Friday 29 November 2013

La biosfera trascende il ragionamento umano

C’è una cosa che amo profondamente in Heike Langhans, la nuova cantante dei Draconian.
Ok, in realtà amo da morire anche il suo umorismo molto tagliente e dark, quindi facciamo due: il fatto che sia un’attenta osservatrice del mondo scientifico e i suoi status spingano sempre a riflettere. E voglio dire, riflettere talmente tanto che perfino io mi ritrovo in condizioni di scrivere, fra il nuovo singolo di Lady Gaga e l’apertura del nuovo negozio di Zara, cose significative e articolate che rasentano l’ambito scientifico.
Stasera parlavasi delle conseguenze dell’incidente di Fukushima sulla vita marina del Pacifico, delle balene che non cantino più, le sardine che stanno morendo in massa e le stelle marine che si stanno disintegrando. Heike ha commentato che questa non è evoluzione, è un abominio, e la cosa mi ha fatto riflettere molto. In inglese, perché sono troppo pigro per tradurre, per cui copiaincollo i miei commenti e tanti saluti.

I’ve read the radioactivity is due to reach America’s west cost sometimes next year, so the whole North Pacific is screwed.
Anyways I’m not sure if I agree with your statement about this not being evolution: I see the human race as part of “nature” itself (which I actually consider the biosphere), and the “damage”, or more appropriately “change” we are bringing upon is part of its process. And it won’t have a long-lasting effect in terms of “nature”’s time: even the global warming in its worst scenario won’t last for a geological age. What we are altering and damaging is the “nature” = environment in which we live. We are destroying and endangering species only if we consider them from a human perspective, ‘cause the biosphere doesn’t dive a shit about single species. Once we become extinct (which will happen) the biosphere will go on, new species will emerge as they always do and “our mark” will fade quickly. What we should be worried about is the environment which allows us to survive, because “nature” will carry on with or without whales, sardines, starfish and us.

On an afterthought: nature doesn’t even have a purpose, life in general doesn’t mean anything but the perpetuation of its cycle, which doesn’t require all the species we know to survive. The problem is, we try to apply our concept of time and continuity to something which is much bigger. As a human being, I can say I love what “nature” produces because it’s beautiful, it’s pleasant and interesting to behold and study. A species becoming extinct is sad because we will no longer see it around, our descendants will only know about its existence through our records, but that’s merely the human perspective on the phenomenon, which is meaningless in the general picture.
Also, the most accepted scenario claims our biosphere will last for another billion years before the atmosphere chemically alters due to the changes in the intensity of the Sun’s radiation along its stellar evolution which, combined with the Moon constantly slipping further away from the Earth’s gravitational grasp that will possibly result in a greater instability of the Earth’s axis tilt on which the seasons depend, will put an end to photosynthesis destroying the life cycle as we know it, and life will most likely carry on only as extremophile micro-organisms. This opens up for two considerations:
1) In this general picture, what such a human concept as biodiversity mean? Even a mass-extintion of the current dominant mammal species along with all the ones it will bring along in its self-destructive process means very little.
2) On the contrary, creating extreme conditions that forge organisms which can survive and proliferate in them (such as the mushrooms in the Cernobyl reactor) does contribute to the preservation of life once the precarious conditions that sustain our strong (in earthly terms) but fragile (in cosmic ones) biosphere are gone for good.
AND, all of this is even smaller if compared to the scale of space, time and energy of the whole galaxy, let alone the universe. I’m going to get vertigo if I try and think of the picture as a whole, it kind of transcends human understanding.

Thursday 28 November 2013

My room is my tomb

Quest’anno sto soffrendo molto l’autunno. Il freddo, la poca luce, il maltempo... normalmente dovrebbero essere d’ispirazione, invece mi stanno buttando giù. Probabilmente è perché ho scoperto di soffrire davvero di una leggera depressione, che è anche il motivo per cui posto poco: quando capita qualcosa di grosso di cui lamentarmi ho di che riempire il blog, ma per il resto non ho voglia di fare nulla, incluso scrivere. Anche perché la depressione porta con sé l’inattività, quindi c’è anche poco di cui scrivere.

In realtà esco anche di casa: università, gelato, merende in giro, shopping, ma anche quello fa parte della routine. Lo faccio controvoglia, o lo stretto indispensabile, e il minimo sindacale che do è un buon abbinamento di vestiti. Neanche una sistemata a barba e capelli: la prima resta incolta, i secondi li lego per evitare di dover dare loro un senso e sto a posto così. No bene, per niente bene.
Le cose migliorano un po’ quando vado da qualche parte: nel viaggio di andata sono allegro, guardo il paesaggio fuori dal treno, ascolto musica, anticipo ciò che farò. Al ritorno invece sono nevrotico, intollerante verso l’umanità intera e decisamente triste: si torna al grigiore della quotidianità fino alla prossima fuga.
Fra l’altro, nemmeno la musica mi aiuta molto. Ne ascolto di quanto più varia possibile sperando in una catarsi, ma niente, il mio umore resta invariato. In compenso ho iniziato a guardare parecchi film, specie animati, per avere quell’oretta e mezza di stacco dai miei problemi. Se non puoi risolverli, dimenticali per un po’: pessima strategia, ma almeno funziona.
Stasera ci darò dentro con The Black Cauldron. Mai visto prima, vediamo se è tremendo come dicono.

Wednesday 20 November 2013

Incubi ricorrenti

Ultimamente mi sono reso conto di avere due incubi ricorrenti.

Il primo non è proprio un incubo, quanto un luogo ricorrente: è la casa della Ziaccia. Di volta in volta succedono cose diverse, come la gravidanza di Veronica o il cavolo che stava succedendo qui, o molte altre. Ma c’è una costante: non c’è mai via di fuga. Tutte le porte sono chiuse, tutte le finestre sono sbarrate, con gli scuri chiusi o le tapparelle abbassate. Da fuori non proviene mai nessuna luce, che è sempre affidata al lampadario del soggiorno, con uno di quei neon dal colore vagamente verdastro. Di solito anche il corridoio è buio e illuminato solo dalla luce che proviene dall’altra stanza.
Questo sogno è tutto sommato poco sorprendente: il brutto neon freddo è l’illuminazione che la casa ha nella realtà, mentre il fatto che sogni di essere praticamente intrappolato lì dipende dal fatto che ogni volta ci sto controvoglia e non vedo l’ora di andarmene al più presto. Ho dei ricordi molto brutti associati a quel posto, quindi penso sia normale che nei miei sogni è oscuro e senza via d’uscita. Chissà che un giorno sogni di trovare una chiave o di aprire quel portone.

Il secondo dei miei incubi ricorrenti è, per certi versi, molto più angosciante. È illuminatissimo, le finestre sono tutte aperte, ma il senso d’oppressione è perfino più intenso.
Mi trovo, infatti, nell’aula dove ho fatto gli ultimi anni del liceo nonostante sappia benissimo di essermi diplomato anni fa. Davanti a me c’è la professoressa di matematica che mi annuncia la bella notizia: una nuova circolare ministeriale retroattiva ha fatto sì che tutti i voti fossero ricalcolati con media matematica e, di conseguenza, mi sono ritrovato il debito in matematica al secondo anno (l’ho davvero rischiato, sono uscito con una sufficienza tiratissima). Sempre secondo la stessa circolare ministeriale, devo passare un esame riparativo il giorno stesso, altrimenti mi verrà revocato il diploma e dovrò rifare il liceo a partire dal secondo anno. E ovviamente, visto che sono passati anni, io non ricordo nulla. Non so nulla, è da troppo che non studio quelle cose e non vado a scuola!
E per quanto la implori, per quanto le dica che può anche abbuonarmi uno di quei vecchi compiti in classe perché sono passati tanti anni e comunque non studio nulla di matematico all’università, non la metterò mai in imbarazzo, lei resta irremovibile, o al massimo mi dice con compassione che non può farci nulla: devo fare l’esame.
Di solito ci sono anche vari miei compagni, e non so mai se anche loro devono fare l’esame o se sono lì solo per assistere alla mia umiliazione. Una volta dovevano sì fare l’esame, ma solo per colpa mia, perché tutti avevano passato l’anno senza debiti. Di solito, le uniche assenti sono Beatrice e Federica, gli unici volti amichevoli in quel viperaio.
Una piccola, occasionale variazione sul tema è che, semplicemente, torno a scuola dopo mesi di assenza e non ricordo più nulla: non so fin dove siano arrivati nel frattempo i miei compagni, cosa ci fosse da studiare per quel giorno, che compiti ci fossero da fare, e non posso nemmeno giustificarmi perché so che non c’era nulla che mi trattenesse dal frequentare e sono io che non mi sono preoccupato di mettermi in pari almeno per le lezioni di quel giorno.

Ora, chiaramente non mi sono ancora lasciato alle spalle il trauma del liceo, specie il rapporto non proprio ottimo con i miei compagni di classe. Ma continuare a sognare a distanza di cinque anni quella dannata stanza, quelle piastrelle bianche con finto motivo graffiato color avorio che le faceva sembrare perennemente sporche, quei muri di cartongesso, quei finestroni con i telai rossi che surriscaldavano la stanza… beh, inizia a essere ridicolo! Non che mi capiti ogni notte, ma di tanto in tanto il sogno torna, e ogni volta non riesco a rendermi conto del déjà-vu, di esser in un sogno per cambiare rotta.
Vorrei capire come lasciarmi questi dannati incubi alle spalle una volta per tutte.

Friday 15 November 2013

Zara ha aperto a Trieste

Alessandro fa tanto il dark, ma deve solo lasciarsi andare un po’. Secondo me dentro di lui c’è un truzzetto che aspetta solo l’occasione buona per uscire.

Parole sante di Monica, la mia professoressa di filosofia del quinto liceo, pronunciate tanti anni or sono, nel lontano 2008, quando ero in piena fase darkettina, mi conciavo da espositore del negozio di ferramenta, odiavo il pop come se fosse il male, la dance come se fosse la morte, l’elettronica come se fosse il morbo e la moda (quella “mainstream”) per partito preso. Vade retro, tentazioni della superficiale società moderna, io ero un introspettivo dandy dallo spirito romantico che vagheggiava epoche passate in cui la decadenza umana era limitata al popolino ignorante.
Ed oggi, eccomi qui, con Artpop di Lady Gaga in borsa (nemmeno la regular, ho proprio preso la deluxe), di ritorno da uno degli ormai settimanali giri di shopping con Linda, che quest’oggi ha incluso nientemeno che la giornata di apertura del punto vendita di Zara a Trieste, accolto come l’arrivo della Terra Promessa sotto i nostri piedi (e non vice versa). Il tutto dopo aver fatto fuori un cupcake a testa in un localino indie-chic, e poco prima di un club-sandwich in uno dei fast-good trendy del centro.

Se il me stesso di cinque anni fa vedesse il me stesso attuale, probabilmente penserebbe di essere destinato a diventare l’epitomo della superficialità umana: shopaholic, merende di tendenza, in giro per negozi piuttosto che per musei, serate nei pub a bere cocktail o nei club gay a ballare e controllare la fauna, accanito ascoltatore di musica commerciale ed elettronica. Un ragazzino di poche pretese. Oh, e fra l’altro, giusto ieri mi sono deciso a scaricare Matangi di M.I.A., la cafona più cafona di tutta la musica tamarra.
Ebbene, la realtà è semplicemente che, crescendo, sono diventato più onesto. Mi sono stancato di fare solo cose socialmente impressionanti per autoconvincermi di appartenere a una fittizia élite culturale al di sopra delle masse. Adesso abbraccio tutto quello che stuzzica la mia curiosità, e così posso andare all’apericena del Lelephant la sera prima del Picnic Vittoriano, o a vedere Il Lago dei Cigni a teatro ascoltando gli Swallow The Sun subito prima, o fare la fila per il concerto degli Anathema mettendo Bad Girls di M.I.A. nelle cuffie.
Tralasciando poi che M.I.A. è molto più alternativa e sperimentale del 95% del metal e Lady Gaga scrive dei testi a cui le tormentate lyrics gotiche hanno solo di che lucidare le scarpe, ma questo è qualcosa di cui ci si rende conto abbandonando le pose intellettualoidi e accettando il valore della musica “mainstream”. Il problema è che il pop, specie l’electropop, è per lo più un genere schietto, che non si nasconde dietro grosse pretese. Per contro, il metal si configura come genere d’élite, per cui gli ascoltatori si ritengono una specie di adepti della verità, i soli che conoscono il vero valore dell’arte.
La cosa è ancora più evidente nel symphonic metal, che i fan ritengono essere il diretto discendente della musica classica e operistica. I più niubbi sono davvero convinti di ascoltare i nuovi Puccini e Vivaldi, con cantanti dall’impeccabile tecnica che si sperticano in vertiginosi vibrati su melodie raffinate e testi per nulla scontati (dimenticavo che nel comparto testuale sono i discendenti diretti dei grandi maestri del Romanticismo). Ovviamente, più orchestre e più cori ci sono, meglio è.
Beh, è su questa ignoranza diffusa che marciano le varie Tamarrja e Liv Kristine, ritrovandosi a cantare ingolate per un intero album e ricevere comunque mille lodi, per non parlare poi delle lyrics trite e ritrite già all’inizio dello scorso decennio. E dire che basta così poco, basta abbandonare la posa da connoisseur della musica “colta” per capire che non tutto ciò che si traveste da vintage ha valore e consistenza. Che a volte, il quotidiano ha molta più sostanza poiché concreto, figlio del mondo reale.

Monday 4 November 2013

Lucca Comics and Games 2013

Gusti che mutano, vecchie abitudini che restano ma cambiano completamente significato.
Negli ultimi undici mesi non ho letto nemmeno un manga. Neanche uno, con tutto che sono usciti due volumi del nuovo di Kaori Yuki che dovrebbe stuzzicarmi già solo per i disegni. Eppure, anche quest’anno sono salito sul treno e, con tappa a Ferrara per recuperare la Nipota, sono arrivato di regionale in regionale fino a Lucca, pronto a farmi i soliti quattro giorni di Comics, solo che stavolta allo sbaraglio. L’anno scorso sono andato senza una vera idea di cosa cercare, ma almeno sono tornato con la serie completa di Sailor Moon, che ho divorato nelle due settimane successive, ma quest’anno non avevo proprio la minima idea di cosa stesse succedendo del mondo dell’editoria made in Japan, di quali fossero le ultime tendenze, di cosa cercare rovistando per ore e ore fra i volumetti nei vari stand. Come mai allora sono andato?
Beh, il motivo è presto detto: per intraprendere public relations. Ovvero, per trascorrere del tempo con quegli amici che vedo solo in quest’occasione, o con altri che vedo anche altrove ma mai abbastanza. Cinque giorni di delirio in casa con la solita compagnia, due incontri con persone che sento da anni ma non avevo mai visto prima, rimpatriate con altri che ho visto alle scorse edizioni del Comics, e ovviamente BriarRose, la Ari, e tutto il gruppo cosplay italiano di Games of Thrones.

A proposito di cosplay, quest’anno mi sono deciso e ho portato il mio primo: young Lucius Malfoy, assieme a BriarRose che portava young Bellatrix Lestrange. Parrucca biondo platino, lenti grigio-verdi, bacchetta alla mano e vestiti ripresi direttamene dal mio periodo goth-dandy. Nel complesso non sono neanche uscito male, anche se ho fatto un po’ da accessorio a Bellatrix, che è stata la vera star della coppia. Hair power, visto che la parrucca è sempre un po’ sgamo, mentre i capelli di Bellatrix erano 100% naturali. Comunque, abbiamo trascorso l’intero primo giorno a girare per le strade con aria snob, maledire i luridi Babbani, farci riconoscere da loro, farci fotografare, spararci le pose, e poi pure ad un workshop di fotografi che cercavano cosplayer su cui esercitarsi. Cosplay decisamente riuscito, e ho già richieste di riproporlo in gruppo con gli altri.

Il secondo giorno l’ho trascorso vagando di stand in stand – principalmente al Japan Palace – sbirciando un po’ le varie proposte e offerte, ed è stato l’unico in cui ho fatto acquisti: una maglietta con il dio giapponese del vento dai miei amici del Kingyo Sukui Italia, il quarto numero di Crimson Spell della Yamane (ed era anche ora, mi sono dovuto far riassumere la storia precedente dalla Nipota perché avevo del tutto perso il filo), e Squillo, il gioco di carte di Immanuel Casto, il quale mi ha anche autografato la confezione. Buona parte del pomeriggio, però, l’ho passata a litigare alacremente col mio cellulare che non telefonava per via delle linee intasate, e non voleva nemmeno ricevere i messaggi perché diceva che la memoria di archiviazione era piena (nonostante avessi praticamente cancellato tutto il cancellabile). Alla fine, dopo mille peripezie, sono riuscito a incontrarmi con Luna Sleepingliar, la customizzatrice e donatrice di Ludwig, con la quale tutti i precedenti tentativi di incontro quando andavo a Milano sono tragicamente naufragati. Beh, se non altro stavolta siamo stati più testardi del fato avverso e delle compagnie telefoniche, era anche ora. Tralasciamo poi l’epic fail per il quale mi sono perso per i vicoli del centro mentre accompagnavo lei e i suoi amici al Despar per fare un po’ di spesa, ma se non altro ho imparato dove diamine si trova e non sbaglierò mai più.

Il terzo giorno sono stato letteralmente fagocitato dal lavoro: una parte del gruppo cosplay di GoT ha cambiato momentaneamente soggetto e portato le principesse Disney in versione Claire Hummel, ovvero con i costumi storicamente accurati; io sono stato prezzolato come fotografo ufficiale su raccomandazione di BriarRose, che faceva Pocahontas, così sono stato la loro ombra. Grazie a una rocambolesca infiltrazione in una specie di workshop privato in un palazzo storico, ho fatto un po’ di foto alle ragazze e le ho poi seguite sulle mura e verso il palco, dove avrebbero partecipato alla gara di cosplay. L’idea era di documentare la loro esibizione e poi portarle a fare altre foto, ma le cose sono andate molto per le lunghe, ha diluviato a più riprese (e per fortuna eravamo al coperto), si è fatto buio e così ho fatto più il coscaddy che altro mentre aspettavo che si esibissero. L’esibizione è andata bene e la scenetta che avevano preparato era davvero carina, ma il presentatore è stato un perfetto deficiente, dimenticandosi di annunciarle al pubblico prima dell’esibizione (e d’accordo, la svista ci può stare), e commentando poi: “Un altro gruppo di principesse, ormai ce le propinano in tutte le salse. L’anno prossimo lo faranno uguale con Merida al posto di Pocahontas”, con conseguente attacco di manie omicide da parte mia e dei fidanzati delle altre principesse. Ciliegina sulla torta, la votazione e l’attesa per le premiazioni sono durate uno sproposito, e fa freddo, umido, stanchezza, parrucca da quattro chili e quant’altro, la nostra Rapunzel si è sentita male. Dato che ero l’unico munito di cellulare e sprovvisto di crinoline, mi sono offerto di accomapgnarla sull’ambulanza all’avamposto della Misericordia lucchese, e poi indietro fino all’ostello. Del resto, come si può abbandonare una principessa in difficoltà? Anche io ho un cuore, da quache parte.

E infine, il quarto giorno l’ho totalmente dedicato alle public relations, incontrando un po’ di amici sia casualmente, sia dopo giro di organizzazione via Facebook (che bello avere uno smartphone che ogni tanto funziona anche!) per fare due chiacchiere e visitare assieme qualche stand. Oh, e ho incontrato anche qualcuno che, anni fa, è stato vittima di infinite frecciate qui sul blog. E mentre giravo con la musica nelle orecchie ho anche avuto un’idea geniale per partecipare alla gara cosplay dell’anno prossimo con BriarRose, prendendo un soggetto ancora più banale delle Principesse Disney (presentatore, fottiti) e dandogli un tocco personale. Just wait, you bitches. L’unica delusione è stata scoprire che per fare bungee jumping dalla gru appositamente montata fuori le mura bisognava esibire la propria copia di Assassin’s Creed, di cui sinceramente fottesega, per cui quello è saltato.

E così, Lucca è finita. Su quattro giorni, ho visitato stand solo due (tre se contiamo il primo quando sono andato a trovare i ragazzi del Kingyo Sukui, ma non ho girato da nessun’altra parte), il terzo addirittura avrei potuto non fare il biglietto. Non ho aggiunto nulla di sostanziale alla mia collezione di manga e ho speso più in cibo che in altro (d’altro canto, ho macinato chilometri, avevo tutto il diritto di dedicarmi alla mia passione). Ma ho fatto delle ottime foto, ho finalmente rotto il ghiaccio con il mondo professionale della fotografia e, soprattutto, sono stato bene con un sacco di persone. È proprio vero che socializzare mi ricarica le batterie; peccato che buona parte dei miei amici sia sparsa per l’Italia.