Monday 30 June 2014

Perception is everything (perché io valgo 2.0)

Ricollegandomi parzialmente all’ultimo post, mi sono ricordato di un articolo letto anni fa in università, che illustrava uno studio secondo il quale la percezione di una lingua come bella o brutta deriva da esperienze, personali e non, ad essa associate. Più sono le esperienze positive associate a una lingua, più questa piacerà, e vice versa. Beh, sono sicuro al 100% che ciò sia vero: se ad esempio prima amavo l’olandese perché mi ricordava le interviste di Sharon den Adel, da quando ho battuto il muso ripetutamente sull’esame di traduzione attiva mi piace un po’ meno. Ma la cosa è stata lampante in questi giorni, mentre trascrivevo la confernza sui national accounts: nella seconda tranche che ho fatto è intervenuto uno speaker francese, mentre nella prima c’era lo spagnolo malefico che ho citato prima. Entrambi con un fortissimo accento, ma mentre il francese non mi ha dato alcun problema, lo spagnolo è stato un incubo. C’è anche da dire che le capacità logico-sintattiche di Díaz Muñoz erano anche molto peggiori e ogni tre secondi biascicava incoerentemente sottovoce, mentre Gilbert Cette almeno riusciva a tenere il filo del discorso, ma penso che in buona parte la differenza derivi dal fatto che adoro il francese, perché mi ricorderà sempre la maestra Vincenzina e perché amo Emilie Simon, mentre lo spagnolo mi ricorda tutte quelle tremende canzoni di fine Anni Novanta / inizio Anni Duemila, i balli di gruppo, le stupidaggini che vanno dicendo e lo stile di vita che descrivono. Nonostante il mio amore per Marcela Bovio, lo spagnolo continuerà sempre a sembrarmi cheap.

Detto questo, la mia tracotanza nell’accettare senza remore la seconda tranche di lavoro è stata una grossa stupidaggine: oltre alla listening di un’ora di conferenza, infatti, ho dovuto revisionare la trascrizione fatta dalla tipa che ha mollato il lavoro a metà, e sinceramente c’era da mettersi le mani nei capelli. Ho passato tutto sabato a correggere strafalcioni, a volte davvero stupidi (proprio parole di uso comune), a volte assurdi (alcuni punti potevano essere ambigui, ma porca miseria, si va a logica, si guarda il contesto), a volte grossolani al punto da invertire del tutto il senso della frase (ho trovato un “intuitive” che in realtà era un “counterintuitive”, ed è solo la punta dell’iceberg). Ciliegina sulla torta, sette minuti non trascritti prima del punto che la tizia aveva segnalato come fine della sua trascrizione: vedendo un doppio capoverso nel testo prima della conclusione dell’intervento, pensavo mancassero una o due frasi; a mezza pagina di trascrizione ho controllato il tempo del file audio e ho tirato giù metà calendario di santi. Onestamente, avrei fatto molto prima e meglio a trascriverla ex-novo.
Il fatto è che, da una parte, mi sembra assurdo che qualcuno possa fare degli errori barbini che io, che non sono ancora nemmeno laureato, riesco invece ad azzeccare al primo tentativo. Dall’altra, ci ho visto dietro un’indubbia dose di pigrizia. È vero che trascrivere i nomi è un inferno, specie se sono di qualche paese la cui lingua non si conosce, ma il presentatore fornisce sempre anche la carica dello speaker: basta aprire google e cercare, nel 90% si trovano. È il caso di dirlo, non ci vuole la laurea.

Beh, fatto sta che ce l’ho fatta anche stavolta, ampiamente entro i termini di consegna, e mi sono anche beccato un extra per aver lavorato nel week end. Perché, se non si fosse capito, io valgo.

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