Tuesday 29 September 2015

Faded away

Quando un’amicizia finisce in tragedia è sempre un trauma: un brutto litigio, un grosso torto fatto o subito, il rancore, il senso di colpa, il tempo passato a chiedersi cosa avrebbe dovuto andare diversamente… è una trafila orribile ma, in un certo senso, confortante. C’è un inizio, uno svolgimento, una fine ed è tutto facilmente identificabile.
Quando un’amicizia non finisce ma, semplicemente, si assottiglia fino a diventare irrilevante e impalpabile è, per molti versi, più triste. Si condivide giorno per giorno la vita, poi lentamente quell’abitudine si allenta, ci si inizia a sentire di meno, sempre con l’appunto mentale che uno di questi giorni ci si fa una bella chiacchierata come ai vecchi tempi, fino a che anche quella nozione svanisce del tutto e ci si ritrova a sentirsi dopo mesi, fino a che ci si cerca solo per scambiarsi gli auguri di compleanno o di Natale e tutta la quotidianità un tempo condivisa si riduce a un riassunto laconico di troppe cose in troppo poco tempo. E cosa fai, cosa dici, cosa pensi, a quel punto? L’amicizia non è mai finita, non è successo nulla di talmente grave da farti smettere di voler bene a quella persona. Eppure, più che con affetto, ormai ci pensi con nostalgia, fino a quando anche la nostalgia non sbiadisce e diventa cordiale indifferenza. L’amicizia non è finita, è semplicemente svanita via. Ha perso di consistenza, è diventata talmente diluita nel resto della tua vita da non esistere più.
Qualche giorno fa ho pianto quando mi sono reso conto che una delle mie amicizie più importanti è ormai svanita via. E, in parte, ancora non me ne capacito: anche se riesco a trovare una causa specifica per la cosa, avvenuta sei anni fa, non era stata tale da distruggere tutto. Quel che ha distrutto è stata solo l’abitudine di sentirsi ogni giorno, fino a che i contatti sono diventati sempre più sporadici e si sono ridotti ai famosi auguri. Un po’ mi sento in colpa: ho tentato di illudermi che fosse una fase, che poi sarebbe tornato tutto come prima. Ma siamo onesti: una situazione che dura da quattro anni buoni non è una fase, diventa uno stato di cose. Le promesse di entrambi che anche se non ci sentiamo ci pensiamo sempre sono venute meno, e non so se riuscirò a perdonarmelo.

Tutto ciò porta a un’altra domanda, anche se, onestamente, non so se mi sento ancora pronto a pormela seriamente.

Friday 11 September 2015

Lo Stato siamo noi

A me gli stereotipi piacciono ma anche no. Bello riderci sopra, bello farci le battute… brutto pensare che siano realistici o una buona base per discriminare e nutrire pregiudizi verso qualcuno. Per cui mi urta sempre quando i Polentoni fanno partire la solita solfa sui Napoletani così, Napoletani colà, Napoletani delinquenti, Napoletani camorristi, Vesuvio pensaci tu. Sì, ci sono dei Napoletani delinquenti. Così come ci sono i Milanesi delinquenti, i Romani delinquenti, i Triestini delinquenti, gli Algheresi delinquenti. Il problema non è “Napoletano”, è “delinquente”, e questo in molti sembrano non volerci pensare. E poi capitano cose che, puntualmente, mi fanno cadere le palle pensare che gli stereotipi e pensare che da qualche parte saranno pur usciti.
Ero lanciatissimo a incoraggiare il rione Sanità per essersi unito in piazza al funerale di Gennaro Cesarano – di qualcuno che della camorra è vittima e non membro – e che la gente parlasse e mettesse la faccia in tv… finché non siamo finiti punto e accapo. Prima gli striscioni contro la camorra che spariscono, poi la frase più stupida, più inutile, più irritante che si sente venire puntualmente dalle zone in cui spadroneggia la criminalità organizzata, courtesy del parroco stavolta: “Resteremo a lutto fin quando le istituzioni non ci daranno risposte”.
Ecco, ti pareva: via le accuse alla camorra, la colpa è sempre e comunque delle istituzioni. Non è la criminalità, è sempre lo Stato.
La mafia fa una strage in Sicilia? Colpa dello Stato che non ha protetto nessuno. La camorra uccide un ragazzo a Napoli? Colpa delle istituzioni non danno una risposta. Il funerale di Casamonica a Roma? Colpa dei carabinieri, dell’amministrazione, dell’ENAC che non ha fatto nulla per fermare la parata.
Fortuna che, mentre penso che per la gente lì non ci sia speranza, mi arriva l’illuminazione: è per tutta Italia che non c’è speranza.

Chiariamo l’ovvio: l’albero non attacca mai per primo. Perché è inutile girarci intorno, questa è un’altra manifestazione del vizio tutto italiano di dare la colpa dell’incidente stradale al palo, al guardrail, all’albero, all’asfalto, alla curva, mai al conducente che guidava troppo veloce.
Perché signori miei, forse vi sarà sfuggito, ma lo Stato siamo noi. Lo Stato non è un’entità astratta che campa in mezzo alle nuvole: lo Stato è l’insieme dei suoi cittadini ed è tanto buono o cattivo quanto lo sono loro.
Le forze dell’ordine non proteggono i cittadini dalla criminalità organizzata? Davvero? E dove sono i cittadini quando c’è da denunciare? Quando c’è da collaborare alle indagini, da dare testimonianze, da fare nomi e cognomi che sono sotto il naso di tutti? È colpa delle autorità che non fanno nulla, se la criminalità può girare indistrbata, o dei cittadini che, fra una fiaccolata e l’altra, fanno muro compatto per far scappare i piccoli delinquenti che fuggono in moto? È lo Stato che si batte il petto in televisione piangendo che “erano bravi ragazzi!” quando muoiono durante gli inseguimenti? Quando la sanità non funziona, quando i rifiuti restano a marcire per strada, quando le discariche abusive inquinano il terreno, come può lo Stato intervenire? Chi ha permesso a Tizio del clan Sempronio di infiltrarsi nelle istituzioni dello Stato? Chi l’ha votato e gli ha permesso di mettere le mani sugli organi che dovrebbero impedire alla sua azienda che scarica il veleno a mare, magari in cambio del posto di lavoro in quella stessa azienda?
Per cui, facciamoci tutti un bell’esame di coscienza e riflettiamo su questo punto fondamentale: lo Stato non ci ha abbandonati, siamo noi che abbiamo abbandonato lo Stato. Che l’abbiamo guastato fino al midollo. Perché lo Stato può funzionare e tutelarci solo nella misura in cui noi contribuiamo a farlo funzionare e collaboriamo nel farci tutelare. Non esiste nessun Messia, nessun Giorno del Giudizio, nessun miracolo dall’alto: la lotta per legalità, contro la corruzione e la criminalità, è qualcosa che deve partire da noi. Da tutti noi.

Sia chiaro, questo non è un discorso sui Napoletani, o contro di loro: è rivolto indistintamente a tutti. Perché, anche qui, la discriminante non è “Napoletano”, ma è “coglione”, e l’essere coglione è un fenomeno panitalico. Se ne parla spesso a Napoli perché è a Napoli che la camorra fa notizia, ma è lo stesso principio di base dietro ai vari Forconi, Grullini e compagnia cantante, e questa gente si trova ovunque.
Il che sostanzialmente significa che questo è un post che ho scritto unicamente per sfogarmi, perché gli Italiani non tireranno mai fuori le palle e non accetteranno mai l’idea di essere responsabili delle proprie azioni e che queste si ripercuotano sulla collettitività.
Signore e signori, siamo fottuti: mi toccherà emigrare in Scandinavia prima che arrivino i Siriani.

Thursday 10 September 2015

Cara Mater,

Vediamo un attimo se riesco a spiegarti come stanno le cose.
L’ascensore si è rotto. Viviamo al quarto piano e bisogna fare la spesa. Tu sei caduta, ti sei fatta male alla schiena e non riesci a portare i due sacchetti pieni su per le scale. Cosa fai? Chiami Alessandro e gli chiedi di darti una mano. Alessandro arriva, prende i sacchetti, li porta all’ultimo piano assieme ai suoi e la giornata e salva. E sì, ha portato su quattro sacchetti tutti assieme ma non si lamenta, perché sei la Mater e per te queste cose si fanno.
All’improvviso, però, qualcosa è cambiato. Nessuno ripara l’ascensore, la schiena continua a farti male, la spesa continua a essere pesante. Chiami di nuovo Alessandro, ma scopri che nel frattempo è caduto e si è rotto il braccio: in queste condizioni, non può caricarsi anche i tuoi due sacchetti. L’unica cosa che può fare è darti consigli: ma se citofoni a un vicino? Ok, non puoi perché in cambio ti chiede una birra e tu non l’hai comprata. Ti consiglia di prendere tu i sacchetti e, piano piano, salire le scale facendo una pausa a ogni pianerottolo. Certo, resta comunque difficile, ma almeno puoi goderti quei piccoli momenti in cui ti riposi e poi proseguire con più tenacia. E tu ti inalberi.
Ora, cara Mater, mi dispiace ma non puoi rifiutare a priori l’idea di Alessandro dicendo che “Tanto sono sempre quattro piani da salire, a cosa mi serve riposarmi a ogni pianerottolo?”, e soprattutto non puoi legargli il sacchetto al gesso e pretendere che lo porti su lui. Semplicemente, non è in condizioni di farlo. Sul braccio sano ha già la sua spesa e su quello rotto non può portare pesi. Non è per cattiveria se non ti aiuta più e invece ti sprona a portare su la spesa da sola cercando dei piccoli momenti di sollievo: semplicemente non può più aiutarti. Fisicamente. Clinicamente. Il gesso pesa già di suo e sotto c’è un osso rotto e un braccio gonfio. Quando sarà guarito potrà tornare ad aiutarti; fino ad allora devi lasciargli il tempo di guarire. Se tu gli carichi altri pesi su quel braccio, la frattura non guarirà mai e lui non riuscirà più a portare nemmeno la sua, di spesa, figurarsi la tua.

Se scrivessi davvero una “Guida alle cose da non fare quando sia tu che tuo figlio siete depressi” probabilmente diventerebbe un best seller.