Sunday 30 November 2014

Emilie Simon @ Rocher de Palmer


Il gioco della serata si chiama “Trova il Narcissus”. Indizio: sono quello che sorride al punto di emanare arcobaleni che perforano lo schermo. Del resto, il centro esatto della prima fila a un concerto memorabile come quello di Emilie Simon a Bordeaux questo mercoledì è un ottimo motivo per essere felici.
Ho parlato a grandi linee della mia visita a Bordeaux tenendo il giorno dell’evento clou per un post a parte: mercoledì mi sono svegliato di buonora, ho fatto colazione, tirato fuori il biglietto, preparato i booklet e il pennarello nella speranza di eventuali autografi e scritto due righe per accompagnare il mio piccolo regalo per Emilie, una selezione di stampe di mie foto ispirate alle sue canzoni.


Armato de La Domatrice di Agatha Christie, mi sono quindi recato al Rocher de Palmer in anticipo di svariate ore, pronto ad aspettare l’apertura dei cancelli incurante di freddo e pioviggine. Ora, so che la coda è chilometrica già svariate ore prima del concerto solo in Italia – lì infatti non è arrivato nessuno fino a un’oretta e mezza prima dell’apertura – ma non volevo correre rischi. In fondo, avevo il mio libro, la giacca pesante, il chioschetto degli hot dog all’angolo del piazzale… insomma, tutto ciò che serviva.
Essendo il Rocher de Palmer un centro multisala aperto anche per attività pomeridiane, passata l’ora di pranzo è arrivata gente e ho chiesto alla gentilissima receptionist se potevo passare il pomeriggio nella lobby del locale. Nessun problema: avrei dovuto uscire un’oretta prima dell’apertura ufficiale per il concerto e fare la fila, ma fino ad allora il divanetto era tutto mio. Così, alla fine, non ho nemmeno patito il freddo e l’umido. Quando sono uscito di nuovo c’erano solo una ragazza di Bordeaux e un’allegra e simpatica signora parigina che segue Emilie in quante più date possibile, così ho fatto amicizia e sono potuto andare a prendere un altro hot dog sapendo che, se fosse arrivata altra gente, non avrei perso il posto in fila. L’unico incidente spiacevole è stato l’arrivo di un ubriacone che sbraitava non so cosa alla piccola folla che si era radunata ordinatamente all’ingresso, ma per il resto la coda è stata scorrevole, non c’è stato l’assalto al posto come capita da noi e ho potuto conquistarmi un’ottima postazione in tutta calma.
Come gruppi di spalla, Emilie ha deciso di ingaggiare ogni sera qualche artista locale; a noi sono capitate Le A, una band post-rock molto piacevole composta da tre ragazze e un batterista, che hanno intrattenuto il pubblico con un’ottima prova e mi hanno fatto venire voglia di approfondire la loro discografia appena avrò tempo. Terminato loro e rimontato celermente il palco, finalmente le luci si sono abbassate e, sulle prime note di Perdue Dans Tes Bras, la silhouette di Emilie si è stagliata contro il paravento in fondo al palco.

1. Perdue Dans Tes Bras
2. Des Larmes
3. Graines D’Étoiles
4. Rose Hybride De Thé
5. Paris J’Ai Pris Perpète
6. Fleur De Saison
7. The Eye Of The Moon
8. Désert
9. Menteur
10. I Call It Love
11. To The Dancers In The Rain
12. Opium
13. Dreamland
14. Rainbow
15. I Wanna Be Your Dog

16. Flowers
17. Wicked Game
18. Quand Vient Le Jour
19. Les Étoiles De Paris
Ovviamente, fatta la foto commemorativa ho subito messo via il telefono per godermi appieno l’esperienza live, e per ottimi motivi.
Tanto per cominciare, il suono era pressoché cristallino: un dettaglio semplice ma fondamentale per chi, come Emilie, fa dell’atmosfera uno dei cavalli di battaglia della sua musica. In secondo luogo, la scaletta è stata pressoché perfetta: Emilie ha suonato tutto Mue compresa Wicked Game, alcuni cavagli di battaglia storici come Désert, Flowers, Rainbow o Fleur De Saison, ma anche la mia preferita, Graines D’Étoiles.
Come album, The Big Machine e Franky Knight sono stati un po’ trascurati con, rispettivamente, due e una sola canzone estratte, ma c’era da aspettarselo: il primo perché, purtroppo, non è un fan favourite, il secondo perché è molto personale ed era ancora troppo presto per rispolverarlo. L’unico pelo nell’uovo che potrei trovare sarebbe la mancanza di Swimming, l’altra mia canzone preferita di Emilie, ma è una cosa strettamente personale.

L’allestimento del palco era piuttosto minimalista, dominato da luci calde e per lo più naturali che ben hanno accompagnato la vena cantautorale che fa da base a Mue; tuttavia, non sono mancati effetti speciali, come i giochi di luci e ombre sui paraventi che facevano da sfondo, la luce blu che ha completato l’atmosfera notturna e onirica di Eye Of The Moon, il rapido scorrere dei colori dell’iride su Rainbow, i colori psichedelici di Dreamland o le piccole chiazze di luce proiettate sullo sfondo per richiamare il titolo di Les Étoiles De Paris. L’insieme è stato molto appropriato all’atmosfera delle canzoni, ora intimo e accogliente, ora energico e colorato, ora misterioso e sognante.

La performance è stata ineccepibile, con Emilie che si è destreggiata con grande agilità fra le line vocali, spesso accompagnandosi con gli strumenti per dare a ogni canzone la veste sonora più adatta per rendere al meglio: dal piglio un po’ più rock per dare energia al pubblico, a quello più acustico e low key per lasciar posto alle emozioni, fino a qualche momento deliziosamente sperimentale. C’è stato il suo ormai iconico set di filtri e riverberi vocali da braccio, che ha effettato dal vivo la voce sui brani storici trip-hop ed elettronici come Désert, Rainbow e Dreamland; ha imbracciato la chitarra per canzoni come Fleur De Saison, Des Larmes, I Wanna Be Your Dog e Quand Vient Le Jour; e non ha mancato di sedersi alla tastiera, armata del suo metronomo touchscreen su cui variare i beat, per proporre una versione sperimentale e minimalista di Opium.
La squadra di musicisti che la accompagnano in tour è ormai ben rodata e ha reso al meglio, senza far sparire le rispettive doti sullo sfondo né rubare la scena alla vera protagonista.

Quando il concerto è terminato, ero semplicemente in estasi. Purtroppo non ho avuto tempo di aspettare che Emilie uscisse dai camerini perché dovevo correre a prendere il tram per acchiappare l’ultima coincidenza col bus e tornare in albergo, ma ciò non ha reso la serata meno memorabile. Emilie Simon è un’ottima autrice, una vocalist di enorme talento e una performer impeccabile. Per quanto ami la sua musica su disco e già solo ascoltare quelle canzoni sarebbe valso il viaggio a Bordeaux, la sua resa dal vivo è stata talmente spettacolare da superare ogni mia previsione e farmi tornare a casa arricchito e contento di aver fatto quest’esperienza.

Saturday 29 November 2014

Bordeaux, j’ai pris perpète

Che fine ho fatto questa settimana è presto detto: sono saltato su un aereo e sono andato a Bordeaux, in Francia. Perché? Perché con l’uscita di Mue e dopo aver visto il live al Rock en Seine, ho deciso che un concerto di Emilie Simon era un’esperienza irrinunciabile. Del concerto parlerò a parte perché merita un post tutto suo, qui mi limiterò a fare due chiacchiere sulla città e le mie impressioni a riguardo. Il concerto era mercoledì, il volo di andata solo lunedì, quello di ritorno venerdì, così ho avuto i due giorni intermedi tutti dedicati a girare per Bordeaux.

Il viaggio in sé non è stato malvagio: niente ritardi, niente corse, ho trovato facilmente informazioni sui trasporti pubblici per arrivare in hotel; quest’ultimo, pur essendo parecchio fuori mano, a Eysines, aveva quel feel da motel di Supernatural, con tutte le camere che danno all’esterno sul parcheggio, che me l’ha fatto amare all’istante. La camera, poi, era confortevole, la colazione abbondante, e per il prezzo esiguo che ho pagato sono stato più che bene.
Bordeaux è una città incantevole sia dal punto di vista architettonico, sia per le mille cose da fare in giro per il centro, sia per l’efficientissima organizzazione dei trasporti: e dire che sono partito con la morte nel cuore perché l’albergo era quasi fuori città e su internet avevo letto che tram e bus si fermavano alle 20:30, cosa falsissima perché sono regolari e puntuali fino anche all’una e mezza. L’unica cosa un po’ fastidiosa della Francia, se paragonata ai Paesi Bassi o addirittura a Cechia o Slovacchia, è la tirchiaggine di free wi-fi, che ho trovato solo in abergo (comunque con password legata alla camera), nella sala concerti e sul bus da e per l’aeroporto. Male, Francia, bisogna mettersi al passo con i tempi!

Comunque sia, martedì per prima cosa ho fatto un sopralluogo alla sala concerti, il Rocher de Palmer, situata a Cenon. Cenon è un sobborgo di Bordeaux che si trova attaccato alla città a est; Eisynes è un altro sobborgo, sempre attaccato alla città, a nord ovest: di conseguenza, visto che avrei preso gli ultimi trasporti, dovevo essere sicuro dei miei spostamenti (alla fine, il Rocher era praticamente attaccato alla fermata del tram, per cui tutto a posto). Portata a termine la missione, ho per lo più vagato per le strade del centro in cerca di un ombrello, che non ho trovato; nel farlo, ho visto un po’ le boutiques che si affacciavano nelle vie, approfittato degli sconti della Fnac per riempire la borsa di cd e trovato un posto spettacolare dove fanno ciambelle salate con ripieno a piacere, e avevano anche i miei adorati pomodorini secchi. Giovedì ho ripreso il giro da dove avevo interrotto e, più pratico della città, mi sono goduto l’architettura elegante, la bellezza del lungo-Garonna, un paio di cafè che avevo adocchiato e un cocktail tipico di un localino gay friendly davanti al quale ero passato un paio di volte e che aveva attirato la mia attenzione. Purtroppo, niente foto perché martedì pioveva mentre giovedì la luce era proprio pessima: sarà un incentivo a tornare, magari cercando anche qualche amicizia, perché le città francesi sono da vivere accanto a qualcuno. Anche perché ho visto un orologio bellissimo che, con la luce giusta al crepuscolo, avrebbe fatto un’ottima foto delle 8:15.

La cosa che mi ha colpito di più del viaggio è stata la mia naturalità nel parlare il francese. Mi viene spontaneo, mi diverte e gratifica, e le poche volte che ho chiesto a qualcuno di ripetere, mi hanno preso per ritardato prima che dicessi che sono straniero. Non voglio nemmeno stare a pensare a quanto la mia vita sarebbe diversa ora (o forse no?) se me ne fossi ricordato quando iniziavo l’università e sceglievo le lingue, o a quanto avrei avuto bisogno di Emilie Simon al liceo, quando quell’oca della prof di francese faceva di tutto per farmi odiare la lingua. Fatto sta che parlerei in francese tutta la vita, 24/7, e tornare all’italiano è stato un po’ traumatico.
Beh, se non altro mi restano i bellissimi ricordi del concerto, che costituiranno il prossimo, lungo post.

Saturday 15 November 2014

Apologia della sonda Rosetta

No, non ce la faccio proprio a mantenere la bocca chiusa sul “caso” del lander Philae che è atterrato sulla cometa 67P – o meglio, il caso di come i media italiani (dico a te, TG4) l’hanno presentato. È più forte di me, sono stato appassionato di queste cose sin da quando ero bambino, ho aspettato per anni questo momento, così come aspetto con trepidazione il fliby di Plutone della New Horizons, e vederlo vilipeso da quelli che dovrebbero fare informazione nel paese in cui vivo mi ha davvero fatto male. Altro che sapere che la scavatrice che ha perforato la superficie è stata fatta in Italia.
Per chi se lo fosse perso, il TG4 (vedi link sopra) ha commentato la notizia mettendo l’accento su quanto le scoperte scientifiche sulla natura delle comete ne rovinino la popolare immagine romantica. Su quanto le immagini di questi sassi polverosi tolgano fascino all’“astro” della Natività. Ovvio, perché anche i lander delle missioni Apollo sulla Luna a 384,400 km sono un pugno nell’occhio quando alzi lo sguardo a guardarla prima di una sana pomiciata. Ma qui è peggio, perché, appunto, la cometa è un simbolo della Natività, e guai a toccarla. Quasi quasi direi, fortuna che questa gente non ha più il potere politico di una volta, perché tutto ciò mi ricorda vagamente il processo a Galileo: guai a toccare la visione dell’universo quando c’è di mezzo la religione!
Ci sono tante di quelle cose che vorrei sbattere in faccia all’autore di quel servizio, farneticazione per farneticazione, perché quell’articolo è davvero l’apologia dell’ignoranza volontaria. Vedere le comete “con sorpresa e stupore” significa solo essere dei gran coglioni, perché al giorno d’oggi siamo in grado di calcolarne le orbite e prevederne quindi le apparizioni con anni di anticipo; “non lo sapeva quasi nessuno” della missione, quando bastava aprire Wikipedia per informarsi; e che i nuclei cometari fossero grossi pezzi di roccia e ghiaccio che sublimano in prossimità del perielio è noto da decenni, basta la licenza media. L’asteroide di Armageddon glielo romperei in testa, perché si sa che l’astronomia è buona solo come materiale per blockbuster scientificamente inaccurati. Ciliegina sulla torta, “gli scienziati sono gli unici o quasi ad eccitarsi” per la missione, mentre è evidente che il grande pubblico, di cui lui vuole farsi portavoce, è decisamente infastidito, anzi, offeso dall’essersi ritrovato queste scomode nozioni scientifiche infilate nel sedere. Era meglio non sapere, continuare a crogiolarsi nell’immagine della palla di luce fuffosa con la coda: non posso nemmeno chiamarlo sottotesto, perché è praticamente il punto focale del servizio.

Ok, mi rendo perfettamente conto che arrabbiarmi è stupido. L’atteggiamento antiscientifico è un po’ una costante della società italiana, basti pensare a quanti si scagliano contro quella stessa ricerca che permette loro di riacchiappare i loro animaletti per la coda quando hanno una zampetta nella fossa. Figurarsi quindi il giudizio che si può avere su una scienza che, apparentemente, non ha un riscontro concreto nella vita quotidiana (dico “apparentemente” perché capire il funzionamento su larga scala dell’universo in realtà serve a controllare e applicare quelle stesse forze sulla piccola scala, ovvero la base della tecnologia moderna; radio e tv, forno a microonde e radiografie in primis). Ma c’è ben altro, un motivo molto più radicato per cui in una società retriva come quella italiana queste scoperte sono considerate un male, come l’apologia della beata ignoranza del TG4 ha chiaramente mostrato.
La verità è che l’astronomia è il motore che propelle l’avanzamento della società. È la scienza che per prima ha spinto l’uomo a mettere in discussione il divino, a studiare il cielo non come qualcosa di remoto e irraggiungibile, non come un reame separato e immutabile, ma come parte integrante della realtà in cui viviamo. È stata una scienza piena di errori, che ha dato per assodati anche per secoli modelli che poi si sono rivelati incorretti ma li ha poi superati, che si mette costantemente in discussione ed è alla continua ricerca di correzioni e nuove sfide a quanto già sa. Ci mostra quanto piccoli e umili siamo, quanto la nostra conoscenza sia fallace e quanto la “verità” non esista e sia costantemente conrovertibile. Ci insegna ad avere il coraggio di superare le nostre teorie quando si rivelano sbagliate, che non esistono dogmi, che nessuno può proclamarsi detentore della saggezza suprema perché la percezione umana è limitata. Per secoli abbiamo pensato che il cielo fosse un reame divino, che costituisse un mondo a parte, perfetto, la residenza di Dio; e che ogni cosa fosse stata creata in un meccanismo perfetto affinché noi potessimo essere qui. Oggi sappiamo che l’universo è fatto della stessa materia di cui siamo fatti noi, che fuori dal nostro cielo c’è uno spazio uguale a quello in cui ci muoviamo noi, che i meccanismi su cui si basa la nostra esistenza sono imperfetti e soggetti al declino – basti pensare al decadimento orbitale che farà sì che nel giro di milioni di anni non possano più avvenire eclissi totali sulla Terra – solo in tempi talmente grandi da non essere nemmeno concepibili dalla nostra mente. Noi siamo qui, approfittiamo di un breve istante per esistere, e col tempo le cose cambieranno. Nulla è a nostro uso e consumo, siamo solo stati fortunati e dobbiamo prendere la nostra esistenza come il dono che è, non darla per scontato perché ci è dovuta.
Se non fosse stato per la scuola aristotelica, per la Rivoluzione Copernicana, per il telescopio, per i primi uomini nello spazio, saremmo ancora schiavi dell’irrazionale e della superstizione, senza la possibilità di pensare con la nostra testa e prendere in mano la nostra esistenza. Ascolteremmo ancora chi dice di aver ricevuto una rivelazione e lasceremmo che fossero loro a decidere della nostra vita. E vivremmo ancora nel terrore ogni volta che una cometa, questo misterioso oggetto luminoso che trascende l’immutabilità delle Stelle Fisse a intervalli imprevedibili, compare in cielo come presagio di chissà quale sventura.

Wednesday 5 November 2014

My super bittersweet sixteen

My violent mood swings peak and my hands
Are as heavy as rocks.
I have no time and no space,
I have fallen behind:
There is no god.

The night is cursed,
Loud and blurred,
But still it rains,
Still it rains,
It rains like hell,
It rains like hell!

Rain on empty shells.


Ricordo che c’è stato un tempo in cui non ero meteopatico e la pioggia mi metteva allegria, mentre ora giornate intere uggiose e umide mi mandano letteralmente in bestia.
È da quando sono tornato da Lucca che mi porto dentro un veleno strisciante. Sono in uno stato di frenesia inespressa e non faccio che alimentare la mia frustrazione ascoltando musica depressa o, alla meglio, incazzata. Davvero, è da tanto che non ricordo di aver contribuito al mio cattivo umore in quel modo, piuttosto che esorcizzarlo, e non sono assolutamente in vena di provare ad ascoltare qualcosa di più allegro per scacciare il malessere di vivere. È come una droga, mi faccio deliberatamente del male e non riesco a smettere.

La cosa peggiore è che non riesco proprio a capire quale sia la causa. Non ho magagne affettive, non ho amicizie in crisi, non ho niente di niente che non vada. Tornare dal paese dei balocchi alla routine di sicuro non aiuta, ma è ridicolo che ciò basti a ridurmi i nervi in queste condizioni. Probabilmente, una parte è dovuta tensione per l’imminente partenza per l’Olanda, ma anche questo mi sembra un po’ poco. E così eccomi qui, diviso fra i Draconian, i The Romanovs, la Sia più deprimente e chissà che altro. Se sono davvero al punto in cui la musica non mi aiuta ma peggiora la situazione, le cose si mettono davvero male.
Fortuna che almeno posso fare il sedicenne sul blog, è l’unica valvola di sfogo che mi è rimasta. Il risultato è un post privo di sostanza e interesse, ma sticazzi, non posso sempre scrivere roba coerente e significativa.