Sunday 27 December 2015

Pagelle musicali 2015: paradiso

Prima di leggere questo post, mettetevi comodi e procuratevi del comfort food, perché sarà lunghissimo: il 2015 è stato infatti un anno affollato e ricco di uscite stellari. Se il metal ha visto troppi disastri e pochi superstiti, le varie gradazioni di pop hanno invece prodotto una miriade di ottimi dischi che hanno confermato carriere monumentali o consacrato giovani talenti.
Premetto subito che l’ordine degli album è puramente indicativo: tolta la supremazia assoluta di Susanne Sundfør e del suo capolavoro, e il fatto che la Tamarrja si sia salvata per il rotto della cuffia, considero buona parte di ciò che c’è nel mezzo più o meno a pari merito, e l’ordine dipende spesso dalla data d’uscita o da preferenze strettamente personali.
I più attenti noteranno alcuni illustri assenti fra inferno e paradiso: Rebel Heart di Madonna perché ho smesso di prenderla sul serio dopo American Life e non ho proprio tempo da dedicarle; Haven dei Kamelot perché me ne sono semplicemente dimenticato; 25 di Adele perché no, non mi sta antipatica, ma non riesco proprio a interessarmene minimamente; Kylie Christmas di Kylie Minogue per pura mancanza di tempo; Songs From The North I+II+III degli Swallow The Sun perché vi prego, oltre due ore e mezza di doom metal brutto e cattivo di fila al momento non riuscirei a stomacarle. Mi riservo di ascoltarli con più calma in qualche momento di magra l’anno prossimo e aggiungerli, se e quando ne ho voglia, nel post appropriato.


Ten Love SongsSusanne Sundfør
Ten Love Songs – Susanne Sundfør
Dopo un esordio canonicamente pop, la norvegese Susanne Sundfør si è imposta come una delle artiste di spicco del panorama elettronico scandinavo grazie alla sua voce inconfondibile e al songwriting eclettico e raffinato. Dopo il sound minimale di The Brothel e quello sperimentale di The Silicone Veil, la nuova sfida della norvegese è stata portare il synthpop che l’ha resa unica in una direzione più commerciale senza però rinunciare alla propria integrità artistica. E l’esperimento è riuscito alla grande. Sarò onesto: trovo più facile recensire dischi brutti, il che mi rende particolarmente ostico scrivere di Ten Love Songs, visto che è un album praticamente perfetto.
Perfetto è il titolo nella sua ingannevole semplicità: non si tratta infatti di una raccolta di canzoni d’amore scontate e melense, quanto più di dieci riflessioni sull’amore in tutti i suoi aspetti, anche quelli più fisici, morbosi, grotteschi o mostruosi. Perfetto è il songwriting, così come l’arrangiamento che lo fa risaltare: ognuna delle dieci canzoni ha una personalità individuale ma sono tutte accomunate da scelte stilistiche ben mirate. E perfetta è la struttura globale del disco, con una track list studiata in ogni dettaglio per regalare un’esperienza d’ascolto inimitabile. Si inizia con Darlings, un opener che introduce quello che sarà lo strumento predominante dell’album, l’organo in tutte le sue sfumature; nonostante la brevità, grazie alla performance vocale di Susanne ha abbastanza peso da stare in piedi sulle proprie gambe e non risultare una semplice introduzione in attesa dell’inizio dell’album. Segue la coppia Accelerate e Fade Away, due facce della stessa medaglia musicale che, pur essendo molto diverse fra loro, sfumano con naturalezza l’una nell’altra esaltando i reciproci punti di forza: Accelerate è una traccia oscura ai limiti dell’industrial, con un beat ossessionante e un cantato basso e torbido, che nel bridge esplode in un assolo di organo ispirato alla Toccata e Fuga in Re minore di Bach; d’altro canto, Fade Away è una delle canzoni più luminose, orecchiabili e pop dell’album, con linee vocali dinamiche e stratificate, e un allegro assolo di organetto sintetico sul bridge. Segue Silencer, che parte come una ballata semiacustica per poi acquisire una texture dream pop col progredire, ponendosi come uno dei momenti di calma dell’album; quest’atmosfera calma è ripresa dalla successiva Kamikaze, che parte in sordina quasi come una seconda ballata, stavolta all’organo, ma sul ritornello diventa una delle canzoni più catchy e ballabili mai prodotte da Susanne. La sorpresa finale è un assolo di clavicembalo che, da una parte, riprende e conclude il tema della canzone, dall’altra introduce le sonorità dominanti di Memorial, un capolavoro di dieci minuti dalle spiccate influenze classiche: la canzone inizia come una ballata divisa fra organo e chitarra acustica, impreziosita da una discreta texture elettronica; terminato il secondo ritornello, cresce in un bridge orchestrale ornato di pianoforte, che la trasforma in un viaggio musicale in continua ascesa che lascia senza fiato quando arriva al culmine e alla risoluzione.
L’oculatezza nella disposizione delle tracce è evidente dal’intro della canzone successiva, Delirious, un crescendo di elettronica che dà il tempo all’ascoltatore di prendere fiato dopo Memorial prima che inizi la canzone vera e propria: è la traccia in cui Susanne riesce perfettamente a fondere lo spirito sperimentale di The Silicone Veil con la direzione più pop di Ten Love Songs, giocando sulle dissonanze fra la parte elettronica e gli abbondanti archi per esplorare la parte più violenta dell’amore. Segue Slowly, che parte in sordina prima di diventare un tripudio di elettronica dal sapore discotecaro: orecchiabile ma non scontata, potrebbe essere il vero inno del synthpop scandinavo – non a caso, è co-prodotta dai Röyksopp, con cui Susanne ha già collaborato con ottimi risultati. Il finale dell’album è forse un po’ spiazzante: Trust Me, la penultima traccia, è una canzone arrangiata in maniera molto miniamale, con il solo organo a sostenere la voce di Susanne sino al finale dal sapore dreampop. È forse l’esperimento meno riuscito dell’album, ma non per questo è una canzone da buttare, specie per l’atmosfera che acquisisce dal vivo. L’ultima tracca, Insects è un esperimento fatto di percussioni tribali che si fondono con beat spiccatamente techno e una texture industrial: le linee vocali sono basse e roche, fino a quando esplodono in un tripudio di vocalizzi stratificati che concludono l’album con una nota di frenesia.
Al di là della struttura ben architettata, però, il vero punto di forza di Ten Love Songs è proprio la commistione perfetta fra songwriting e atmosfera: le canzoni riescono a coprire un ampio spettro emotivo proprio grazie alle scelte compositive e agli arrangiamenti, che sono sempre funzionali al mood del brano. Il risultato è un viaggio fresco e interessante fra gli aspetti più vari di una delle emozioni umane che da sempre ha ispirato maggiormente la musica. È un album da apprezzare sia col cuore, sia con la testa, nonché un bellissimo, scintillante nuovo capitolo di una carriera in costante ascesa artistica. Ben fatto, Susanne!
Preferite: Memorial, Accelerate, Delirious

FrootMarina & The Diamonds
Froot – Marina & The Diamonds
Per parlare adeguatamente del terzo album della poliedrica Marina Diamandis bisogna mettere in prospettiva la sua discografia – il che non è facile, considerando la varietà musicale che ha fornito con soli due album. Il seguito dell’ottimo indie-oriented The Family Jewels è stato infatti il magnifico Electra Heart, che ha esplorato territori più elettronici e “mainstream”, dando al genere la peculiare interpretazione della Diamandis. Con Froot, in un certo senso, Marina ha fatto un passo indietro e due avanti: chiusa la parentesi elettronica, è tornata al sound delle origini ma l’ha interpretato attraverso la maturità artistica che ha acquisito nel frattempo. Froot si ritrova ad essere il vero diretto successore di The Family Jewels, ma figlio della sofisticatezza di Electra Heart. Abbandonato il battaglione di collaboratori e produttori che hanno contribuito a mettere il bubble gum nel secondo album, Marina ha portato con sé quanto imparato da loro per scrivere da sola tutta la musica e i testi, e produrre le canzoni da sé con l’aiuto del solo David Kosten. Il risultato è un album poliedrico e unico, difficilmente classificabile in un solo sottogenere di pop. Risaltano le ballate, sia quelle più classiche come Happy e Immortal, sia quelle venate di elettronica come I’m A Ruin; ad esse si alternano pezzi dall’anima più pop, come i due singoli Froot e Blue, o la vivace Weeds, e le belle suggestioni soft rock di canzoni come Forget, Can’t Pin Me Down, Better Than That e Savages. A completare il tutto, una vena più minimale e a tratti sperimentale portata avanti nelle ben riuscite Gold e, sorpattutto, Solitaire. Una varietà di sound, insomma, che trova il filo conduttore nelle strutture a volte imprevedibili e nelle progressioni di accordi dolceamare tipiche del songwriting fresco e peculiare di Marina, più marcato che in Electra Heart ma più funzionale e levigato che in The Family Jewels.
Le tematiche e i testi degli album seguono lo stesso percorso del sound: The Family Jewels è stato il diario di una Marina post-adolescenziale, mentre Electra Heart un’analisi ironica e un po’ cinica della pop culture attraverso un personaggio che, fondamentalmente, non era Marina ma un archetipo in cui la Generazione Me poteva riconoscersi. Froot torna a parlare della vera e propria Marina, ma con una maturità del tutto inedita: ritroviamo sia le relazioni amorose (Froot, Blue, I’m A Ruin, Weeds), sia il senso di solitudine e difficoltà a mescolarsi alla gente del primo album (Happy, Forget, Solitaire, Immortal), sia l’ironia e la critica sociale che l’ha unito al secondo (Gold, Can’t Pin Me Down, Better Than That, Savages), il tutto interpretato con un nuovo senso di pacatezza e accettazione che rende più sottile ed elegante la tipica ironia di Marina. La colpa nelle relazioni non è più da un’unica parte, la solitudine è qualcosa che si può superare trovando la forza nella propria unicità, e la società è osservata e commentata con più oggettività e meno furia (Savages, ad esempio, denuncia la “rape culture” ma soffermandosi ad analizzarla razionalmente piuttosto che attaccarla).
Sia musicalmente che testualmente, Froot è la sintesi e il manifesto del percorso che Marina ha compiuto da quando era una scene queen che condivideva le demo su MySpace ad oggi. Un percorso che ci regala un’artista padrona della propria musica e libera dal personaggio, che non ha paura di camminare sulle proprie gambe e presentare un prodotto genuino che non scende a compromessi.
Preferite: Immortal, Happy, I’m A Ruin

How Big, How Blue, How BeautifulFlorence + The Machine
How Big, How Blue, How Beautiful – Florence + The Machine
Florence Welch ha deciso di spiazzare il proprio pubblico scendendo con i piedi per terra: è questa la descrizione più concisa di How Big, How Blue, How Beautiful, il nuovo album della cantante britannica e della sua Machine. Follow-up degli acclamati Lungs e Ceremonials, questo terzo album rappresenta una vistosa dipartita tematica, stilistica e d’atmosfera rispetto ai lavori che l’hanno preceduto. Già senza leggere le interviste di Florence il motivo del cambio di rotta è evidente nelle canzoni: se i primi due album erano l’esplorazione del mondo interiore e della fuga dalla realtà della cantante, quest’album è una specie di diario su come Florence riesce a scendere a patti e avere a che fare col mondo reale. Come è ovvio, temi così concreti necessitano di un approccio musicale e autorale diverso dal passato, e How B. è strutturato secondo quest’ottica.
Dal punto di vista testuale e vocale, il risultato sono lyrics molto più concrete, spogliate delle metafore, ma non per questo scontate o meno attuali; ad accompagnarle sono linee vocali più energiche, cantate da una Florence raramente così espressiva. Dal punto di vista del sound, ciò si traduce in arrangiamenti scarni e orientati più al rock che al chamber pop, con una sezione ritmica molto prominente e un marcato uso delle chitarre elettriche. Piuttosto che all’arpa o all’organo, a riempire questo scheletro sono stavolta i fiati, un ensemble di ottoni e, più raramente, legni, sempre in primo piano rispetto agli archi. Il risultato è la perdita del misticismo onirico che caratterizza Ceremonials a favore di un suono più duro e concreto, dai colori talmente vividi che le sfumature si colgono solo col tempo: How B. è infatti un disco le cui meraviglie si scopre lentamente, ascolto dopo ascolto.
Non a caso, la prima canzone che ha invaso i social media appena uscito l’album è stata Queen Of Peace: oltre ad essere oggettivamente magnifica, con i suoi archi, i tamburelli, le chitarre meno prominenti e le metafore tipicamente “alla Florence” è quella che maggiormente richiama il vecchio sound; e anche St. Jude, con l’andamento lento, l’oboe, le texture elettroniche, i controcanti e la sezione ritmica appena accennata e riverberata, ricorda il misticismo tipico di Ceremonials. Queste due canzoni, che si pongono come ponte fra i vecchi lavori e il nuovo, sono state quelle apprezzate più velocemente dal pubblico, ma ciò non significa che le canzoni più “moderne” siano da scartare: basti vedere il magnifico minimalismo di Various Storms & Saints o Long & Lost, che riescono a donare delle esperienze d’ascolto da brividi già solo con una chitarra, la voce di Florence, qualche armonia vocale sullo sfondo e poc’altro – rispettivamente archi e organetto – a guarnirle. E anche le canzoni in cui il lato aggressivo è più evidente hanno tanti da offrire: canzoni come la tilte track o Ship To Wreck bilanciano alla perfezione il nuovo lato rock con arrangiamenti un po’ vecchio stile, mentre What Kind Of Man e Delilah dimostrano come il trionfo di batteria, chitarra e ottoni riesca a valorizzare le melodie tanto quanto la sontuosità dei lavori precedenti. D’altro canto, però, canzoni come Caught e Mother, che propendono marcatamente verso un Brit rock tipico e scarno, risultano un po’ sciape e fuori posto, indicando quelli che sono i confini di Florence nell’innovarsi senza snaturarsi. E francamente, mi chiedo come siano finite sul disco, data la magnificenza di certe bonus track (specie Pure Feeling e Conductor, relegate all’edizione Target).
In sostanza, quindi, How Big, How Blue, How Beautiful è un album che, a prima vista, offre poco di ciò che ha fatto affezionare il pubblico a Florence, ma che con gli ascolti rivela come, dentro a una confezione sonora meno mistica e più terrena, si trovi sempre la stessa Florence che conosciamo e amiamo. D’altro canto, pur essendo chiaramente figli dello stesso team creativo, già Lungs e Ceremonials sono stati due album molto differenti: How Big, How Blue, How Beautiful ha solo bisogno di un po’ di fiducia per rivelarsi come il loro degno successore a chi lo sa ascoltare.
Preferite: Queen Of Peace, Various Storms & Saints, St Jude

SorryMeg Myers
Sorry – Meg Myers
Dopo due EP d’indubbia qualità, l’americana Meg Myers ci propone finalmente una prova musicale completa con Sorry, il suo primo full length. Composto da tre delle migliori tracce dell’EP Make A Shadow e sette canzoni completamente inedite, Sorry si profila come il punto di partenza di un’artista che ha già trovato una propria identità: ha decisamente quel feel frizzante e onesto da debutto, ma l’esperienza maturata con la registrazione degli EP si nota. Il sound è sempre il pop-rock a tratti ruvido e pungente che caratterizza Meg, ma l’opera di levigazione intrapresa in Make A Shadow continua: le due tracce d’apertura, Motel e il singolo Sorry, sono un ottimo esempio di ciò, declinando le sonorità più abrasive con sfumature più lievi che aggiungono un tocco di classe. È interessante notare come Meg non abbia disdegnato episodi più radiofonici come l’allegra A Bolt From The Blue o la frizzante Lemon Eyes, ma non abbia escluso nemmeno richiami al sound più essenziale e pungente del primo EP, Daughter In The Choir, col groove amaro e introspettivo di I Really Want You To Hate Me. Fra i gioielli indiscussi dell’album, le ballate: oltre alla già nota ma sempre fantastica The Morning After, abbiamo anche Parade, un’ottima canzone semi-acustica impreziosita dagli archi, e la magnifica conclusione del disco, Feather, un viaggio introspettivo accompagnato da un ipnotico arpeggio di chitarra acustica e qualche accenno di rock.
A livello testuale, Meg è decisamente una figlia dei suoi tempi ed esplora con piglio a tratti caustico, a tratti onestamente intimo molti temi tipici della Generazione Y, dalla depressione e i problemi ad integrarsi nella società adulta (Motel, Feather, Make A Shadow, I Really Want You To Hate Me) alle paranoie che rendono difficile relazionarsi col prossimo, specie in ambito romantico (Sorry, Parade, Lemon Eyes), al bisogno di sesso (Desire) fino al desiderio di affetto genuino (A Bolt From The Blue, The Morning After). Tutto ciò rende ancora più facile l’immedesimazione dell’ascoltatore in un album dalle sfumature emotive già notevoli, enfatizzate dalla varietà della performance vocale di Meg, ora più delicata, ora più potente e quasi urlata.
Sorry è, in definitiva, un ottimo debutto che, coniugando freschezza e esperienza artistica, consacra le doti di songwriting di Meg Myers e pone un’ottima base per la sua carriera musicale.
Preferite: The Morning After, Feather, Parade

BridgesEivør
Bridges – Eivør
Chiusa la parentesi sperimentale di Larva e Room, la faroese Eivør torna a dedicarsi al genere che l’ha resa famosa, un pop acustico dalle tinte folk; ciononostante, riesce a rimescolare le carte in tavola per non far annoiare il suo pubblico, mantenendo alcuni dei guizzi non convenzionali che ha esplorato. Rispetto ai precedenti lavori folk di Eivør, Bridges è un album che ammicca maggiormente a un pubblico internazionale, usando il pop come base e spennellandolo con il folk per dargli colore. La parola chiave di Bridges è “semplicità”, con melodie raffinatamente orecchiabili e arrangiamenti minimali costruiti per mettere in risalto la voce della cantante: a farla da padrona è la chitarra acustica, mentre l’elettronica, che non è stata rinnegata, aggiunge assieme alle sessioni d’archi un tocco di classe qua e là. Il songwriting varia dal pop più radiofonico di Remember Me, My Faithful Friend o delle ballate Morning Song e Purple Flowers a quello intimista e minimale di Bridges e Stories. Non mancano episodi folk come la bellissima Tides, o più sperimentali come l’elettronica On my Way To Somewhere o la cinematica The Swing, dal sapore orientale. Highlight indiscussa del disco è la performance vocale di Eivør, che plasma il proprio timbro unico e argentato con mille sfumature, ora più sussurrato, ora più malinconico, ora gioioso per ottimizzare l’impatto emotivo delle canzoni.
A chi ha conosciuto Eivør con Larva e Room, Bridges potrebbe sembrare un album meno coraggioso, ma prosegue con coerenza il percorso di costante evoluzione della cantante, che mai si sofferma troppo a lungo sulle stesse sonorità. Se proprio vogliamo trovargli un difetto, è un album molto corto; ma pur nella sua brevità, l’intensità emotiva delle canzoni lo rende un’esperienza d’ascolto più che appagante.
Preferite: Stories, The Swing, Bridges 

SlørEivør
Slør – Eivør
E poi niente, Eivør fa una Beyonciata e tira fuori a sorpresa un secondo album a fine anno, sei mesi dopo il precedente. Nelle parole della stessa cantautrice, Slør è il fratello di Bridges e si profila come una sua release-compagna: le canzoni sono state composte come immagini riflesse di quelle su Bridges, con i testi in faroese che seguivano spontaneamente la scrittura di quelli in inglese. Eppure, la realtà dei fatti sembra un po’ diversa: si tratta di un album con una personalità propria, totalmente distinta da quella di Bridges, e che accontenterà quelli che hanno trovato quest’ultimo poco coraggioso. La vena sperimentale che Eivør aveva dimostrato in album come Larva torna alla ribalta e offre un ottimo connubio fra pop minimalista, pennellate folk ed elettronica che, nonostante il faroese, ha un sapore perfino più internazionale dell’album “compagno”.
Il tratto d’unione di Slør è una produzione stratificata ma minimale, con sussurri e piccoli rumori di sottofondo che però non distraggono l’ascoltatore né dalle melodie, né dagli altri strumenti, né tanto meno dalla voce di Eivør, ancora una volta prestigiosa protagonista del disco. Le singole canzoni esplorano una varietà di sound e interpretano in maniera personalizzata varie gradazioni di elettronica: l’orecchiabile Silvitni è completata dalle suggestioni barocche del clavicembalo; il synthpop minimalista di Brotin è accompagnato da un predominio di chitarra nella strofa. I rumori quasi industriali di Salt si fondono con i violini sullo sfondo, mentre assumono tratti inquietanti in Í Tokuni, che i sussurri trasformano quasi in una filastrocca da un incubo. Mjørkaflókar, d’altra parte, ha un approccio minimalista sulla struttura della ballata pop romantica, seguita da Petti Fyri Petti e Røttu Skógvarnir, che sono episodi folk che richiamano maggiormente Briges, la prima con l’uso della sola chitarra acustica, la seconda accompagnandola col sintetizzatore ma lasciandole la conduzione della canzone. Verð Mín, non a caso scelta come primo lyric video tratto dall’album, coniuga perfettamente l’anima acustica del disco precedente col piglio elettronico di Slør. La title track è una canzone evocativa in cui un delicato strato tutto elettronico si alterna alla voce quasi a cappella di Eivør, mentre la chiusura è affidata a una reinterpretazione di Trøllabundin, un classico che accompagna la cantante da ormai dieci anni.
Certo, tentare di accontentare tutti può essere un’operazione rischiosa, ma far uscire due album quasi in parallelo è una mossa molto intelligente: con la combinazione di Bridges e Slør, Eivør è riuscita con classe a soddisfare sia i fan del suo lato folk, sia quelli del lato sperimentale, senza creare un unico album confusionario. Insomma, il 2015 un ottimo anno per la produzione musicale della cantante faroese.
Preferite: Slør, Silvitni, Verð Mín

SurrenderHurts
Surrender – Hurts
Far evolvere il proprio sound ma restare coerenti con se stessi è una sfida non da poco, specie se si viaggia in uno di quei generi a cavallo fra il mainstream e il sofisticato come il synthpop che ha fatto la fortuna degli Hurts. Trovare l’equilibrio perfetto fra intortare un pubblico occasionale di poche pretese, espandersi verso ascoltatori nuovi e, soprattutto, accontentare i fan, quelli veri, esigenti, che pretendono un costante miglioramento, non è una scienza esatta ed è forse questo che penalizza Surrender rispetto ai due dischi precedenti: il problema non è tanto che l’evoluzione del sound sia andata in una direzione più allegra, che segna un netto distacco dall’oscurità di Exile, quanto l’occasionale dispersività e mancanza di concentrazione.
Tanto per cominciare, se si escludono le bonus track, è un album molto breve – poco più di mezz’ora; il fatto che la prima delle dieci canzoni sia un intro di un minuto e diciotto non aiuta particolarmente, specie perché musicalmente è del tutto slegata a qualsiasi altra cosa ci sia sul disco. Inoltre, Surrender contiene alcune fra quelle che sono probabilmente le canzoni meno distintive della discografia degli Hurts: Kaleidoscope è un brano relativamente anonimo che offre poco oltre all’orecchiabilità e la ballabilità. Nothing Will Be Bigger Than Us sembra partire bene ma si rivela chiaramente figlia dell’esperienza con Calvin Harris, con la tipica struttura in crescendo e diminuendo prima del “drop the bass”, sebbene lo spiccato senso melodico e un arrangiamento curato la salvino dall’essere l’ennesimo, anonimo inno da discoteca. Why si profila un po’ come la tipica canzone pop e inizia addirittura con una scialba chitarra acustica, anche se gli arrangiamenti ritmici e vocali dei ritornelli e bridge riservano sorprese che la rendono tutto sommato interessante. Il problema principale di queste canzoni, però, è che falliscono in ciò che la musica degli Hurts riesce di solito: far emozionare, oltre che ballare.
A metà fra le canzoni meno riuscite e quelle memorabili si colloca Lights che, quando è uscita come singolo, mi ha fatto inarcare le sopracciglia col suo piglio smaccatamente Anni Novanta; il suo segreto è però essere una di quelle tracce che crescono con gli ascolti, soprattutto grazie a una melodia davvero piacevole, un ritornello che si attacca alla testa senza mezze misure e, finalmente, l’emozione che rende “Hurts” una canzone synthpop. Probabilmente, incarna bene lo spirito dell’album, opacizzato da qualche scelta discutibile ma che, col passare del tempo, rivela le sue meraviglie. Una di queste è sicuramente Some Kind Of Heaven, il primo singolo, che coniuga perfettamente tutti gli elementi della musica degli Hurts senza sbavature e in maniera ispirata: ritmo ballabile, melodia orecchiabile, ritornello a cui non si può sfuggire, sintetizzatori e archi. Le vere perle di Surrender però sono, come spesso capita agli Hurts, le canzoni lente. Le due ballate vere e proprie, Wings e Wish: la prima è una power-synth-ballad che coniuga gli elementi migliori che hanno fatto la fortuna di canzoni come Stay e Blind e li ottimizza con un’ottima melodia e arrangiamenti ancora più sontuosi, ma non pacchiani; è una di quelle canzoni che, si capisce già dal disco, toccheranno vette di spettacolarità in concerto. Wish, d’altro canto, è una ballad quasi interamente affidata a pianoforte, archi e voce che, come da tradizione, chiude l’edizione standard del disco: a differenza delle precedenti The Water e Help, ha una melodia più solare che fa da contrasto alla malinconia delle lyrics, restando così fedele a quello che è lo spirito generale dell’album. Il vero cuore pulsante di Surrender sono però i due lenti elettronici: Rolling Stone, è il trionfo degli Hurts vecchia maniera ma rivisitati, con una ritmica che ammicca agli accenni dubstep di Exile, le armonie di violini che richiamano Happiness, il tutto contestalizzato col piglio più fresco e pop che caratterizza Surrender. Slow, nonostante l’inizio un po’ goffo affidato a ottoni filtrati, coniuga una melodia davvero bella con arrangiamento sognante curato nel minimo dettaglio per rilassare prima ed emozionare poi l’ascoltatore, trasformandola nell’highlight emotiva del disco.
Nel complesso, quindi, Surrender è un po’ inferiore agli album che l’hanno preceduto, ma ha il pregio di essere composto quasi esclusivamente da buone canzoni: quasi tutte quelle meno riuscite hanno comunque qualche qualità che le redime, mentre quelle meglio riuscite hanno tutta la carica emotiva che rende unica la musica degli Hurts. L’incostanza del disco potrebbe sembrare il primo segnale di un’ispirazione che inizia a calare, ma se si ascolta bene la qualità di fondo rivela che si tratta solo qualche piccolo inciampo derivato dal percorrere una strada meno conosciuta: produrre un gran bell’album invece che un capolavoro è comunque un ottimo risultato.
Preferite: Slow, Rolling Stone, Some Kind Of Heaven

To The NorthKari Rueslåtten
To The North – Kari Rueslåtten
Dopo nove anni di assenza dalla scena musicale, sembra che Kari Rueslåtten voglia recuperare subito tutto il tempo perso: a meno di un anno di distanza dal comeback (e con di mezzo il tour con le The Sirens), è infatti già riuscita a scrivere, registrare e pubblicare un nuovo album. Tempi così brevi possono portare a un calo qualitativo o un effetto riciclo dovuto alla fretta e alla poca ispirazione, ma è davvero così? Nel caso di Kari, decisamente no.
To The North aggiunge infatti un nuovo capitolo dal sapore post-rock al percorso artistico della norvegese, che racchiude qualche rimando al folk di Spindelsinn, al pop più radiofonico di Mesmerize, al minimalismo elettronico di Pilot e Other People’s Stories e, nove anni dopo, a quello acustico di Time To Tell. Rispetto a quest’ultimo, gli arrangiamenti sono più ricchi, dominati da morbide chitarre elettriche riverberate che portano freschezza al pianoforte e agli altri strumenti acustici (come ad esempio flauti) sia negli episodi d’ispirazione più pop, come Battle Forevermore, Mary’s Song, Arrow In My Heart o Dance With The King, sia a quelli dal sapore più folk e nordico, come What We Have Lost, Three Roses In My Hand o l’ipnotizzante title track, sia al minimalismo di brani come Letting Go o la magnifica e personalissima cover di Turn, Turn, Turn di Pete Seeger (resa celebre dai The Byrds). In questo contesto strumentale, a farla da padrona è ancora una volta la magnifica voce di Kari che, col suo timbro cristallino, il dinamismo e la sconfinata espressività, completa canzoni nate da un songwriting diretto e privo di tecnicismi o manierismi inutili.
Una menzione particolare per il titolo dell’album: non c’è da sorprendersi se le cantanti norvegesi traggono ispirazione dalla bellezza della propria terra e la peculiarità della sua cultura; ma, a differenza di certe colleghe, Kari non sembra voler annegare i propri testi nei cliché nazionalistici, limitandoli alla title track per restare libera di esplorare, nelle altre canzoni, vari aspetti della vita e delle emozioni umane. In questo modo, il contenuto testuale di To The North è più una raccolta di spaccati di vita dalla prospettiva di una donna norvegese piuttosto che l’ennesima dichiarazione d’amore per la sua terra. Nel complesso, To The North ha molte idee da proporre e le ammanta in una confezione sonora inedita per Kari Rueslåtten, che lo rende un degno successore degli album iconici che l’hanno preceduto. Se nove anni di pausa hanno portato Kari a ricaricare le idee così tanto, ben vengano!
Preferite: Three Roses In My Hand, Dance With The King, To The North

Cosmic DroneIson
Cosmic Drone – Ison
Debutto stellare – è il caso di dirlo – per gli ISON, progetto a quattro mani di Heike Langhans (:LOR3L3I:, nuova vocalist dei Draconian) e Daniel Änghede (Crippled Black Phoenix, Hearts Of Black Science). Nato da una fortissima sinergia creativa sulla scia dei duetti negli album delle rispettive band, il progetto ISON parte subito alla grande con un EP estremamente ispirato che fa un lavoro impeccabile nel coniugare songrwiting e atmosfera. Ogni strumento, dalle chitarre riverberate agli sprazzi di elettronica dal sapore futuristico, è infatti inserito con cura per creare un vivido immaginario spaziale: una sessione ritmica soffusa accompagnata da chitarre e un occasionale pianoforte descrivono la solitudine del vuoto cosmico in Lost Satellites e Atlas, una commistione di elettronica e morbido rock malinconico raccontano la nostalgia delle immense distanze fra i corpi celesti in RedShift e Travellers, e il lento, sensuale, ossessivo incedere doom rock di Icosahedron, accompagnato da dissonanze al pianoforte e pesanti filtri vocali, narra del decadimento (o trasformazione?) che l’Universo è destinato ad affrontare. Tutte e cinque le canzoni sono ben strutturate, con una naturale progressione che raggiunge un apice fortemente emotivo prima di spegnersi e lasciare il posto alla successiva: le migliori sono la travolgente RedShift, che parte in sordina per poi esplodere sul finale come una supernova, l’ossessionante Icosahedron, col suo cambio di tema finale, e l’incredibile Travellers, che raggiunge un picco di emotività prima che un secondo crescendo, accompagnato da un monologo di Carl Sagan (impara come si usano bene i monologhi scientifici nelle canzoni, Tuomassa!), arrivi a un nuovo climax e termini così l’EP. Ottima anche la prova vocale di Heike e Daniel, che si alternano con naturalezza al microfono secondo necessità, senza che nessuno dei due risulti invadente rispetto all’altro.
Il futuro degli ISON sembra piuttosto luminoso: le idee continuano a non mancare e Heike e Daniel sono già tornati in studio per registrare del nuovo materiale. Nell’attesa, però, Cosmic Drone è un EP che si lascia godere e regala qualcosa di nuovo ad ogni ascolto. Magari ci fossero più debutti come questo!
Preferite: Travellers, RedShift, Icosahedron

Hairless ToysRóisín Murphy
Hairless Toys – Róisín Murphy
Uno dei capisaldi della produzione musicale di Róisín Murphy è l’eclettismo, assieme al rifiuto di accettare gli schemi musicali precostruiti. Basta guardare le sue precedenti uscite per capirlo: il debutto solista, Ruby Blue, è una raccolta di canzoni che racchiudono un caleidoscopio di influenze eterogenee e rifiutano gli stereotipi del pop; il secondo album, Overpowered, è una collezione di bellissimi brani synthpop che, apparentemente più convenzionali, danno invece un’interpretazione peculiare del genere. Dopo l’EP Mi Senti, che contiene cover molto personalizzate di brani storici italiani, arriva Hairless Toys, un album che sintetizza il percorso che Róisín Murphy ha compiuto fin qui. Si tratta infatti di un album che attinge agli schemi imprevedibili e all’eterogeneità di Ruby Blue e li interpreta secondo il sofisticato sound elettronico di Overpowered e Mi Senti, offrendo un mix molto intrigante. La volontà di rompere gli schemi e prendersi più di qualche rischio è evidente già dal minutaggio dell’album, delle cui otto canzoni solo una, Exile, dura meno di cinque minuti, tre vanno oltre i sei ed una, Exploitation, addirittura supera i nove – ed è stata scelta come singolo di lancio. Ma la lunghezza delle canzoni, perfettamente funzionale alla struttura dei brani, è scandita da un caleidoscopio di strumenti, dai sintetizzatori alle chitarre, passando per scelte meno convenzionali come parti fischiate o una serie di rumori ambientali accuratamente calibrati per fornire la parte ritmica, così che il minutaggio non va a pesare sull’ascoltatore perché ogni nota ha un suo valore e aggiunge qualcosa al flusso melodico.
In una confezione elegantemente elettronica, quindi, Róisín si sente libera di spaziare dalle suggestioni jazz di Exploitation e Evil Eyes a quelle minimali di Uninvited Guest, House Of Glass e Hairless Toys (Gotta Hurt), passando per ballate eclettiche come Exile e Unputdownable e il pop di Gone Fishing. Il risultato è un album indubbiamente pop, ma in qualche modo criptico, che richiede un po’ d’impegno per essere capito e apprezzato. Hairless Toys è riservato a palati fini, pronti ad aspettarsi una sorpresa e rivedere la propria opinione sulla musica ad ogni nota.
Preferite: Unputdownable, Exile, Hairless Toys (Gotta Hurt)

SovranDraconian
Sovran – Draconian
Con ogni ascolto di Sovran, il nuovo album dei Draconian, ho continuato a pormi una domanda a cui non è facile rispondere: cosa rende questa band tanto speciale? Davvero, cosa?
Non è un mistero per nessuno: i Draconian non sono una di quelle band che si rivoluzionano ad ogni disco. Anzi, fra gli artisti di un certo calibro sono gli unici rimasti del tutto fedeli al vecchio doom/gothic metal alla beauty and the beast, alle ritmiche lente e funeree, alle atmosfere profondamente malinconiche, alla voce femminile elegiaca che si contrappone al growl, ai testi altamente poetici ricchi di immagini oscure – del tutto impermeabili a influenze elettroniche, melodie catchy, orchestre complete o qualsiasi altro trend abbia coinvolto negli ultimi anni le band female-fronted. Eppure non danno mai l’impressione di continuare a pubblicare sempre lo stesso album. Cos’è che fa sì che la loro costanza non si trasformi in stagnazione e prevedibilità come in altre band? Credo che la risposta sia qualcosa che esula totalmente dai parametri tecnici e oggettivi della musica, ma rientra nella sensibilità individuale: hanno semplicemente qualcosa da dire. Nonostante gli anni, continuano ad avere una genuinità di fondo che fornisce loro contenuti freschi anche se li esprimono con una forma variata al minimo. È un po’ questo il riassunto di Sovran, un album che di primo acchito sembra avere poco da offrire ma con gli ascolti rivela una band che continua ad andare avanti, coerente con se stessa, invece che mordersi la coda e perdersi nel cliché.
Tanto per cominciare, Sovran va contestualizzato: è il primo disco in cui canta Heike Langhans, la nuova vocalist. Probabilmente per questo, l’album si barcamena fra il cercare di presentarla in un contesto il più familiare possibile e assecondare i guizzi d’innovazione che la band si concede. Il risultato è un album di transizione che inizia proponendo in toto la vecchia, collaudata formula doom-Anni-Novanta e termina inserendo influenze più eteree, goth e ambientali che guardano a un possibile futuro. Una scelta che lo penalizza in partenza perché, di primo acchito, una tracklist così nettamente divisa sembra una grossa cantonata: ci vuole qualche ascolto (o direttamente lo shuffle) per abituarsi a non lasciarsi estenuare dalla prima parte e conservare l’attenzione per la seconda, molto più interessante. Il tratto d’unione di queste due metà sono i classici ritmi lenti e solenni, minutaggi che sfiorano sempre i sei minuti e qualche spruzzata di violini che si inserisce in un bouquet particolarmente abbondante ed elaborato di riff di chitarra, la più grossa novità in campo strumentale. In generale, il songwriting mostra molta maturità ed è più scorrevole ed essenziale che alle origini, e anche brani come Heavy Lies The Crown, The Wretched Tide, Stellar Tombs o No Lonelier Star danno solo una sensazione di familiarità piuttosto che di autoplagio. Non aggiungono qualcosa di imprescindibile alla discografia dei Draconian ma restano comunque godibili.
Tutt’altro discorso, invece, per le canzoni più d’ambiente che, pur guardando al passato, mostrano una maggiore varietà di sound: la bellissima Pale Tortured Blue, momento di aria fresca della prima metà e vera highlight dell’album, si presenta come una ballata lenta e solenne che però non perde in incisività e potenza, con qualche cambiamento ritmico e un melodia ipnotizzante per un impatto emotivo enorme. Dusk Mariner e Dishearten, con il loro ritmo a tre quarti, presentano una strumentazione più ariosa, con chitarre a tratti quasi eteree e più enfasi su violini e tastiere. Le ultime due canzoni, Rivers Between Us e The Marriage Of Attaris, sono quelle che lasciano più spazio in assoluto alla nuova arrivata Heike, la prima in duetto con Daniel Änghede con gli stessi, ottimi risultati degli ISON, la seconda con un’interazione magistrale col growl di Anders. In generale, parlando di vocals, di diverso non c’è solo il timbro fresco e ipnotizzante di Heike: l’intero impianto vocale è stato profondamente rivisitato, con la conduzione per la prima volta distribuita equamente fra voce eterea e growl senza che il secondo prevalga e faccia passare inosservata la prima (il vero tallone d’achille dei Draconian con Lisa Johansson). La band si è resa conto del suo nuovo, enorme punto di forza ed è stata in grado di valorizzarlo al meglio.
Nel complesso, quindi, Sovran soffre un po’ dell’essere un album “di transizione”, che deve presentare una novità senza sconvolgere gli affezionati, ed è penalizzato dalla tracklist: concentrare tutte le canzoni vecchio stile nella prima metà rende il primo impatto difficoltoso e poco interessante ma, una volta che si prende familiarità con quella parte, è la seconda, più coraggiosa, a restare impressa. Alternare le canzoni avrebbe sicuramente reso il tutto più scorrevole ma, pur non essendo un capolavoro, resta un buon album. E soprattutto, se l’introduzione di Heike in fase di lavorazione avanzata ha comunque portato delle ottime novità in campo vocale, non resta che aspettare di sentire cosa faranno i Draconian avendola in squadra sin dall’inizio della scrittura del prossimo album.
Preferite: Pale Tortured Blue, The Marriage Of Attaris, Rivers Between Us

VulnicuraBjörk
Vulnicura – Björk
Artisticamente parlando, Björk è un po’ la versione musicale di quelle avanguardie pittoriche che demoliscono l’essenza visiva del loro mezzo di comunicazione per trasformarlo in sillogismo: l’opera è pregiata in quanto tale, perché l’ha fatta l’artista – se non l’apprezzi non sei abbastanza intelligente per capire il suo metodo intellettualmente superiore di comunicare. È un po’ questa l’essenza (e il punto debole) degli ultimi anni di produzione musicale di Björk, in cui la ricerca formale è stata il punto focale del songwriting a discapito del contenuto: il concept è stato il modo stesso di fare musica, accompagnata (e spesso offuscata) da mostre, grandi eventi e addirittura app, senza alcuna ricerca di un impatto emotivo sul pubblico. Insomma, qualcosa di difficile da cogliere e interiorizzare per chiunque non fosse Björk stessa. Beh, Vulnicura rappresenta una netta inversione di tendenza: per ammissione della stessa Islandese, si tratta di un album post-rottura, in questo caso della sua relazione di oltre dieci anni con Matthew Barney, per cui il punto focale è di nuovo il messaggio – la catarsi emotiva che Björk cerca attraverso la musica – mentre la forma, la composizione, torna a essere il linguaggio per esprimere il contenuto.
Questo non rende certo Vulnicura un album semplice o diretto: la musica di Björk è cerebrale per sua stessa essenza, la ricerca di soluzioni sonore innovative è il tratto d’unione della sua carriera. In questo caso, la ricerca musicale ha portato Björk, per sfuggire al dolore della rottura, ad arrangiare di proprio pugno le parti per un ensemble di quindici archi, che ha poi trovato un complemento (a volte stridente) nei beat elettronici dei produttori Arca e The Haxan Cloak. C’è come sempre molto brainstorming dietro quest’album e, del resto, anche a livello testuale, più che uno sfogo emotivo Vulnicura è una specie di autopsia a mente fredda della relazione nelle sue fasi finali e nei momenti successivi. In Vulnicura, però, la ricerca sonora è propedeutica ai testi e alle emozioni che vogliono comunicare canzone per canzone. Nel primo terzo abbiamo il prima: il contrasto fra gli archi magniloquenti e il cantato quasi balbettato in Stonemilker descrivono la sorpresa, lo sconvolgimento di scoprire che la relazione si avvia alla fine. Le dissonanze e il ritmo irregolare di Lionsong enfatizzano l’incertezza, il conflitto fra la speranza di superare il momento e la rassegnazione di non capire come farlo. La sincopata History Of Touches descrive il contrasto fra vicinanza fisica e distanza emotiva. Il secondo terzo è il dopo: in Black Lake la rottura è fresca e lunghe note, tenute a volte oltre trenta secondi, sono come profondi respiri fra un verso e l’altro, a diluire il dolore e renderlo più sopportabile prima di riprendere a cantare. La melodia destrutturata e l’improvviso cambio di tema in Family indicano il momento in cui Björk passa dal cieco lutto per la famiglia distrutta al cantare come forma di catarsi per trovare la forza di sostenere la figlia, mentre nella mistica Notget l’amarezza si trasforma in accettazione. L’ultima parte è il tentativo di ritrovare se stessa: il timido staccato di Atom Dance descrive i primi passi fuori dal bozzolo di dolore, il ritorno a comunicare con l’universo, mentre il caos armonico di Mouth Mantra è l’ispirazione che torna a fluire potente dopo il momento di maggior dolore. Quicksand è, infine, l’unica nota semi-positiva dell’album, ed è sostenuta da un beat vivace che sottolinea la speranza nata dal rivedere i momenti bui da una diversa prospettiva e trarne saggezza.
Vulnicura è forse l’album in cui Björk è riuscita a raggiungere la maturità artistica a cui anelava, in cui si concentra sulla ricerca formale senza trascurare il contenuto. Pur trattandosi di un album post-sfidanzamento, ogni canzone è chiaramente studiata a tavolino, piuttosto che un’espressione emotiva spontanea; ma è proprio lo studio meticoloso di ritmiche, armonie e stile vocale ciò che rende ogni brano una rappresentazione musicale fedele, potente e prontamente identificabile di stati emotivi in cui tutti possiamo riconoscerci. Magari abbiamo smesso di emozionarci, magari pensiamo che un cuore spezzato sia roba da adolescenti, ma tutti ricordiamo di essere passati per queste emozioni: Vulnicura è il primo album di Björk da molti anni che riesce a parlare un linguaggio universale e regala a tutto il pubblico un’esperienza d’ascolto profonda ed emotivamente coinvolgente.
Preferite: Stonemilker, Black Lake, Mouth Mantra

The Seventh Life PathSirenia
The Seventh Life Path – Sirenia
Mai giudicare un album dalla copertina, dal titolo o dagli errori del passato: è questa la lezione che ci insegna Morten Veland. Dopo scivoloni madornali come Nine Destinies And A Downfall o The Enigma Of Life, il nome dei Sirenia è diventato sinonimo di “serie B” e c’è sempre un certo scetticismo che precede l’uscita di un loro album; perfino se il precedente è stato positivo come Perils Of The Deep Blue, può sempre trattarsi di un caso fortuito. Ora, The Sevent Life Path non è esattamente l’album della redenzione definitiva: non porta nulla di davvero nuovo e non è particolarmente immediato; tuttavia, consolida la solida ripresa del precedente album, conferma l’ottimo sodalizio fra la musica dei Sirenia e una sempre più brava Ailyn e lascia ben sperare che, per quanto il vecchio Morten non voglia saperne di provare qualcosa di nuovo, abbia almeno imparato a giocare al meglio le carte storiche senza copiaincollare le canzoni.
I problemi ci sono e sono sempre quelli che i Sirenia si portano dietro da un decennio: i testi viaggiano sull’orlo della parodia; l’orchestra è più finta di una moneta da tre Euro; la produzione è caotica e non riesce a far risaltare nessuno strumento, annegando tutto in una massa sonora opaca; tolta l’intro, il minutaggio medio è sopra i cinque minuti per canzone e non sempre tutti necessari – anzi, un paio di canzoni prolisse e inutilmente complicate sembrano quasi una risposta diretta alle critiche per la banalità di The Enigma Of Life, più che un’esigenza compositiva. Ma una volta fatta pace con queste componenti imprescindibili del pacchetto Sirenia, il resto è piuttosto lodevole.
Va detto che The Seventh Life Path non è un disco facile: di primo acchito sembra uno di quegli album che non hanno carenze oggettive ma non ingranano comunque. Con gli ascolti, però, i dettagli saltano a galla e in canzoni che sembrano inutili mausolei del gothic metal da manuale si scoprono piccole perle sotto forma di variazioni su quello stesso schema classico, influenze inaspettatamente eclettiche, strutture imprevedibili ma non prolisse, tutte cose che svecchiano il sound e lo rendono interessante ai giorni nostri. Come non menzionare Serpent, che ribalta lo schema più diffuso della mid-tempo gotica proponendo la strofa cantata in pulito e il ritornello in growl, o Concealed Disdain, che fa lo stesso con una strofa veloce e un ritornello quasi da ballad? O i ben oculati cambi di tempo di Earendel e Insania, la prima impreziosita da strumenti classici e la seconda da sprazzi di elettronica? Ci sono perfino canzoni come Elixir e Sons Of The North che ibridano alla perfezione strutture tipiche del gothic metal old school con melodie catchy e ritmi accattivanti dal sapore danzereccio – l’opposto dei colleghi, che inseriscono strumenti metal in canzoni dalla struttura pop. Menzione d’onore, infine, per l’ottima The Silver Eye, la quintessenza della canzone gotica magniloquente ma rimodernata, e Tragedienne, l’ultima aggiunta alla collezione di ottime ballad che Morten porta avanti.
The Seventh Life Path è, insomma, un album che non rivoluziona le carte in tavola e, di primo acchito, può sembrare trito e ritrito; con gli ascolti, però, rivela non solo un ottimo uso degli elementi tradizionali del genere senza vistose autocitazioni, ma anche un’insolita varietà interna ed eclettismo di influenze che, pur con i suoi difetti, lo rende un capitolo davvero interessante nella discografia dei Sirenia.
Preferite: Elixir, The Silver Eye, Tragedienne

Between II WorldsNero
Between II Worlds – Nero
Dopo l’enorme successo di Welcome Reality e varie comparsate di pregio (fra cui la colonna sonora de Il Grande Gatsby), il duo/trio britannico Nero torna alla ribalta con Between II Worlds, che continua l’esplorazione dei territori al confine fra dubstep, techno, dance e synthpop massimalista. Un’esplorazione che vede la formazione britannica in transizione da duo di produttori a vera e propria band, cosa evidente dalla struttura dell’album: non solo molte delle canzoni seguono uno schema più convenzionalmente pop, ma è dato molto più spazio alla performance vocale di Alana Watson che, ormai ufficialmente parte dei Nero, li rende un trio a tutti gli effetti. A livello compositivo, la transizione è resa evidente dalla maggior presenza di canzoni brevi che, diversamente dal passato, si concentrano più sulla melodia che non sulla produzione in sé: brani come la sontuosa Circles, le orecchiabili The Thrill e It Comes And It Goes, o le radiofoniche Two Minds e Into The Night riescono a fondere perfettamente i potenti bassi e beat che hanno fatto la fortuna dei Nero con melodie catchy e ritmi che non sfigurerebbero in un club commerciale, dominati dalla performance vocale di Alana Watson. D’altro canto, la continuità col passato è assicurata da episodi quasi del tutto strumentali come la title track o Dark Skies, in cui a farla da padroni sono i synth e i bassi di Daniel Stephens e Joe Ray, con solo delle parti parlate e filtrate a fornire la narrazione. Ottimi anche i momenti in cui le due tendenze si incontrano e fondono a metà strada, ovvero Satisfy e Tonight, che possono essere facilmente descritte come canzoni metal suonate con strumenti sintetici.
Non mancano i momenti di calma, come What Does Love Mean, Into The Past (Reboot) e Wasted. La prima è interamente costruita su un singolo loop di sintetizzatore, ma riesce a svilupparsi in maniera sorprendente, trasportata dalla voce di Alana. La seconda è un remaster della traccia che i Nero hanno scritto per Il Grande Gatsby: sebbene questa versione non raggiunga l’impatto emotivo dell’originale, il nuovo arrangiamento la integra meglio nel contesto dell’album – ed è comunque bello avere una nuova versione da scoprire di una canzone che di per sé è magnifica. Wasted chiude l’album in bellezza con una ballata la cui delicatezza è esaltata dal contrasto con la traccia precedente: dominata da synth riverberati, dalla voce di Alana e, sul finire, dagli archi, è tanto inaspettata in un album come Between II Worlds quanto emozionante.
In generale, l’album è unificato dall’abilità dei Nero di strutturare perfettamente le canzoni, integrando i tasselli costituiti da strofa, hook e parti strumentali in maniera sempre diversa per non risultare monotoni, ma dando a ogni canzone un crescendo, un climax e una risoluzione. Nel complesso, l’album stesso segue questa struttura, con ogni canzone che rappresenta una diversa fase, e risulta un’esperienza d’ascolto molto appagante.
Preferite: Wasted, Circles, Into The Past (Reboot)

The DiaryThe Gentle Storm
The Diary – The Gentle Storm
Per onestà intellettuale, lo dico subito: nutro una certa antipatia verso Arjen Lucassen e la sua musica. Di lui ho una scarsa conoscenza di Ayreon e Ambeon, e apprezzo genuinamente solo gli Stream Of Passion (di cui comunque preferisco gli album senza di lui); da quel che ho sentito, l’ho trovato prolisso ed egomaniaco. E anche l’idea di un album metal con la controparte più morbida non è di per sé un’innovazione tale da stuzzicare la mia curiosità (ha già fatto una cosa simile con gli Ambeon quattordici anni fa), per cui ho ascoltato i The Gentle Storm solo per Anneke. Detto ciò, The Diary è stato una vera sorpresa, un album molto godibile sia in versione “gentle” che in versione “storm”. Prima nota di merito: si tratta di un concept album molto ben riuscito. L’idea della fanciulla che, rimasta a casa, si strugge per il marinaio in viaggio non è molto fresca (vero, Liv Kristine?), ma Anneke ha scritto dei testi eleganti e diretti che non rendono il tutto melenso o palloso. Musicalmente, ogni traccia è ben strutturata affinché la melodia sottolinei il capitolo emotivo della storia e completi una narrazione scorrevole e che si segue facilmente anche senza le annotazioni sul booklet. Canzoni orientaleggianti o dal sapore folk sono ormai diventati stereotipi all’interno del genere, ma la loro funzione narrativa in The Diary dà loro uno scopo e le rende più che semplici esercizi stilistici.
La versione “storm” è forse un po’ più incisiva a livello emotivo, ma presenta arrangiamenti più uniformi ed è abbastanza paragonabile ad altri album e sottogeneri della scena, a seconda dell’atmosfera evocata. Lucassen si concede qualche virtuosismo senza però scadere nella prolissità o nella masturbazione musicale, e non si vergogna di inserire qualche linea vocale ai confini del pop. La versione “gentle” ha dalla sua una gran varietà di arrangiamenti e influenze, che riescono a spiccare in assenza della strumentazione metal: notevole, ad esempio, è la commistione world fusion fra la melodia folk e le influenze jazz di Heart Of Amsterdam, così come la strumentazione tradizionale dell’esotica Shores Of India o gli accenni country di Cape Of Storms. Ottima anche la scelta di usare quanti più strumenti veri possibile (archi, ottoni, legni, bouzouki), in modo da evitare l’effetto orchestrina campionata che piaga molti album del genere.
Nel complesso, The Diary, in entrambe le sue versioni, offre dell’ottima musica sia per i fan di Lucassen e di Anneke, sia per chi volesse provare a scoprirli con questa release, così come per gli amanti dei concept album in generale, gli ascoltatori di metal o quelli di world music. È un album che si destreggia bene fra l’accontentare il pubblico già noto e il sorprenderlo con soluzioni inaspettate e che riesce a catalizzare l’attenzione per tutta la sua durata.
Preferite: The Endless Sea, Shores Of India, The Greatest Love

Live At RoadburnLes Discrets
Live At Roadburn – Les Discrets
Ottima live release per la band shoegaze francese, che riesce a portare sul palco le atmosfere crepuscolari e malinconiche che ne hanno fatto il successo senza perdere nemmeno una nota. Una produzione perfetta, che esalta ogni strumento senza fargli sovrastare gli altri, regala un’esperienza d’ascolto soddisfacente quanto quella degli album di studio, a cui si aggiunge quell’energia particolare che sanno dare le esibizioni dal vivo ben congegnate. La voce di Fursy Teyssier si mantiene piuttosto sullo sfondo e, con i dovuti riverberi, contribuisce a preservare l’atmosfera onirica degli LP della band anche in veste live. Ottima anche la setlist, che spazia ampiamente fra entrambi i full length della band (Septembre Et Ses Dernières Pensées e Ariettes Oubliées) proponendo le migliori canzoni di entrambi. Live At Roadburn è un ottimo album dal vivo sia per i fan della band, che potranno assaporare le canzoni che conoscono e amano in una veste leggermente diversa, sia per chi volesse provare a farsi un’idea della loro produzione musicale percorrendo una collezione dei loro cavalli di battaglia.
Preferite: Les Feuilles De L’Olivier, Le Mouvement Perpétuel, L’Echappée

Ave Maria - En Plein AirTarja Turunen
Ave Maria - En Plein Air – Tarja Turunen
Un intero album di Ave Maria cantate dalla Tamarrja è probabilmente l’ultima cosa di cui sentivamo la necessità, specie dopo il disastro dell’ultimo tentativo crossover, il terribile live Beauty And The Beat. E invece, a sorpresa, si tratta di un’uscita niente male. Il progetto stava evidentemente molto a cuore alla Tamj, perché la sua performance vocale è insolitamente piacevole: virtuosismi inutili ridotti al minimo, poche vocali schiacciate, pochi suoni intubati, poco vibrato esagerato per far figo, mentre in compenso c’è perfino qualche traccia di espressività qua e là. Gli arrangiamenti sono minimali, con organo, violoncello e, occasionalmente, arpa ridotti al necessario per lasciare spazio alla padrona di casa, per un insieme piuttosto sobrio e piacevole da ascoltare. Punti bonus per non aver incluso la sempreverde e sempre inflazionata Ave Maria di Schubert, anche se quella composta dalla Tamj in persona è praticamente inascoltabile e fa perdere il vantaggio.
Nel complesso non è esattamente una di quelle release che si aspetta con ansia, ma è un piacevole divertissement se si desidera un assaggio di musica classica confezionata ad hoc per l’ascoltatore casuale.
Preferite: Giulio Caccini, David Popper, J.S. Bach / Charles Gounod

Pagelle musicali 2015: inferno

E così il 2015 sta per concludersi. Finalmente non ci sono più album che devono uscire ed è tempo di bilanci musicali: come sempre, inizio dal peggio del peggio.
Prima di cominciare, però, c’è una novità: quest’anno niente purgatorio. Gli album mediocri sono stati pochissimi e si dividono fra abbastanza bruttini da meritarsi la bocciatura anche se per poco, o abbastanza decenti da salvarsi in corner. Non aveva senso scrivere un post apposta per tre album, per cui li ho smistati fra inferno e paradiso a seconda di dove tendeva la loro mediocrità.
Detto ciò, quest’anno le uscite negative sono state poche ma davvero monumentali. Nel senso che chi ha floppato l’ha fatto in grande stile, con album talmente brutti che c’è da chiedersi se li abbiano ascoltati prima di passarli alla label. Ma in quest’angolino di internet non c’è fandom indemoniato o stampa prezzolata che tenga: pronti a scoprire i veri orrori che ci ha riservato il 2015 dal meno peggio all’obbrobrioso?


InnuendoAmberian Dawn
Innuendo – Amberian Dawn
Gli allievi hanno superato i (decrepiti) maestri e l’imitazione è la massima forma di lusinga (quando sono gli altri a farla): è questo il sunto di Innuendo, uscito a sei mesi dall’album della band che gli Amberian Dawn hanno scopiazzano per tutta la vita. Eppure, essendo la band in questione i Naituiss, il materiale da plagiare è già talmente trito e ritrito che fare di meglio non significa tirare fuori un buon album: qual è la verità su Innuendo?
Beh, tanto per cominciare ha i soliti, immancabili, ormai prevedibili difetti. Confermandosi eterni ritardatari, gli Amberian Dawn continuano a trascinarsi dietro ritmiche, riff e strutture prettamente power metal: batteria pestata come l’uva dopo la vendemmia, riff ritmici e rapidi quanto insulsi, qualche spruzzata di synth scampanellante Made-In-Holopainen™ e l’immancabile assolo di chitarra super-tecnico nel bridge, messo lì per fare presenza. Beh, se non altro le orchestrine sintetiche sono ridotte al minimo sindacale e la Tuomassa locale ha invece abbracciato in pieno il trend degli ultimi anni (in ritardo) condendo il tutto con qualche spruzzata di elettronica.
Per capire Innuendo, però, è interessante parlare della copertina, che riassume ciò che probabilmente la band aveva in mente componendo l’album: la maschera metà solare e metà lunare è la traduzione grafica di un album la cui prima metà è più allegra, tendente al metal pop che va di moda ora, e la seconda più heavy, “ricercata” e impegnativa. A livello pratico, ciò si traduce in un album schizofrenico, la cui prima metà offre delle canzoni insolitamente orecchiabili e genuinamente piacevoli, mentre la seconda sfiora punte di pretenziosità irritante e cacofonia sconclusionata. Il buon lavoro di canzoni come Fame & Gloria, Ladyhawk, Innuedo e The Court Of Mirror Hall, che si fanno perdonare gli stereotipi proponendo melodie catchy e ritornelli che rimangono in testa, o di Angelique, una ballata che, a dispetto di tutto, è molto semplice e onesta, viene smontato dall’esplosione di power nudo, crudo e anacronistico di Rise Of The Evil, dai tecnicismi gratuiti di Chamber Of Dreadful Dreams o la pessima Symphony Nr 1, Pt. 1 - The Witchcraft, e dall’insipida melodia che fa da sfondo ai tentativi di ricercatezza di Knock Knock Who’s There?. La traccia finale, Your Time - My Time, riassume perfettamente i problemi dell’album, con una prima parte orecchiabile e molto gradevole che però si perde in un delirio gratuito di virtuosismi di chitarra sul finale.
Il messaggio è chiaro: se gli Amberian Dawn abbassassero le pretese, potrebbero fare della musica che, per quanto già sentita mille volte, almeno è orecchiabile. Il problema nasce quando tentano di fare i seri a tutti i costi senza avere i mezzi per comporre e arrangiare canzoni davvero memorabili. Nel complesso, però, la parte catchy dell’album lo salva dall’essere un disastro completo; a parità di pretenziosità e riciclo del passato, quei quattro ritornelli carini e la ballata ben riuscita segnano il momento in cui gli allievi hanno superato i maestri, che quest’anno non sono riusciti a produrre nemmeno una melodia degna di essere riascoltata.

City Of HeroesKiske/Somerville
City Of Heroes – Kiske/Somerville
Passano gli anni, ma la domanda resta sempre la stessa: perché Amanda Somerville spreca la sua voce e il suo enorme talento in queste futilità? Se già il primo Kiske/Somerville è stato un album del tutto inutile, il secondo segue a ruota e non propone nulla di nuovo. A quanto pare, il duo compositivo Mat Sinner/Magnus Karlsson non riesce a distaccarsi se non con grande fatica dal solito stereotipo, cosa ben evidente già dal singolo di lancio, Walk On Water, talmente prevedibile che è quasi divertente: intro pianoforte/sinfonica col tema del ritornello, chitarra che lo ripete, strofa midtempo, preritornello in sordina e ritornello pieno di schitarrate; ripeti tutto, assolo a più non posso sul bridge, doppio ritornello con qualche tecnicismo vocale, outro pianoforte/sinfonica come in apertura. Per il resto, prima canta Kiske, poi Amanda, poi cantano insieme in terzina e la cosa finisce lì: fatta eccezione per Ocean Of Tears, una delle (power) ballad più brutte e scontate degli ultimi anni, tutte e dodici le canzoni seguono questo schema fisso, tassello in più tassello in meno, rendendo i cinquantacinque minuti di questo disco estremamente monotoni. Se si aggiunge che le melodie tentano di essere catchy ma risultano per lo più solo banali (Open Your Eyes e, soprattutto, Right Now sembrano brutte sigle di anime), e che gli arrangiamenti tentano di essere heavy ma risultano solo rumorosi, ecco un’altra proposta musicale da sbadiglio, condita per di più da sviolinate campionate dal peggiore midi.
Qualche traccia qua e là si salva: Salvation ha una melodia genuinamente orecchiabile e inserisce un pizzico di elettronica qua e là che la rende più sopportabile; Lights Out è una discreta rappresentante del metal catchy e danzereccio che va alla grande ultimamente e si lascia ascoltare volentieri; Breaking Neptune, scritta da Amanda col marito Sander Gommans, è una traccia un pochino più varia rispetto alla media e ha anche un testo interessante (grazie, Amanda!). Per il resto, l’ottima produzione, che pure rende ogni strumento ben distinguibile, non riesce a coprire il songwriting scialbo e prevedibile. E, anzi, soffoca l’unico elemento davvero interessante, la voce di Amanda, sdoppiandola in terzine improbabili e mettendola costantemente in secondo piano rispetto a quella di Kiske. Per quanto l’album sia nel complesso meno stracciapalle del debutto, il discorso è sempre lo stesso: perché sorbirmi tutto ciò quando posso avere un’Amanda solista?

King Of KingsLeaves’ Eyes
King Of Kings – Leaves’ Eyes
Sarò onesto: per qualche momento sono stato tentato di infilare quest’album in purgatorio invece che all’inferno, un risultato notevole per una band dedita al riciclo come i Leaves’ Eyes; ma col procedere dell’ascolto ci ho rinunciato. È vero, King Of Kings di per sé non è malvagio come ci si potrebbe aspettare; ma resta banale, fuori tempo massimo e qualitativamente poco costante: parte decentemente con melodie orecchiabili e piacevoli ma poi sfocia nell’insipido e annega in un mare di cliché e già sentito. Basta ascoltare Halvdan The Black, ad esempio, che è praticamente un remaster di Hell To The Heavens dal disco precedente. Fra le canzoni migliori figurano sicuramente quelle più catchy o semplici: la title track che, cliché-carillon a parte, ha una melodia molto piacevole; Haraldskvæði, la vera highlight dell’album, una ballata insolitamente ben riuscita dai toni folk molto intimi; e poi The Waking Eye, che parte interessante mantenendosi semplice, anche se poi si perde in una certa ridondanza.
Più disastrosi sono invece i tentativi di fare i ricercati, sia in senso folk sia in senso classicheggiante: la magniloquenza spropositata di in Vengeance Venom o la pretenziosità di Sacred Vow sono idee troppo ambiziose per i poveri mezzi compositivi dei Leaves’ Eyes, per non parlare dei sette interminabili minuti di Blazing Waters, un enorme calderone di parti assemblate a caso, o della ridicola brodaglia folk condita con ululati (davvero!) di Swords In Rock. E poi c’è la noia totale di Edge Of Steel, il riassunto di qualsiasi canzone insipida dei Leaves’ Eyes con una Simone Simons mixata malissimo, tanto da essere quasi indistinguibile da Liv. A dare il colpo di grazia, ben due interludi folk di assoluta inutilità in un album già poco sostanzioso (Sweven e Feast Of The Year), moncherini che avrebbero potuto far parte delle successive canzoni senza tentare di allungare la tracklist a tutti i costi. Ma, come al solito, il vero tallone d’Achille è la voce di Liv: gli acuti in King Of Kings o le parti terribilmente nasali in Vengeance Venom sono solo due esempi degli abissi di fastidiosità raggiunti da una performance già, al suo meglio, mediocre, forzata e appesantita da un onnipresente falsetto nasale e stridulo. L’unica canzone in cui Liv è piacevole è Haraldskvæði, visto che riesce a riportare decentemente a galla il timbro etereo e quasi sussurrato dei tempi d’oro.
Per riassumere, King Of Kings avrebbe potuto essere un album decente, con i suoi alti e bassi, dieci anni fa, quando ancora il symphonic metal da manuale aveva qualcosa da dire (e Liv sapeva cantare); oggi è un’accozzaglia di luoghi comuni e stereotipi che i Leaves’ Eyes, in particolare, hanno sfruttato fino alla nausea. Ciò che gli dà il colpo di grazia è la pretenziosità: Liv che non si decide a prendere qualche lezione di canto e, soprattutto, il tentativo di fare gli epic e i bombastic a tutti i costi.

Endless Forms Most BeautifulNightwish
Endless Forms Most Beautiful – Nightwish
C’è davvero poco da dire su Endless Forms Most Beautiful: è un album semplicemente brutto che vive del blasone della band che l’ha sfornato. La sua offerta musicale è inversamente proporzionale allo hype precostituito e al drama che ha circondato la sua uscita: è una sfilza dei più scontati luoghi comuni proposti dai Nightwish e basta. A poco sono valsi i cambiamenti della line up, con Kai Hahto che alla batteria fa sempre le solite cose di Jukka, la sempre sopravvalutata Floor Jansen al microfono e il polistrumentalista britannico Troy Donockley alle uillean pipe, cornamuse e quant’altro per dare un tocco chic. E ancor meno valgono le dichiarazioni di Holopainen su quanto sia un album “band-oriented”: Endless Forms Most Beautiful tocca vette di riciclo e autoplagio del tutto nuove perfino per una band come i Nightwish. Gli elementi più scontati della band sono tutti lì: sezioni ritmiche piuttosto standard, riff banali, strutture semplici, il tutto annegato in una marea di orchestra e coro Made in UK by Pip Williams™ per cercare di nascondere i buchi compositivi. Solo che, a questo giro, tutte le melodie sono insipide e poco ispirate, quasi “stanche”, e raramente fanno presa sull’orecchio dell’ascoltatore più esigente. Nel corso degli interminabili ottanta-e-passa minuti, il migliore diversivo che l’album offre è tentare di indovinare dove, nella discografia dei Nightwish, si sia già sentito questo o quel pezzo di canzone: si parte benissimo con Shudder Before The Beautiful, che assieme a Yours Is An Empty Hope è composta da diverse percentuali di Master Passion Greed e Dark Chest Of Wonders fuse assieme; si continua con gli smembramenti di Bye Bye Beautiful della title track e di Alpenglow, e poi con My Walden, che combina Last Of The Wilds con Last Ride Of The Day. Ma per rendersene conto bastava già il singolo di lancio, Élan, che è virtualmente indistinguibile da Last Of The Wilds e I Want My Tears Back. Le uniche tracce che hanno qualcosa da offrire sono Weak Fantasy che, prima di perdersi nella ripetitività più assoluta, assaggia qualche atmosfera simil-country, e le ultime due: The Eyes Of Sharbat Gula è uno strumentale molto piacevole – per la prima metà, perché poi scade nella ridondanza. La suite, The Greatest Show On Earth, punta invece sulla legge dei grandi numeri: è statisticamente impossibile che in ventiquattro minuti di canzone non ci sia proprio nulla che si salva. Quest’ultima è un’esperienza d’ascolto particolarmente frustrante, perché i pochi spunti interessanti (l’intro, i primi versi, il ritornello) annegano in mezzo a un oceano di ripetitività e filler messo lì con la palese intenzione di raggiungere un minutaggio astronomico, ostacolando la progressione naturale della melodia in un crescendo, climax e una risoluzione. Come tentativo di creare una canzone-concept che parla dell’evoluzione della vita sulla Terra è piuttosto fallimentare perché è una canzone che, di per sé, non evolve, ma sprofonda sotto il peso della propria goffaggine.
A completare il quadro, le lyrics trite e ritrite (c’è un “meadows of heaven” e addirittura un “awaken Oceanborn” da qualche parte): si sa che Tuomas è sempre stato l’uomo della tanta forma con zero sostanza, ma in Endless Forms Most Beautiful perfino la forma viene meno, ridotta a un’accozzaglia di cliché e frasi fatte, e un susseguirsi asintattico di sostantivi e aggettivi che danno una lettura a malapena superficiale di temi complessi che richiederebbero un trattamento ben diverso. E come non menzionare la deludentissima performance vocale della nuova arrivata, Floor Jansen, che a dispetto del suo essere osannata si alterna fra le urla di Yours Is An Empty Hope, il disinteresse totale di Élan o della loffia ballata, Our Decades In The Sun, il karaoke di Shudder Before The Beautiful, e offre qualcosa di interessante solo sul finale, con degli stralci parlati e qualche sprazzo pseudo-lirico in The Greatest Show On Earth.
Al di là di questo, però, il songwriting stesso dà l’impressione che la Tuomassa non ci abbia nemmeno provato, a tirare fuori qualcosa di decente: è un compitino svolto controvoglia per prendere il voto dall’insegnante di cui è lo studente preferito a prescindere dalla performance, né più, né meno.

HoneymoonLana Del Rey
Honeymoon – Lana Del Rey
Partiamo da un’inaspettata nota di merito: c’è una canzone, UNA, che mi piace tutta da inizio a fine, così com’è. È Swan Song, che, con la giusta combinazione fra melodia orecchiabile ma non banale, testo quasi carino e arrangiamento funzionale al brano, se fosse stata anche cantata decentemente sarebbe stata lodevole già in questa versione. Insomma, un giorno, nelle mani di una vocalist più capace, sarà una grandissima cover.
Fatta questa doverosa premessa, il resto è da cestinare senza pietà: sembra infatti che Lagna abbia avuto un talento straordinario nel riuscire a combinare il peggio di Born To Die col peggio di Ultraviolence per un risultato che si fa fatica ad ascoltare. Perché i riverberi, i filtri vocali e i violini ridondanti che non ci sono su Swan Song esplodono su tutte le altre tracce, diventando di una pacchianeria allucinante, specie data la scarsa presenza melodica. Basti sentire la title track, un esempio perfetto di ciò che non va nell’album: sviolinate melense da orchestrina del Maurizio Costanzo Show figlie di Born To Die che tentano di nascondere il piattume e la noia di una melodia sconclusionata à la Ultraviolence. Art Deco e Terrence Loves You seguono esattamente lo stesso schema, con la seconda che si permette addirittura di far cantare a Lagna note lunghe che non riesce assolutamente a tenere su. E poi ci sono episodi come The Blackest Day o 24, che sarebbero stati quasi carini se non fossero stati allungati e annacquati così tanto. Non che con le canzoni “migliori” vada tanto meglio: Music To Watch Boys To, High By The Beach e Salvatore, tolti i testi da terza elementare, sarebbero state carine, se solo non fossero state inondate di vocalizzi stonati, armonie vocali a casaccio che distraggono dal flusso melodico, parlati col filtro citofono, sezione ritmica inesistente e orpelli inutili in un contesto già cacofonico, come le risate in sottofondo su Salvatore. Interessante è il caso di God Knows I Tried, in cui Lagna lo ammette: “God knows I begged and borrowed and cried”. E i prestiti in questione non si riferiscono alla citazione testuale di Space Oddity in Terrence Loves You, ma anche alla chitarra praticamente presa di peso da Whenever, Wherever di Shakira nella stessa God Knows I Tried, così come autocitazioni (Florida Kilos in Freak), somiglianze più o meno marcate (Salvatore ricorda Once Upon A December dal cartone Anastasia) o la terrificante cover di Don’t Let Me Be Misunderstood, il modo migliore per far terminare la honeymoon in immediato divorzio.
Testualmente, l’album ricalca le solite banalità tanto care a Lagna, dalla solita California in Freak (Maremma, se le sento una volta quella parola le sgonfio gli zigomi a schiaffi), la finta blasfemia badass-a-tutti-i-costi di Religion o il complesso della puttana che vuole essere salvata in The Blackest Day. Insomma, Honeymoon aggiunge così poco alla già scarsa proposta musicale di Lagna che c’è anche poco da dire. Ai suoi fan più sfegatati, che fingono di non notare i mostruosi buchi compositivi e tecnici di Lagna, probabilmente piacerà pure, ma nel complesso è il solito album banale impacchettato in una cornice di pseudo-intellettualità che lo rende, se possibile, ancora più indigesto.

Symphony For A Hopeless GodWhyzdom
Symphony For A Hopeless God – Whyzdom
La cosa era già abbastanza chiara dal secondo album, Blind?, ma questo terzo disco l’ha confermato: (gl)i Whyzdom saranno ricordati come una di quelle band che hanno pubblicato un debutto interessante e poi nulla più. Symphony For A Hopeless God è infatti un album che non solo non aggiunge nulla di nuovo a quanto detto fin qui dalla band, ma non riesce nemmeno a scopiazzare decentemente i soliti luoghi comuni del symphonic metal. Basti ascoltare Tears Of A Hopeless God o Theory Of Life, che potrebbero essere uscite (male) da uno qualsiasi degli album precedenti: stessa struttura, stessi arrangiamenti, stessa progressione di accordi… insomma, un riciclo completo e per giunta privo di qualsiasi scintilla di passione. Come c’è da aspettarsi da una band che si definisce “philharmonic metal”, la parola d’ordine dell’album è “pretenziosità”: pretenzioso è l’esorbitante minutaggio, un’ora e sei minuti, reso ancora più interminabile dalla totale assenza di varietà nei brani; pretenziosa è la tracklist, undici canzoni di cui una sola sotto i cinque minuti; pretenzioso è il songwriting, che sacrifica l’orecchiabilità in un tentativo di ricercatezza, ma finisce per perdersi in arzigogolate digressioni che paralizzano il flusso delle canzoni. E ancora più pretenziosi, se possibile, sono gli arrangiamenti, fra riff di chitarra copiaincollati da qualsiasi band del genere ma pompati al massimo, cori infilati a casaccio e le orchestre più fastidiosamente pacchiane che il l’intero symphonic metal abbia mai saputo vomitare. E sì, è vero: se si deve criticare proprio orchestre e cori, tanto vale non ascoltare (gl)i Whyzdom, che ne hanno fatto il loro caposaldo; ma al di là dell’esagerazione, il problema sta anche nella produzione, che relega i complessi passaggi orchestrali a sghiribizzi sullo sfondo di una parte metal estremamente omogenea e monotona che, oltretutto, è compressa in modo da rendere qualsiasi strumento indistinguibile. Il tutto crea un fastidioso rumore di fondo dietro al cantato… e accidenti, che cantato! Se sull’ultimo album Elvyne Lorient aveva fatto una figura terribile, Marie Rouyer, l’ennesima nuova cantante, non se la cava meglio. La sua capacità di essere inopportuna in ogni contesto è quasi ammirevole: sguaiata e addirittura stonata quando tenta di cantare in maniera moderna e aggressiva (Let’s Play With Fire e Asylum Of Eden sono inascoltabili), artificiosa, stridula e ingolata al massimo quando tenta il “pseudo-lirico” (su Eve’s Last Daughter e Waking Up The Titans dà il peggio di sé). L’interpretazione piatta e monocorde, infine, non fa che sottolineare le linee vocali astruse e dalla metrica flebile che hanno sempre un po’ piagato le canzoni de(gl)i Whyzdom, per non parlare dei lunghi vocalizzi che si trasformano in ululati: lì sarebbe bastata l’onestà, da parte della band, di riconoscere che Marie non ne è tecnicamente all’altezza ed evitare di renderla ridicola.
Ciliegina sulla torta, è un concept album che parla, indovinate un po’, dell’impatto negativo che le religioni organizzate hanno sull’umanità. Certo, con l’ISIS che fa saltare in aria Palmira una settimana sì e una no è indubbiamente un argomento attuale, ma è stato trattato fino alla nausea in ambito symphonic metal e i due centesimi che (gl)i Whyzdom aggiungono sono scontati, banali e di una superficialità disarmante. Già solo il fallimento del concept è sufficiente a bocciare, beh, un concept album, ma sul lato musicale non si salva nemmeno un brano. Insomma, riesce a battere perfino Lagna del Rey come peggior album dell’anno.