante le imprecisioni di Amy, si è dimostrata un pezzo relativamente valido. La resa sull’album le fa guadagnare ulteriori punti con una bella presenza di sintetizzatori ed archi, una linea vocale dinamica, un ritmo accattivante e il primo vero ritornello rock dell’album. Lodevole è anche l’outro di violini.
Never Go Back è un altro pezzo ben riuscito. Pesante senza essere banale (rasenta il metal), con una struttura che riserva piccole sorprese (il momento di quiete nella seconda strofa), un ritornello azzeccato nel suo essere appena più tranquillo della strofa, un pianoforte che spicca anche sul tappeto di chitarre (specie nel particolarmente lodevole bridge) e una performance di tutto rispetto da parte di Amy, rappresenta un perfetto climax per l’album in vista della chiusura, sebbene alla lunga tenda a stancare un po
.
La chiusura in questione è affidata a Swimming Home, unica superstite riconoscibile della sessione di Lillywhite e piccola perla dell’album. Un delicato connubio di elettronica di stampo Björk-esco, pianoforte, arpa e vocals quasi eteree, messa alla fine di un album così incostante fa sorgere il pensiero che forse, dopo tutto, sarebbe stato meglio se Amy avesse seguito il suo cuore e fosse andata a fare la solista piuttosto che riesumare una band per la quale ha evidentemente perso ogni interesse. (Fra l’altro, se è vero che, come dice lei, le canzoni parlano del suo rapporto con la band compreso presunto reinnamoramento, in questa è facile leggere una dichiarazione di rassegnato amore alla sua creatura solista, in pausa a tempo indeterminato).

In definitiva, l’album è tirato sopra la sufficienza solo da alcuni episodi particolarmente fortunati, che sono però circondati da materiale alla meglio mediocre. Non è sorprendente, considerando che si tratta di un disco scritto in fretta e furia, in maniera forzata e, molto probabilmente, col preciso intento di creare un prodotto vendibile. Contestualizzato in questa maniera, è anche comprensibile perché il lavoro soddisfi solo in parte ma, messo in prospettiva col resto della discografia della band, lascia molto amaro in bocca, nonostante il nucleo di canzoni migliori sia stato appositamente tenuto per il finale in modo da addolcire la pillola.
A dispetto delle spiegazioni di Amy Lee, il titolo “Evanescence” sembrerebbe più dettato dalla poca voglia di spremersi le meningi, a meno che non sia un’allusione a quanto evanescenti siano le tracce del sound caratteristico della band in mezzo a questa profusione di rock preconfezionato. E a questo proposito, una piccola menzione va anche alla copertina, che non è altro che un fractal assolutamente random su sfondo nero, fatto in non più di dieci minuti e senza reale interesse, che ben si accompagna ad un album a cui, fondamentalmente, manca la sostanza, l’anima. I pochi episodi del tutto positivi non valgono certo un’attesa di ben cinque anni e, se non avessi smesso da tempo di strapparmi i capelli per la band, dentro di me sarei rimasto ferocemente deluso, sebbene in superficie avrei sostenuto una silenziosa ma strenua lotta per farmi piacere tutto l’album a forza come molti fan staranno, comprensibilmente, facendo. Prima di decidere per l’acquisto, attenderò di vedere se le bonus track hanno da aggiungere qualcosa di interessante a un pacchetto che, al livello attuale, non varrà certo il prezzo a cui verrà proposto.

Il terzo album degli Evanescence sotto Wind-up è dunque uscito, il contratto è onorato e si può presumere che non ci saranno più obblighi in tal senso, un volta terminato il tour promozionale. Non resta che vedere cosa ci riserverà il futuro della band, anche se per Cassandro non è difficile immaginarlo.