Saturday 19 April 2014

C’è chi piange le statue e chi aiuta i bisognosi

Ieri sera non volevo uscire. La Mater, che pure era poco convinta, alla fine mi ha praticamente trascinato alla processione del Venerdì Santo perché voleva scattare delle foto e le serviva la mia assistenza.
Invece che girare a vuoto come pensavamo inizialmente, abbiamo trovato un muretto sul quale farla arrampicare per scattare da sopra la folla, e lì ci siamo fermati. Io sono andato avanti a vedere se la processione era almeno uscita dalla cattedrale, e lungo la strada sono entrato in un bar e ho preso due bottiglie di birra. Non avevo in programma di farlo, ma le ho prese.
La serata era ventosa, la birra era fredda, la Mater ha iniziato a rabbrividire e mi sono offerto di fare un salto a casa a prenderle un berretto e un plaid per l’attesa. Fra l’altro, lei non voleva tutta la sua birra, così ho tracannato la mia più velocemente per non girare con due bottiglie come un deficiente.
Lungo la strada ho visto un cassonetto, ho attraversato la strada scolando la bottiglia, ho aperto lo sportello e ho buttato dentro il vetro.
Per pura combinazione, avevo dimenticato l’iPod e non ascoltavo musica.

Questa serie di coincidenze assolutamente estemporanee è ciò che mi ha portato a sentire un miagolio sottilissimo provenire da una delle buste nel cassonetto. Dentro, in mezzo a vaschette di plastica lerce, pezzetti di cemento e avanzi marcescenti dell’agnello pasquale, loro due.

Penso di non essere mai entrato così nel panico – in primo luogo perché dovevo indovinare in quale busta si trovasse chiunque stesse miagolando. Con la processione in corso, i carabinieri che ho prontamente chiamato non avevano uomini a disposizione per occuparsi della faccenda, così ho avvisato la Mater e sono corso a casa con la busta in mano. A un’ispezione più accurata, ho scoperto che i due micetti, aggrappati l’uno all’altro perché la sera era davvero fredda, avevano ancora la placenta attaccata. Così, improvvisandomi ostetrica, l’ho tagliata via, ho raccolto la busta degli orrori, l’ho buttata, ho sistemato loro in un giaciglio ricavato con gli stracci di una vecchia federa in flanella in una scatola di scarpe, ho lavato il pavimento come un ossesso e ho cercato di decidere cosa fare. Il tutto con Katia al telefono, che tentava di farmi calmare almeno un po’.
Quando la Mater è finalmente rincasata e le mie mani hanno smesso di tremare, tre cose erano chiare:
• Visto che la mamma gatta non aveva ancora nemmeno avuto il tempo di mangiare la placenta, i cuccioli erano nati da pochissimo, questione di ore al massimo.
• Sicuramente, chi li ha impacchettati in mezzo al lerciume e buttati nel cassonetto, l’ha fatto lungo la strada per la processione del Venerdì Santo, che un’ora dopo è passata proprio lì davanti.
• Il mio bisogno impellente di gettare via la spazzatura e ripulire il pavimento della cucina era dovuto allo schifo associativo che avevo per chi l’aveva maneggiata prima di me.

Passata l’emergenza numero uno, ovvero mettere i micini al caldo, io mi ero passabilmente calmato; la Mater ha invece colto l’occasione per sperticarsi in un po’ di drama mentre decidevamo come arginare l’emergenza numero due, ovvero nutrirli tutta la notte. Per prima cosa, abbiamo rovistato tutta casa e trovato una siringa ipodermica, per poi scaldare un po’ di latte (purtroppo vaccino, ma era il meglio che potessimo trovare a mezzanotte e dieci del Venerdì Santo) diluito con acqua dietro consiglio di Katia. E così, è partita l’odissea, ripetutasi ogni due ore e mezza, di tentare di sfamare i trovatelli sperando che non si affogassero col latte, visto che con ogni probabilità non avevano nemmeno mai succhiato la mammella della gatta.
Non senza problemi (e ulteriore drama della Mater), siamo riusciti a insegnare loro a ciucciare il latte dalla siringa, a fare i bisognini, e abbiamo tirato fuori la borsa calda (piena di semi da scaldare al microonde) per rendere il giaciglio più confortevole. Intanto, ci siamo arrovvellati per decidere cosa fare, visto che farli sopravvivere per tutto il week end di Pasqua sembrava un’impresa disperata.
È stata sempre Katia, non appena la Mater si è coricata, a contribuire alla risoluzione del problema, trovando una clinica veterinaria a Sassari aperta 24/7 festivi compresi: la veterinaria, dopo avermi fatto il terzo grado su cosa stavamo dando loro, mi ha dato il nome degli Amici di Maia, un’associazione di volontari di Porto Torres, sulla cui pagina Facebook c’era un numero da chiamare. Ottimo, almeno un punto di partenza per cercare di fare qualcosa, la mattina dopo.

La notte è stata ovviamente un inferno, perché oltre alla pappa ogni due ore e spicci, i gattini mi hanno tenuto sveglio miagolando continuamente – durante una delle mie ispezioni li ho trovati tutti e due aggrovigliati in un filo della vecchia federa – tanto che, dopo la terza pappa, mi sono coperto le orecchie col cuscino per riposare almeno un po’. Fortunatamente, di mattina loro sembravano stare bene ed erano anche cresciuti, il che significa che non stavano patendo la fame.
Dopo colazione, ho iniziato il giro di telefonate dall’associazione di Porto Torres, che mi ha indirizzato a una di Alghero, gli A-mici di Matisse, le cui volontarie non avevano però una mamma gatta che avesse appena partorito e non potevano prendere altri micini. Da lì, il passaparola su Facebook, il giro di telefonate ai pochi amici che ho ancora ad Alghero, e poi sono andato a comprare il latte in polvere, un biberon, e ad attaccare volantini in tutti i negozi di animali che mi venivano in mente. E anche sul muro vicino al cassonetto incriminato.
Per farla breve, verso l’ora di pranzo gli A-mici di Matisse hanno trovato una neo-mamma gatta a Sassari e una volontaria si è offerta di venire a prendere i cuccioli e portarli. In una profusione di ringraziamenti in cui è entrato anche San Francesco (il santo amico degli animali), i micetti sono partiti, e gli ultimi aggiornamenti dicono che la mamma li ha adottati assieme ai suoi cinque cuccioli. Insomma, lieto fine.

Ora, il fatto che mamma Lilli si stia prendendo cura di loro è un sollievo, sono davvero contento di essere riuscito a salvarli e sistemarli, e la solidarietà che i micetti hanno riscosso su Facebook mi ha ridato un po’ di speranza nell’umanità. Ma mi resta un’amarezza e una rabbia che non hanno limiti.
Alcuni motivi sono ovvi: una gatta è una responsabilità, se non si vogliono cuccioli la si può sterilizzare; due cuccioli sono anche pochi, e non sono un dramma da gestire, visto che per le prime settimane se ne occupa la mamma, e c’è quindi tutto il tempo per cercare qualcuno che li adotti; e strapparli via così, appena nati, con ancora la placenta, è inqualificabile.
E poi ci sono quelli meno ovvi. Perché siamo nel paese della carità cattolica, perché con ogni probabilità, il qualcuno che ha messo questi gattini in un sacchetto di plastica, l’ha legato e l’ha buttato in un cassonetto, è poi andato alla processione e, vestito a lutto, ha seguito il corteo funebre allestito per un feticcio di legno, magari recitando il rosario con le lacrime agli occhi per il triste destino di qualcuno che forse non è nemmeno mai esistito, sentendosi probabilmente un cristiano irreprensibile.
E intanto, a preoccuparsi per delle vite vere, messe deliberatamente a repentaglio dal cristiano irreprensibile di cui sopra, siamo stati la Mater e io, una che prende con le pinze l’intero baraccone religioso e un ateo.
Probabilmente è la tempistica ad avermi fatto così incazzare, e se già consideravo la processione del Venerdì Santo un feticismo che sfiora il malato, adesso mi fa rivoltare lo stomaco. Perché di gente che piange i feticci di legno e ignora chi sta intorno ne ho vista fin troppa, e anche se generalizzo, anche se sono ingiusto verso chi, come la volontaria dell’associazione, mentre ringrazia San Francesco per aver protetto i gattini si scomoda personalmente, rinuncia a passare il Sabato Santo in famiglia, prende la macchina e li porta da una gatta che possa salvarli, non posso non trovare l’ennesima conferma che questa sentita partecipazione ai drammi religiosi non sia altro che una posa. Che non è la fede a fare una brava persona, e anzi, i casi in cui maschera il marciume sono probabilmente la maggioranza.
Non posso colpevolizzare tutte le persone alla processione, me ne rendo conto, ma forse, invece che sentirsi buoni pregando e piangendo le statue, potrebbero farlo guardandosi di più intorno e cercando chi di lacrime e aiuto ha bisogno davvero.

E personalmente, se proprio volessi credere in qualcosa, preferirei pensare che in questa storia c’è lo zampino di Murka. Che lei ci ha spinti a uscire, mi ha messo quella birra in mano, mi ha fatto dimenticare l’iPod, mi ha fatto passare per quella strada.
Anche perché i due gattini hanno il pelo lungo e rosso come il suo.

Monday 7 April 2014

Un week end a Hamar

Se dovessi rispondere alla domanda “cosa è successo questo week end a Hamar?”, non saprei da che parte cominciare.
Una risposta molto semplificata sarebbe “ho visto un ottimo live di una delle mie band preferite e trascorso momenti da backstage con alcuni dei miei musicisti preferiti e la mia cantante preferita; che mi ha ospitato”, ma tutto ciò è davvero riduttivo. Sarebbe più corretto dire che ho trascorso un week end assieme a ottimi amici che, oltre ad essere persone magnifiche, sono anche, incidentalmente, la mia cantante e alcuni dei miei musicisti preferiti.
Da questo punto di vista, il mio week end in Hedmark è stato la completa decostruzione del mio rapporto fan-artista con i Theatre of Tragedy e i The Crest, a partire dal fatto che, nella pratica, non sono partito per un concerto, ma sono stato invitato a una festa di compleanno. Il gradino fra platea e palco è stato azzerato e ho conosciuto davvero la band che ci suona sopra, non come artisti ma come persone. In carne ed ossa, come me.

E i momenti da fan non sono mancati: ho parlato con Kristian dei The Crest, di alcune canzoni in cui mi vedevo molto, del significato di alcuni testi dei The Black Locust Project. Con Hein abbiamo parlato dell’ultimo tour dei Theatre of Tragedy, degli album, delle demo del 1994, del rapporto che la band ha con Assembly. E l’ultima sera, con Nell, ci siamo seduti sul divano e abbiamo sfogliato la sua cartella con tutte le cose dei Theatre of Tragedy: le mail, i testi delle canzoni, quelli delle demo, i momenti più belli, quelli più brutti. Ma non mi sentivo come un fan che chiedeva le cose ai suoi musicisti preferiti, quanto come fra amici con una passione in comune – una che loro portavano avanti attivamente.

E poi ci sono stati i momenti in cui abbiamo parlato di noi, delle nostre famiglie, di dubbi e incertezze, di cose di cui parlano le persone normali. Il momento in cui abbiamo fatto colazione tutti assieme – con la marmellata di ribes rossi e quella ale fragoline selvatiche confezionate in casa da Nell; quello in cui ho fatto due chiaccheire con sua figlia per farle esercitare un po’ l’inglese. E il pomeriggio in cui siamo saliti in macchina e mi ha mostrato Hamar, il centro, la Domkirkeruinene e la ricostruzione del villaggio originario da cui è nata la città.
Ed è vero, la prima sera mi ci sono volute un paio di birre prima di scuotere via la sensazione di provenire da due mondi completamente diversi – loro, e Nell in particolare, da uno al quale non ero degno di accedere – ma mi ritengo davvero fortunato ad aver fatto amicizia con la mia cantante preferita e la sua famiglia. A poterci fare due chiacchiere senza meet & greet e pressione dei concerti. A sapere che è felice anche se non pubblica più album in cui canta.
Oh, e sono sempre più convinto che la Norvegia è la mia vera patria. Prima o poi ce la farò, ad andarci a vivere.