Tuesday 27 October 2015

Problemi di inadeguatezza quotidiana

È difficile combattere il senso di inadeguatezza. Alla fin fine, il punto nevralgico di tutte le mie fisime quotidiane è proprio quello: mi sento inadeguato.
Ci sono delle attività quotidiane che mi paralizzano al solo pensiero: fare la spesa, cucinare, fare il bucato… tutte quelle cose che ho dovuto iniziare a fare una volta andato a vivere da solo. Il motivo, alla fin fine, è semplice: sono abilità che ho acquisito relativamente da poco – otto anni su ventisei – e su cui mi sento ancora insicuro. A paralizzarmi è semplicemente il fatto che sia sempre stata la Mater a occuparsene quando vivevo con lei e che probabilmente non sarò bravo come lei a farle.
Fare la spesa, ad esempio, è un vero incubo: devo prendere un mucchio di decisioni in breve tempo. Devo capire cosa è più conveniente, come ottimizzare il rapporto qualità-prezzo senza prendere roba in eccesso. E se poi scopro che c’è una marca di yogurt più economica di quella che prendo e, di settimana in settimana, ho accumulato una spesa inutile che avrei potuto evitare? Quale cavolo di passata di pomodoro è migliore, meno acida o liquida e più conveniente? E se c’è una marca di guanti o di cartaigienica che costa meno? E se invece ne prendo una che costa un po’ di più ma è più duratura e risparmio comprando meno frequentemente? Sono tutti calcoli strategici di cui non mi sono mai occupato prima di andare a vivere da solo e il cui meccanismo ho paura di sondare per poi scoprire che per tutto questo tempo ho buttato via un mucchio di soldi.
Il problema di cucinare è un po’ un’estensione dell’incubo del frigorifero, sia della parte sull’avere le mani umidicce e puzzolenti, sia di lasciare avanzi da dover poi conservare. Ecco, quando cucino ho sempre il terrore che poi avanzerà della roba che non riuscirò a consumare prima che vada a male e debba buttarla. Poi puntualmente non è così perché mangio come una betoniera, ma la paura di non essere abbastanza bravo a calcolare dosi e porzioni è sempre lì.
Col bucato il problema è più che altro stendere. Una volta capito come far funzionare la lavatrice di turno, caricarla è anche piacevole. Bianchi con i bianchi, colorati e neri con i colorati e neri, è facilissimo; ma stendere? Da ragazzino ho praticamente sempre solo caricato la lavatrice e ritirato il bucato, e non so mai se sarò abbastanza bravo a sistemare la roba in modo che si asciughi rapidamente e bene. Che poi è una colossale stronzata, perché quando mi costringo a farlo, il bucato sia asciuga normalmente, ma… e se ci fosse un modo migliore di quello che uso io? Se la Mater facesse meglio di quanto faccia io?
A pensarci ora, così, mi sembra di essere un perfetto imbecille, che ogni giorno o ogni settimana fa un enorme sforzo per portare a termine dei compiti estremamente semplici per una serie di motivi futili che esistono solo nella sua testa. Mica la Mater, o chiunque altro, è qui a giudicare il mio stendino, e il bucato si asciuga perfettamente; eppure sento sempre che avrei potuto fare di meglio e non ne sono stato in grado perché non ho abbastanza pratica. Ed è troppo tardi per imparare, ormai. Il che è ridicolo.

Lungo rant di autoanalisi nato dall’aver appena fatto la lavatrice e steso il bucato, che domani sarà perfettamente asciutto; yay.

Thursday 22 October 2015

Diatopia portami via

Uno dei progetti riguardanti me stesso su cui ho deciso di lavorare è l’abolizione del pregiudizio verso gli accenti regionali dell’italiano. Da piccolo, complice la tv, ero convinto che tutti gli Italiani in Penisola parlassero senza inflessione, e che l’accento marcato fosse una peculiarità dei Sardi meno istruiti. Tant’è che, crescendo e entrando in contatto con persone di tutta Italia grazie a Internet, rimasi molto allarmato nello scoprire che il mio accento sardo si sentiva un po’ e, da allora, ho lavorato incessantemente per cesellare la mia dizione fino a renderla la quintessenza dell’italiano standard. A parte le vocali: l’italiano della Sardegna ha un sistema completamente pentavocalico e non riuscirò mai a imparare quali E e quali O devono essere chiuse o aperte.
Una volta iniziata l’università, ho capito (e poi studiato) che la mia idea dei Sardi rimasti allo stadio evolutivo precedente della lingua era una colossale idiozia: essendo l’italiano una lingua artificiale introdotta nemmeno due secoli fa su un sostrato estremamente variegato, non è vero che lo standard orale è il modo naturale di parlare e solo i ceti più ignoranti hanno un forte accento; al contrario, lo standard è una skill acquisita e perfezionata, mentre le varianti diatopiche sono la madrelingua, il modo naturale in cui la gente impara a parlare. L’accento non è un handicap che si supera col progredire dell’istruzione, è endemico del modo di parlare di ciascuno di noi. È proprio con questa consapevolezza che sto cercando di abbattere i miei pregiudizi nei confronti degli accenti, sia positivi che negativi.
Nel mio caso specifico, la teoria per la quale una lingua piace o non piace a seconda delle associazioni mentali che richiama è particolarmente vera. L’accento sardo mi fa sanguinare le orecchie perché rappresenta un mondo nel quale ero un pesce fuor d’acqua, da cui non vedevo l’ora di fuggire, ed era particolarmente forte nell’ignorantissima Famiglia Mulino Bianco. Con l’accento napoletano ho un rapporto conflittuale: lo adoro quando è leggero, ma la TV con cui sono cresciuto ne ha fatto largo uso proprio per rappresentare i ceti più popolari, per cui associo quello marcato a un’idea di arretratezza. D’altro canto, l’egemonia culturale del Nord Italia in televisione, con gli accenti meridionali usati come macchiette, ha fatto sì che non sia tuttora in grado di distinguere le parlate settentrionali, se non come lievi sfumature in uno standard impeccabile. Per un orecchio imparziale, probabilmente l’accento di un Piemontese o un Lombardo saranno tanto evidenti quanto quelli di un Calabro o un Siciliano, ma al mio orecchio la cosa sfugge totalmente. I Veneti e i Triestini tendono a influenzare il loro italiano molto più di quanto non facciano, ad esempio, i Campani, ma anche qui, è una cosa che noto appena (se non parlano proprio in dialetto stretto).
Dall’altra parte, invece, trovo l’accento emiliano molto musicale e adoro l’accento romano e quello toscano perché li trovo molto pittoreschi ed espressivi. Ciò è in parte vero anche per l’accento siculo, ma lo conosco molto meno. Ho avuto un ottimo professore di matematica calabro e ho tantissimi amici nella zona di Lecce, per cui trovo anche l’accento calabro e quello salentino estremamente piacevoli. Addirittura, quando voglio parlare in maniera più enfatica tendo a prendere in prestito gli accenti centro-meridionali proprio perché li trovo tutti molto espressivi.
Quindi, riassumendo, non percepisco proprio gli accenti settentrionali, ho un debole per quelli centrali e buona parte di quelli meridionali, ma non sopporto quello sardo. Presa coscienza di ciò, il mio progetto non è certo alterare la mia parlata per reintrodurre il mio accento nativo: in parte perché, non sentendomi culturalmente sardo, non rappresenta un valore aggiunto per me, ma principalmente perché sono vanesio e molto orgoglioso del livello di dizione che ho raggiunto; inoltre, mi diverto a mescolare qualche sfumatura regionale per enfasi. Quello che voglio fare è smettere di vergognarmi e impanicarmi ogni volta che mi fanno notare che qualche traccia del sardo spunta fuori quando sono più agitato e, soprattutto, prendere atto della parlata dei miei interlocutori senza però prestarci attenzione. C’è un bel po’ di lavoro da fare, grazie a Mamma Televisione.

Monday 19 October 2015

L’incubo del frigorifero

Alcuni tabù igienici nascono con osservazioni che gli adulti ci fanno quando siamo piccoli, e che spesso la nostra mente di bambini ingigantisce. Ad esempio, da quando mi hanno spiegato che non si beve l’acqua dal lavandino tappato perché è sporca, evito di toccare il fondo del lavandino perché per me è sporco. Non c’è niente da fare, ho ingigantito quel consiglio trasformandolo in una specie di tabù.
Eppure, il mio vero incubo igienico è il frigorifero. Non ho idea di cosa abbia originato in me lo schifo per il frigorifero e tutto ciò che vi è contenuto e non viene lavato, ma devo davvero sforzarmi per aprirlo, frugarci dentro e maneggiare la roba che ne esce. Vogliamo parlare del pentolino del sugo, che tiro fuori reggendolo per i manici solo con con indice e pollice? O dei vasetti di yogurt, che tengo sempre per il bordo in modo che meno plastica possibile entri a contatto con i miei polpastrelli? E quando vado a fare la spesa, preferisco di gran lunga comprare roba secca o in scatola, che può stare fuori, piuttosto che roba che so che dovrò conservare al fresco. Eppure non mi hanno mai detto nulla sul frigorifero, se non di chiuderlo rapidamente per non far uscire il freddo.
Probabilmente, il problema che ho col frigorifero è che è umido e puzza. Non mi piace toccare la roba che ha sopra la condensa e, soprattutto, detesto l’odore che si forma in frigo, uno spazio chiuso in cui si concentrano e mescolano gli aromi di tutte le cose che ci sono dentro. Trovo quell’odore nauseante e ho sempre l’impressione che mi si attacchi alla pelle e non se ne vada più anche quando lavo le mani. È per questo che, quando cucino, ho sempre l’ansia di preparare porzioni da finire subito o che al massimo durino fino al giorno dopo e non oltre, sia mai che poi il cibo prenda la puzza del frigo.
Che poi, come cosa è irrilevante, perché nella mia testa quella puzza passa nel momento in cui riscaldo il cibo. E a pensarci bene, anche i vari vasetti, tetrapak e simili li maneggio senza problemi una volta che si sono scaldati abbastanza da non fare condensa e non essere umidicci – nella mia testa, con quella sparisce anche l’odore.
Probabilmente, ho sempre paura che la puzza non nasca dal naturale mescolarsi di tutti gli odori che ci sono in frigo, quanto da qualcosa che è andato a male e contamina tutto il resto, il che è assolutamente irrazionale (nella maggior parte dei casi, vedi sotto). A parte questo, però, non ho idea di come risalire alla causa di questo schifo associativo, per cui penso che il modo migliore di venirne a capo sia una terapia d’urto: impormi di maneggiare a palmo pieno la roba umidiccia di condensa fino a che non diventa la normalità e smetto di farci caso.

Ps: in queste settimane ho avuto un problema molto concreto col frigo. L’ex coinquilino vietnamita, che era sporco da far spavento, aveva lasciato qualcosa di marcio incastrato nello strato di brina che si era formato in frigo, e quello sì che faceva una puzza abominevole. Giuro, non sono stato in grado di mettermi a cucinare serenamente proprio per il pensiero di conservare il mio cibo lì vicino, tant’è che sono andato avanti fra porcherie d’asporto e roba preparata sul momento con ingredienti conservati a secco evitando quella parte di cucina come la peste. Ora nutro un amore profondo e incondizionato per uno dei nuovi coinquilini, che ha sbrinato e ripulito completamente il frigo: ha eliminato il mio più grosso incubo delle faccende domestiche comuni. Ora mi resta da combattere solo l’incubo puramente mentale che mi sono creato da solo.