Monday 26 December 2016

Suonare una Fiat Panda

Un giorno smetterò di farmi del male riguardando le scene di Margaery Tyrell della sesta stagione di Game of Thrones e, soprattutto, ascoltando a ripetizione Light Of The Seven, la magnifica colonna sonora dei terribili (e bellissimi) primi venti minuti del season finale. Ma dato che quel giorno non è oggi, ho deciso di esplorare il Tubo in cerca di reinterpretazioni del brano, giusto per variare un po’ gli ascolti. Non ne ho pescata nemmeno una che gli rendesse giustizia ma, in mezzo al mare di beat buttati a casaccio e archi campionati, questa cover in particolare mi ha infastidito un po’.


E ok, non ha nulla di tragicamente sbalgiato: sfiora tutti i temi principali del brano (compresa la seconda parte, spesso ignorata per l’eccessiva complicatezza) e, al massimo, è un po’ troppo frettolosa e semplicistica. Tecnicamente, per quel poco che me ne intendo, il chitarrista sembra anche piuttosto preparato, nulla da dire. Ma il motivo per cui per me è rimasta impressa come deludente è proprio lo strumento usato, la chitatta acustica.
A questo punto, ritengo utile ripescare e ampliare una conversazione di un paio di mesi fa in cui riassumevo i motivi del mio scetticismo nell’affrontare l’eponimo del 2004 di Eivør basandomi su… la copertina, piuttosto esplicita circa la direzione musicale dell’album.

Così ad occhio e croce potrebbe esserci parecchia chitarra acustica.
La chitarra acustica è lo strumento che mi piace di meno. Sarà che la strimpellano (male) cani e porci, specie in occasioni che detesto tipo scampagnate, festicciole fatte in casa, riunioni di oratori eccetera; ma anche in contesti professionali o mi irrita o, per la maggior parte, mi annoia. Le eccezioni sono piuttosto rare. Con la chitarra elettrica è diverso: alle mie orecchie passa per lo più inosservata, una base su cui si costruisce l’intreccio degli strumenti davvero interessanti, e occasionalmente devo tollerare il noioso assolo d’obbligo nel metal, ma non mi annoia in maniera attiva e irritante come la chitarra acustica.
Probabilmente, nella mia testa è associata alla rozzezza, specie perché chiunque sappia come pizzicare le corde ti farà i quattro accordi de La Canzone del Sole e ci sarà subito il gregge di pecore che parte appresso col “NAAAA NAAAA, NA-NA-NAAAA NA-NAAAA” con le vocali spalancate. Insomma, sono quelle occasioni sociali che mi fanno desiderare di essere dall’altra parte del globo.
 Che poi, a pensarci bene non amo particolarmente nemmeno buona parte degli strumenti a fiato: il flauto dolce per colpa della supplente di musica delle medie, le trombe prese da sole perché fanno troppo musica latino-americana cheap, il sassofono perché fa sitcom Anni Novanta, gli strumenti tradizionali del country americano tipo banjo e armonica a bocca fanno redneck… ma è un’impressione più facile da scacciare perché, superato il primo impatto, il contesto in cui suonano è subito diverso e me ne rendo conto. Perfino la fisarmonica, insopportabile quando suonata per l’antipatico ballo sardo, in altri contesti la adoro (side note: checché si pensi del ballo in sé, le melodie sono oggettivamente uno stracciamento di palle unico). Ma se una canzone è solo chitarra acustica e voce, non c’è scampo: a meno che non miri a un effetto ben particolare, di solito diventa la mia traccia “skip” nell’album. È più forte di me. Ecco, magari un arpeggiato lo riesco a tollerare e, a volte, perfino godere, ma la semplice successione di accordi strimpellata dietro una voce è la no-ia.
Ed è vero, anche altri strumenti sono piuttosto sputtanati: vedesi il pianoforte con l’immancabile (e odiosissima) Per Elisa, o i violini che vengono infilati come collante per tenere assieme qualsiasi motivetto banale, o l’elettropop negli ultimi tempi. Ma sono tutte cose che si trovano all’interno del mondo della musica, perché un pianoforte costa, un violino pure, anche un buon synth, e il poraccio di turno non li andrebbe a comprare solo per strimpellarli a tempo perso. Nonostante tutto, conservano quell’alone un po’ più “accademico”, così come gli strumenti più moderni hanno quel che di “sperimentale”. La chitarra invece è cheap, la puoi comprare ovunque, portare ovunque, chiunque pensa di poterla maneggiare… e ho già detto che è cheap? Alla fine si riduce a quello.
Poi ovvio, a livello professionale è uno strumento di tutto rispetto e c’è anche chi la studia e ne è virtuoso. Ma nella mia stesta restano l’equivalente di un pilota bravissimo che riesce a fare i miracoli al volante… di una Panda.

(Per amor di cronaca, alla fine Eivør era molto più godibile di quel che temessi. Almeno nelle canzoni scritte o co-scritte da Eivør. Poi ci sono quelle scritte da Bill Bourne, melodia e testo, con tanto di contributo vocale: il mix di buonismo preconfezionato, accordi banali, la sua terribile voce caprina e, appunto, la chitarra acustica mi fa mettere le mani nei capelli.
Non a caso, Bill Bourne è un “cantante”, musicista e compositore specializzato in chitarra che proviene da un background rurale; poteva comporre qualcosa all’altezza della sofisticatezza di Eivør?)

Monday 19 December 2016

Alghero, città di cacca

Io ogni volta che torno ad Alghero.

Alghero, ridente cittadina turistica del Nord-Ovest Sardegna, conta, arrotondando per eccesso, circa 44.000 abitanti. Trieste, capoluogo del Friuli-Venezia Giulia e porta d’accesso alla Penisola Balcanica, ne conta, sempre arrotondando per eccesso, circa 205.000. Facendo i calcoli, Trieste ha più di quattro volte e mezza gli abitanti di Alghero.
Consideriamo, fra i dati, che la densità abitativa di Trieste è più di dodici volte quella di Alghero; supponiamo ora, per facilità di ragionamento, che il rapporto fra gli abitanti umani di Alghero e Trieste sia applicabile anche agli abitanti canini. Diciamo quindi che, se Alghero ha meno di un quarto degli abitanti di Trieste, ha anche meno di un quarto dei suoi cani, con un dodicesimo della densità sul territorio.
Com’è possibile, quindi, che i marciapiedi di Trieste siano virtualmente privi di deiezioni canine a confronto del campo minato che sono quelli di Alghero?

Ho iniziato a farci caso da quando gioco a Pokémon Go – soprattutto in compagnia: da solo sono abbastanza multi-tasking da prestare attenzione a dove metto i piedi, ma in compagnia ho paura che gli altri siano distratti e non facciano caso a dove mettono i loro. Fatto sta che le volte in cui ho improvvisato una schivata o ho dovuto tirare Giulia per un braccio a Trieste si contano sulle dita di una mano; le volte che ho schivato oppure ho dovuto avvisare Beatrice o la Mater di una cacca di cane sul loro percorso ad Alghero sono innumerabili.
Ho iniziato a farci caso anche fuori dal gioco; un pomeriggio ci ho proprio prestato attenzione deliberatamente: ora, non dico che i marciapiedi di Trieste siano del tutto lindi e pinti, ma il numero di cacche di cane che ho individuato è irrisorio in confronto a quello che ho osservato ad Alghero nel giro di un pomeriggio – con la differenza che a Trieste ho coperto un’area persino più grande. Fra l’altro, ad Alghero non è nemmeno un fenomeno limitato a un quartiere particolare – per dire, è un singolo proprietario con molti cani grossi ed è lui a fare tutto il lavoro: è proprio diffuso capillarmente sul territorio.
Qual è il significato di questi dati? Gli Algheresi sono dei grandi cinofili mentre Trieste è un avamposto della conquista del mondo da parte dei gatti e tutti i cani sono stati banditi dal territorio comunale? Trieste ha un servizio della nettezza urbana capace di intervenire in tempo reale e rimuovere qualsiasi cosa puzzi sul marciapiede? La fa volare via la bora? O, più semplicemente, per ogni Triestino che raccoglie la cacca del cane ci sono cinque Algheresi che sono dei gran cafoni?

È interessante notare come la disproporzione fra cacche sui marciapiedi e popolazione canina stimata sia riscontrabile anche in altri ambiti della vita quotidiana; ad esempio, se supponiamo che Trieste abbia anche il quadruplo delle automobili dodici volte più concentrate, ho notato molti meno parcheggi irregolari. Qui potrei essere io ad aver viziato i dati, visto che di solito percorro vie larghe e parecchio trafficate in cui una sosta in divieto causerebbe un ingorgo e sarebbe presto rimossa, ma anche nelle vie secondarie vedo meno parcheggi in punta di incrocio o sui passaggi pedonali. Ad Alghero la situazione è talmente diffusa che, in preda alla frustrazione, a volte mi verrebbe da tirare fuori le chiavi e vandalizzare tutte le macchine in sosta irregolare perché porca miseria, evidentemente non lo capiscono in nessun altro modo.

E qui lo ammetto: questo post non ha un vero e proprio punto se non sfogare la frustrazione che fare lo slalom sui marciapiedi algheresi mi causa. Cioè, per tornare all profumato argomento originale, non ci vuole molto a risolvere il problema – basta chinarsi, raccogliere una cacca, quella del proprio cane, e si è già dato un contributo – quindi alla gente semplicemente fottesega. Credo sia una questione di mentalità, e qui c’è poco da fare. D’altro canto, è da quando avevo cinque o sei anni che mi sono reso conto di averne una diversa, pace.
Del resto, è dall’estate scorsa che Alghero mi fa venire in mente la gif di Olenna: bastano due gocce di pioggia, o una giornata particolarmente ventosa, che alcuni punti della città profumano di “eau de toilette” perché le fogne sono un colabrodo. Addirittura, in Piazza Sulis basta semplicemente che faccia caldo, e dal mare sale un odore che, a confronto, King’s Landing è un giardino di violette. Questo perché, con la stessa mentalità con cui si lascia perdere la cacca di cane sul marciapiede, non ci si decide a stanziare un appalto decente per rifare tutto il sistema idrico-fognario di Alghero – se ne parla da decenni – perché fa comodo che la ditta di turno, amica del politico di turno, si prenda il piccolo appalto per l’ennesimo rattoppo fatto a sputo quando la cacca per strada non si può più ignorare. Inutile dirlo, la puzza di fogna a Trieste non la sento nemmeno quando piove tanto da allagare tutte le Rive.

Side note: questo sfogo arriva dopo che ho letto un articolo in cui l’“intellighenzia” indipendentista sarda si fa un lungo piagnisteo sull’ingiustizia del “colonialismo culturale italiano”, che “minaccia” l’identità culturale e la mentalità sarda presentandole come arretrate, mentalmente chiuse, isolate e stagnanti. In realtà, dicono loro, non è vero che l’Italia (potenza occupatrice) ha portato la modernità e il progresso sull’isola, ma ha solo cercato di far sembrare il modo di vivere sardo più “selvaggio” per giustificare il loro imperialismo culturale.
Eppure, per tornare al titolo, Trieste sarà la città in cui si esagera con gli alberi di Natale, ma la città di cacca resta Alghero. Forse, e sottolineo forse, bisognerebbe prendere esempio dagli altri, invece che gongolare nella convinzione che la propria mancanza di buon senso e di rispetto civile sia una peculiarità culturale di cui andare fieri.

Sunday 11 December 2016

Panettoni indigesti

Katia stasera mi ha fatto una gran bella domanda, e le domande di Katia sono sempre molto acute e fonte di ottima introspezione: che cosa, precisamente, mi dà tanto ai nervi del Natale?
Bella domanda.
C’è stato il penoso incidente del 1999 che mi ha fatto andare di traverso l’atto in sé di decorare l’albero, ma poi? C’è qualcosa di più profondo? A parte la ghirlanda di luci appesa sulla porta di un negozio qua vicino, con la musichetta accesa 24/7 che, alle tre di notte con l’eco della strada vuota e silenziosa, diventa davvero creepy, stile camioncino dei gelati in un film horror.

Non c’è qualcosina… non so… di eccessivo?

Ci sono aspetti prettamente pratici che mi danno ai nervi, ad esempio Piazza Unità d’Italia. Quando mi sono trasferito a Trieste nel 2008, veniva decorata con due file di alberi di Natale, per non parlare degli altri, alcuni altissimi, sparpagliati per la città. Poi è arrivata la crisi e, negli anni scorsi, il tutto è stato ridimensionato a un solo albero in un angolo della piazza, un presepe e un proiettore di giochi di luce sparato sulla facciata del municipio. Di cui la gente si è lamentata, perché che fine ha fatto l’opulenza festiva di Piazza Unità? È davvero Natale, senza le file di abeti di Piazza Unità?
Ma quest’anno è arrivato Lui, Roberto Di Piazza; è tornata Forza Italia e ha salvato il Natale: riecco le due file di dannati alberi, ma non solo – di più! – ce ne sono decine sparpagliati per mezza città, perfino in Piazza tra i Rivi a Rioiano, perché Lui rimetterà le cose nel verso giusto. Sei mesi di mandato e ha reso Trieste di nuovo opulenta, perché è quello che significano ventiquattro dannati abeti – ventiquattro! – in due file su una piazza. Più i sei in Piazza Borsa, i due in Piazza Verdi, quelli di cui ho perso il conto andando in Cavana…
È una dimostrazione di potere e ricchezza fatta nella sicurezza che, mal che vada, si tratta di una stupidaggine. Roba a cui laggente tiene, ma pur sempre una stupidaggine inconsequenziale. Tutto fumo negli occhi.


C’è poi il fatto che la stagione natalizia ormai inizia i primi di ottobre. In inglese c’è un nome specifico per questo fenomeno: Christmas creep. D’altro canto, se hai della merce così marcatamente stagionale, ovvio che cercherai di venderla con una campagna pubblicitaria martellante e, a ogni buon conto, allungare il più possibile il lasso di tempo in cui è appropriato esporla. Purtroppo il lato consumistico – odio questa parola, fa tanto fricchettone no global incallito – del Natale ha dei limiti intrinsechi per superare i quali deve essere invadente fino al parossismo. È un lato imprescindibile e, se ti dà più fastidio di quanto i buoni sentimenti riescano a controbilanciare, c’è poco da fare, odierai sempre il Natale.

Probabilmente, il mio problema col Natale è proprio questo: me ne sento soverchiato. È tutto troppo, per me: troppe lucine, troppa gente, troppa frenesia, troppi buoni sentimenti, troppi parenti, troppi messaggi, troppe telefonate, troppi soldi in ballo, troppa pubblicità, troppe festicciole, troppo, troppo, troppo. Mi sento sempre come se arrancassi indietro e non riuscissi a stare al passo col resto dell’umanità. Mi sento sbagliato perché è socialmente bizzarro che non mi vada di prender parte ai festeggiamenti: se non li sento miei, dovrei almeno farlo perché è la tradizione; se non m’interessa la tradizione, dovrei farlo perché mi diverto, perché tutti si divertono alle feste. Questo rende il Natale l’ennesimo obbligo – uno del tutto infondato, per di più. Mi sento escluso da una cosa stupida in cui gli altri riescono a trovare un po’ di conforto e allegria cheap per qualche giorno, fingendo che tutto sia più magico e speciale. Mi sento sbagliato perché la mia resting bitch face è ancora più fuori luogo in mezzo al clima festivo, così come il mio humour tagliente e la mia voglia di essere amichevole solo con un numero ristretto di persone ignorando tutte le altre.
Così, puntualmente, al primo segno di panettoni e lucine sugli scaffali, inizio già a imbastire grandiose cazzate sui miei mirabolanti piani per Natale. E per Capodanno, ché dovrei essere davvero un freak per non voler far piani a Capodanno. Non mi va di dover accettare inviti, fingere di essere una persona normale che adora il Natale, o fare la parte di quello che rovina le feste agli altri.
Che ansia. Non vedo l’ora che il sei gennaio arrivi come una doccia fredda in tutto questo delirio, e il mondo torni ad essere meno luccicoso e più grumpy per farmi sentire meno fuori posto.

Sunday 4 December 2016

La bellezza dei granelli di polvere

Se c’è una cosa che mi urta (sì, lo ammetto, ce ne sono molte) è quando la Terra viene definita un piccolo, insignificante, patetico granello di polvere nella vastità dell’universo. Un minuscolo sasso in orbita intorno a una minuscola stella, ridicoli non solo sulla scala delle distanze cosmiche, ma anche paragonati alle dimensioni di altri pianeti e stelle.

Da una parte capisco da dove questi discorsi provengono e la buona fede che c’è dietro: dopo secoli di mentalità antropocentrica, in cui ogni cosa era stata creata a nostro uso e consumo come da dottrina cristiana, è doveroso rimettere le cose nella giusta prospettiva e ricordare che siamo solo un piccolo frammento di un universo vastissimo.
La nostra esistenza non è frutto di un universo costruito a misura nostra, ma di tante piccole coincidenze che hanno, in buona parte, a che fare con la “mediocrità” di cui siamo circondati: un sole nella media, senza fenomeni stellari particolarmente interessanti, senza una vera compagna perché Giove è rimasto troppo piccolo per diventare una stella binaria, in un angolo semi-periferico e privo di oggetti interessanti che possano interferire con la nostra esistenza in una galassia nella media, su un pianeta piccolo, senza anelli, con un solo satellite, che si trova alla giusta distanza dalla sua stella per permetterci di esistere. Tutte condizioni temporanee ed estremamente variabili, in tempi astronomici, che ci danno qualche centinaio di migliaio di anni per esistere, un tempo minimo sulla scala dell’universo.

La Terra vista da Saturno: un piccolo punto luminoso nella vastità dello spazio.

Fin qua nulla da ridire, ma poi c’è l’altra faccia della medaglia. C’è quando l’argomentazione va troppo in là e, a “piccolo” e “in un vicinato cosmico relativamente pacifico”, si aggiunge la derogazione. “Insignificante”, “patetico”, “non importante”, “fragile”, “granello di polvere”: queste sono cose che mi irritano parecchio. Perché sulla scala dell’universo è vero, non siamo nulla… ma cosa non lo è? Perfino le stelle più grandi e spettacolari non sono nulla nella vastità del cosmo. E allora, se niente è nulla, vuol dire che tutto è qualcosa: tanto la nostra piccola Terra quanto un’intera galassia non importano nell’arco di qualche decina di miliardi di anni, ma essere piccoli non significa essere insignificanti.
Del resto, questo “granello di polvere”, questa stella nella media, questa galassia grande ma non troppo per noi sono tutto. In un certo senso, è proprio la brevità, la precarietà e la straordinarietà delle circostanze della nostra esistenza a renderla molto più preziosa di quanto non sarebbe se tutto fosse stato progettato in sua funzione. Esistere nonostante l’universo sia un posto ostile alla fragile biologia del carbonio, in un breve momento prima che il Sole diventi troppo potente e ci spazzi via l’atmosfera o la alteri chimicamente fino a renderla simile a quella di Venere, prima che l’orbita della Luna decada e smetta di stabilizzare l’inclinazione del nostro asse e, con essa, i cicli stagionali, prima che la rotazione rallenti al punto da far perdere ogni nozione di giorno e di notte (e, con essa, di insolazione bilanciata), e avere un intelletto che ci permette di esserne consapevoli è una grande fortuna che, come specie, non dovremmo sprecare. È qualcosa di prezioso che non dovremmo dare per scontato.


Ma se la Terra per noi è importante perché è tutto, è la nostra vita, non si può togliere nulla neanche ai piccoli corpi celesti che non hanno a che fare con noi. Ogni stella e pianeta, ogni asteroide e cometa, è unico e speciale a modo suo. Perfino qualcosa come l’asteroide Ida, un piccolo mondo lungo nemmeno sessanta chilometri, è speciale, con la sua piccola luna Dattilo, un sassolino di un chilometro di diametro. Un asteroide con un satellite. Speciale come Plutone con Caronte qualunque sia la sua designazione, o Cerere col suo cratere brillante, gli anelli di Saturno e l’atmosfera di Titano, le tempeste di Nettuno, le bizzarre stagioni di Urano…
Nulla è insignificante: ogni cosa può essere interessante. L’universo può non essere stato creato secondo i nostri bisogni, può non esserci una ragione perché esistono gli altri pianeti, gli asteroidi, la fascia di Kuiper, le comete, le stelle, ma questo non ci impedisce di poter apprezzare come ogni cosa sia bella e unica a modo suo, di essere curiosi, voler imparare di più, fare nuove scoperte e porci altre domande.
E anzi, è proprio perché l’universo non è un modellino assemblato da qualcuno e ogni cosa, in tempi astronomici, è effimera che non dobbiamo cadere nella trappola dell’insignificanza dei “granelli di polvere”: siamo fortunati a trovarci sul nostro e a poter scoprire, osservare e imparare da quelli che ci circondano in questo breve momento in cui esistiamo.

Thursday 1 December 2016

Referendum mon amour ma haine

In un momento di infantile meschinità, potrei mettere a tacere la mia coscienza di cittadino dicendo che, visto che il governo ha messo in moto, per motivi che non condivido, una catena di eventi che ha portato al ritiro di RyanAir dalle rotte da e per la Sardegna, non può aspettarsi che mi freghi qualcosa del prezioso referendum attorno al quale sta cercando di basare la sua credibilità. Avete alzato le tasse aeroportuali oltre il livello di convenienza di RyanAir per trovare i fondi con cui salvare Alitalia, la quale manda i suoi piloti a mangiare nell’albergo più costoso di Alghero, che è dalla parte opposta rispetto all’aeroporto con annessi costi di trasporto del personale? Vi “punisco” boicottando il vostro referendum.
In realtà, poi, mi rendo perfettamente conto che la mia “punizione” del governo ricadrà, alla fine, solo su me stesso, perché ho la materia grigia necessaria a capire che lo Stato sono anch’io e, se lo danneggio, danneggio anche me stesso. E non essermi informato a dovere sul referendum, non aver tentato di colmare le lacune che non mi consentono di avere le idee chiare, è un torto che ho fatto a me stesso, più che un dito medio alla campagna referendaria “ché tanto, sia quelli del Sì sia quelli del No sparano solo stronzate”.
La realtà, comunque, è che semplicemente non ho soldi per scendere in Sardegna apposta per votare a ‘sto dannato referendum, non ho la stabilità mentale ed emotiva per affrontare la trafila che mi permetterebbe di votare qui a Trieste, per cui tanti saluti, mi sono risparmiato il disagio, la fatica e le sicure incazzature che tentare di navigare attraverso il pantano che è questa campagna elettorale mi avrebbe causato.
Detto questo, mi sono accorto con spavento di una cosa: da ignorante in materia, ho solo le nozioni base di cosa il Sì e il No comportino, senza una chiara comprensione delle ramificazioni pratiche di ciascuna opzione; di base, mi ritrovo a flirtare col Sì, sia perché trovo che gli aspetti negativi siano stati ingigantiti… sia perché, semplificato al massimo, il MoVimento 5 Stelle fa campagna per il No. Ecco, la cosa che mi spaventa è che potrei ritrovarmi a votare “di pancia” per far torto a qualcuno, invece che con chiarezza per migliorare le cose.

Ora, piano. Scendete dai cavalli, amici grillini, e mettete via i cappelli di carta d’alluminio e gli striscioni del gombloddo: ci sono un paio di cose da chiarire. Prima di tutto no, non sono pagato dalla Ka$ta per scrivere quello che sto scrivendo (magari!), non ho il microchip sottocutaneo e, soprattutto, non mi viene da votare l’opposto di quello che suggerisce il M5S perché simpatizzo per Renzi o il PD. Al punto attuale, non simpatizzo per nessuno, se si andasse alle elezioni dopodomani sbatterei la testa al muro.
No, il motivo per cui se il M5S dice dritto per me è inversione a U non ha nulla a che fare con la fedeltà ad altri, né tanto meno con ciò che gli altri dicono del MoVimento: mettetevi il cuore in pace, cari Grillini, e risparmiatemi il vittimismo da “i giornali ce l’hanno sempre con noi”. Il motivo della mia sfiducia è intrinseco alla natura stessa del MoVimento, ha a che fare con il modo malato in cui è nato e opera, con i metodi che invita i suoi accoliti a usare per (dis)informarsi e (s)ragionare. In breve, considerando le fonti, i toni, l’inaccuratezza, l’irrazionalità e la totale disconnessione dalla realtà che il MoVimento dimostra su otto temi su dieci, scusate, ma non rischio di fidarmi di loro nemmeno su quegli altri due temi, per quanto l’altra campana sia ugualmente sospetta.

La politica ritocca i fatti per attirare acqua al suo mulino, non è una novità. Il MoVimento 5 Stelle si proclamava diverso (ho già detto la mia in merito) e, forse, su questo ha ragione, perché mente direttamente. Niente manipolazione delle notizie, no, le loro sono vere, dirette, onestissime bugie. Ma proprio a livello capillare: non solo sui grandi temi, anche sulle stronzate più spicciole, vedasi l’ultima perla partorita dai media grillini in queste ore.

Ciao, Torino, quanto sei cambiata!
Francamente, come faccio a fidarmi di un partito che mente anche sulle cretinate come quanta gente c’era in piazza? Voterei Adinolfi, se così fosse. E non so cosa sia peggio, se pensare che sia stato fatto in malafede per cercare di dimostrare di avere massa critica, o in buona fede perché chi ha postato non sa distinguere Firenze da Torino (nemmeno fosse stata Piazza della Repubblica, che quel gusto sabaudo ce l’ha).
Ed è quello l’altro grande problema che ho col MoVimento 5 Stelle: giustifica e nobilita l’ignoranza. La promuove a condizione esistenziale privilegiata. “Votate con la pancia e non con la testa”, che sì, è sempre meglio che votare col culo come hanno fatto Oltremanica e Oltreoceano, ma col suo continuo uso di fonti inaffidabili, teorie scientificamente improbabili (le Sirene, porca miseria!), retorica del “noi contro loro” che implica che qualsiasi cosa non sia Grillo-approved sia automaticamente falsa, cercano sistematicamente di formare un elettorato incapace di pensare con la sua testa. E sì, il fatto che il sistema scolastico italiano non sia ancora stato riformato dai tempi di Gentiloni la dice lunga su quanto i nostri politici non vogliano dei cittadini particolarmente svegli, ma anche lì, un conto è l’omissione via programmi scolastici (specie di storia) mal strutturati, un conto è diffondere fatti oggettivamente non veri e condirli dicendo senza sottigliezze e mezzi termini “spegnete il cervello e credete a noi”. Davvero, davvero qualcuno può fidarsi delle direzioni che questa gente dà al voto?
E poi c’è quella ciò che recrimino loro e non ho ancora perdonato dal dibattito sulla legge Cirinnà: la loro argomentazione di punta è sempre e comunque “mandiamo a casa Renzi!!!!”. Punto primo, è interessante vedere come sparlino quasi solo del PD e poco o niente della Lega o del Centrodestra in generale. Punto secondo, che abbiano più a cuore far fuori certi avversari politici che governare il paese era evidente già da quando si è formato il Governo: quel poco di critica alla destra che sento venire da loro è nelle corde di “Eh, ma al governo c’è anche Alfano”. Davvero? E dov’eravate voi quando c’era da fare la coalizione di governo? Niente alleanze al grido di “O governiamo soli o niente”, e avete preparato il terreno per il governo di larghe intese (questa è una cosa che recrimino anche ai partiti di Rivoluzione Civile, per par condicio). È da allora che danno contro al Governo per partito preso, qualsiasi sia l’argomento in discussione, senza curarsi del fatto che il Paese ha bisogno di fatti, non di vuota ideologia. Nessuna delle leggi o riforme osteggiate è mai stata perfetta, ma fare politica significa anche scendere a compromessi: un piccolo passo avanti è pur sempre meglio che stare fermi come i muli. Finché il MoVimento 5 Stelle non capirà questo, magari potrà cavarsela localmente, ma non sarà in grado di governare un intero Paese.

Ricapitolando, quindi, il MoVimento 5 Stelle:
  • Mente. Non è ipocrisia politica, non attira l’acqua al suo mulino ritoccando le notizie, mente direttamente.
  • È disinformato, promuove la sospensione del pensiero critico e si erge a unico detentore della Verità.
  • Non ha chiaramente idea delle priorità di governo, si aggrappa alle logiche di partito e alle questioni ideologiche a discapito del pragmatismo e della praticità.
Quindi, il vero motivo per cui mi viene da fare l’esatto opposto di ciò che raccomanda il MoVimento è che i suoi valori, metodi e azioni non è che non si allineano con i miei, sono diametralmente opposti.
Ora, al di là di quelli che sono i pensieri su questo referendum nello specifico, pensateci bene: davvero vorreste lasciare le redini del Paese in mano a questa gente? No, perché dopo il Brexit e la vittoria di Trump, ormai mi aspetto il peggio da LAGGENTE.

Sunday 20 November 2016

Momenti

Giusto a titolo informativo: c.v.d., a Roma è andato tutto bene.
La mia organizzazione è stata impeccabile (anche se il B&B mi ha lasciato senza wi-fi), ho catturato un fottìo di Pokémon fra cui anche l’Exeggcute meraviglia assoluta che mi serviva per far evolvere Exeggutor, ho trovato uno Psyduck che nuotava nella Fontana di Trevi e, soprattutto, ho catturato il mio primo Jynx. Per la serie, “Dovevo veni’ a Roma pe’ cattura’ er mignottone”.
 
The Only One by GothicNarcissus The Only One 2016 by GothicNarcissus

Anche passare per Bologna non mi ha dato alcuna difficoltà, stanchezza a parte (treno alle 6:45 del mattino), e ho anche trovato un passaggio un po’ più presto del previsto che mi ha permesso di prendere un Intercity senza cambio e arrivare a Trieste in tempi umani e con poca fatica.
A parte questo, Claudio mi ha regalato il libro del primo anno del suo corso di norvegese e, finalmente, le mie mire autodidattiche iniziano ad avere una direzione precisa. E con Katia non solo siamo andati dal giapponese più buono in cui abbia mai mangiato, ma siamo anche andati a vedere Animali Fantastici e Dove Trovarli come ci eravamo ripromessi. Ovviamente, poi, non esiste che io vada a Roma e non passi al Cimitero Acattolico per una visitina all’Angel of Grief, ormai è una tradizione.

Una foto pubblicata da Alessandro Narciso (@gothicnarcissus) in data:

La cosa che mi ha sorpreso di più, comunque, è essermi più o meno goduto la giornata col Procreatore. A parte le solite, inevitabili fonti di frustrazione, tipo il campo magnetico che sembra avvolgerlo e che gli rende repellente qualsiasi superficie pedonabile a favore della carreggiata più vicina (giuro che l’ha fatto anche a Times Square, in mezzo al traffico di NYC).
È che penso che tutti ci rendiamo conto che nessuno può scegliersi i genitori e non incolpiamo gli altri di ciò che fanno in pubblico, ma ho perennemente il terrore che faccia qualche faux pas sociale mentre è con me; fortunatamente, il suo grande momento è andato liscio e nessuna delle mie previsioni più nefaste si è avverata. Una piccola parte di me si è perfino sentita orgogliosa di lui ed è stata quasi sincera nell’incoraggiarlo; un’altra è stata genuinamente felice che ci abbia tenuto tanto alla mia presenza lì. Come uomo è emotivamente stitico e non mostra grande affetto; siamo costituzionalmente agli antipodi, con lui che è un uomo manuale e io che sono cerebrale. Non abbiamo mai avuto molto terreno comune su cui costruire un vero rapporto, per questo per me è stata una novità frastornante. In realtà è da qualche mese che mi sembra che non recitiamo più il ruolo di padre e figlio ma condividiamo davvero dei momenti. Non so se genuinamente fosse contento che io fossi lì con lui, ma l’idea che lo sembrasse ha colpito una qualche parte atrofizzata del mio quorycino. Mi fa strano accorgermi che, dopo tutti questi anni, mi importa, ma ne sono davvero felice.
E fra l’altro, girare Roma con lui non è stato nemmeno particolarmente noioso: posto che ho tenuto il naso sepolto in Pokémon Go per buona parte del tempo e gli occhi incollati ai monumenti per il resto, e che lui non è decisamente un buon compagno di gite artistiche come lo è la Mater, a cui queste cose interessano davvero e con cui posso condividere il mio entusiasmo, almeno ha saputo dove portarmi e ho apprezzato gli aneddoti che mi ha raccontato; mi sono perfino trovato a raccontargliene qualcuno io, dalle volte in cui sono stato a Roma in precedenza.
È proprio questo che è cambiato: le ultime volte che ci siamo visti abbiamo parlato un po’ di noi, non solo di politica estera e interna, del tempo che fa e delle ultime notizie al TG. Mi ha raccontato qualche episodio di quando era giovane, e l’ho ascoltato volentieri. Non so perché mi senta nella posizione di tentare questo approccio, di provare a conoscerlo seriamente: forse davvero non mi frega più niente del momento in cui se ne inventerà un’altra, mi volterà le spalle e mi farà del male per l’ennesima volta, come nove anni fa. Almeno quei piccoli momenti me li posso (e voglio) godere. Al diavolo se mi rendo vulnerabile per la prossima piazzata.

O mio dio, ho mica appena centrato il nocciolo della mia nevrosi nei confronti delle relazioni umane partendo dalla vera e propria radice del problema? Che sia la volta buona che riesca a far partire il defrost?
Urge che chiami lo psicanalista e prenoti una seduta per capirci qualcosa.

Monday 14 November 2016

Roma capoccia febbricitante

C’è sempre un senso di liberazione quando si raggiunge il punto di rottura dopo settimane di tensione. Anche quando la “rottura” è fisica e passi tre giorni con un piede nella fossa, il primo a vomitarti l’anima o dovendo correre in bagno ogni dieci minuti, il secondo a dormire perché hai un picco di febbre, il terzo a riprendere cautamente a mangiare.
E sì, venerdì ho preso un acquazzone epocale dopo un pranzo bello carico al giapponese. Magari era proprio quello che ho mangiato ad avermi fatto male, si sa mai agli all you can eat. Ma sono piuttosto convinto che il mio malessere sia stato psicosomatico perché, ora che ho iniziato a riprendermi, mi sento alleggerito da tutta l’ansia delle scorse settimane. E no, non si trattava semplicemente di pulire camera: questa settimana torno a Roma dopo nove anni di assenza e, di ritorno, mi fermo a Bologna per un matrimonio. Le scorse settimane le ho passate a far quadrare il cerchio per non spendere l’ira di Dio, avere tutto prenotato in posizioni e orari strategici, e capire quanto tempo avrò a disposizione per girare un po’ la città. Una città che mi fa paura, lo ammetto: da ragazzino non la percepivo come pericolosa, perfino quando partii allo sbaraglio col mio migliore amico a quindici anni per le vacanze di Natale. Ma ora ho delle consapevolezze in più: Roma non è Milano e non mi sento molto sicuro al pensiero di girarci, specie la sera, specie in zona Termini. Ho deciso che porterò il computer per potermi connettere al wi-fi, ma non porterò la fotocamera. Del resto, speravo di fare il penultimo Infernal Lord lì, ma con questo progetto nulla è mai semplice ed è saltato tutto all’ultimo. Le foto di stock al Cimitero Acattolico le posso fare in qualsiasi momento, se mi organizzo per scendere nuovamente e recuperare l’Infernal Lord.
Il fatto che mi sia saltato lo shoot è il motivo principale per cui questo viaggio mi è andato un po’ di traverso; il secondo è che scendo per una faccenda che riguarda il Procreatore e che, francamente, vorrei non fosse mai spuntata fuori, ma pace. La tentazione di tirare pacco agli sposi di Bologna è enorme e, lo ammetto, l’unico motivo per cui non mando tutto all’aria con la scusa che sono stato male in qusti giorni è che ormai l’ho promesso a Katia e Claudio e non voglio deluderli. Chissà, magari mi esce anche una visione di Animali Fantastici e Dove Trovarli al cinema con Katia, ché se ne parlò quando fu annunciato il film, e tutto andrà per il meglio.

Comunque, dicevo, il punto di rottura: ora che la tensione è svanita con la febbre, mi sono rassegnato all’inevitabile – Procreatore con le sue… cose, e set fotografico saltato – e mi concentro su quanto mi godrò la buona compagnia. Anche per Bologna, mi sono assicurato passaggi e questioni logistiche, e l’unica domanda è per che ora potrò tornare in stazione a prendere il treno, ma me ne occuperò a tempo debito. Che poi, a questo matrimonio vedrò tantissime persone a cui voglio bene, per cui sarà divertente, mica una di quelle menate della Famiglia Barilla in cui devo sopportare tutto il parentame giù.
Una piccola vittoria è che sto riuscendo davvero a organizzare questo viaggio nonostante le crisi di nervi, e non deluderò nessuno con un bidone dell’ultimo momento – perfino il Procreatore, ché lo ammetto, a una parte di me fa piacere essere con lui in un momento importante della sua vita. Vorrei non essere così fragile e non avere un equilibrio psicofisico così precario, tornare a quando viaggiare mi dava piacere senza la paura costante di non trovarmi nella mia bolla familiare di routine. Ma è bello constatare che, nonostante tutto, ce la posso fare. Anche se si tratta di qualcosa di nuovo, non il solito viaggio a Milano, dove so perfettamente come muovermi. Chissà che magari non mi passi la paura di Roma e non riesca a organizzare con più serenità lo shoot per l’Infernal Lord in un prossimo futuro.

Tuesday 8 November 2016

If tomorrow never came

Non c’è un vero motivo per cui oggi ho tutto questo mal de vivre. O, per lo meno, non uno che io riesca a identificare facilmente, che è il motivo per cui sto scrivendo questo post.

Camera mia è un disastro. Tornato a Trieste dopo tre mesi, ho avuto due giorni di tempo prima di partire per Lucca: troppa roba da preparare e zero tempo per riordinare e pulire. Tornato da Lucca, mi sono beccato l’ormai tradizionale raffreddore, che è degenerato malamente a causa dei tre mesi di polvere che si era accumulata: sono guarito solo quando ho ripulito almeno l’angolo del letto. Nel frattempo, ho raccattato un altro materasso da una piazza e mezza perché quello su cui dormo è praticamente inesistente, così li impilo uno sopra l’altro e starò più comodo: finché prima il coprimaterasso e ora un cambio di lenzuola non si asciugano, non posso rifare il letto e ho mezza stanza divorata dal caos.
In un angolo c’è il secchio col mocio,  ché ho pulito la metà stanza libera, ma nell’altra, oltre al materasso, c’è ancora parte del pacco con i vestiti che mi sono spedito da giù e la valigia di Lucca (tolte le cose che ho mandato a lavare). Devo almeno togliere di mezzo il materasso per pulire e lavare quella parte di stanza, per cui stanotte il secchio dorme qui. Riordinare il macello di vestiti che invade in parte il pavimento e in parte l’altro letto è un pensiero piuttosto sgradevole. E ovviamente, finché non avrò finito anche con la lavatrice del nero, non potrò nemmeno ritirare lo stendibiancheria, che contribuisce, almeno visivamente, al disordine. Alla fine, credo che troverò un compromesso, ammasserò i vestiti sull’altro letto e mi occuperò solo della pulizia, non dell’ordine.
Il succo è che, come mi giro, c’è qualcosa da fare e sembra che, nonostante i miei sforzi, la situazione non riesca a tornare alla normalità. È solo un’impressione dettata dal fatto che, finché il bucato non si asciuga, ho le mani legate, ma anche se il tempo è qualcosa totalmente fuori dal mio controllo, il mio cervello non mi dà tregua.

Se non altro, buttando giù qualche riga per schiarirmi le idee sono riuscito a zittire la paura di andare a dormire. Quando ho delle incombenze che mi turbano, cerco sempre di rimandare il più possibile il sonno: la notte è come un magico momento di stasi, in cui non è giù più ieri, ma non è ancora nemmeno domani. Se vado a dormire, la stasi si rompe e, non appena mi sveglio, devo affrontare domani con tutte le cose che ho da fare. Non sono mai felice, nella stasi notturna, ma almeno posso far finta di essere sereno e privo di pensieri.
Vorrei poter controllare il tempo, castare una compressione temporale come Artemisia di Final Fantasy VIII per vivere in un eterno presente senza dovermi preoccupare di ciò che succederà in futuro.
Che poi, che brutta parola, “futuro”.

Sunday 23 October 2016

Justice for Luana

Nel post sul famoso litigio dei piatti sporchi, avevo promesso che avrei parlato, in concomitanza di un altro anniversario, di ciò che successe fra la sfortunata gita nei pressi di Roma e lo stalking da parte di Quella Luana negli anni successivi. Poi me ne sono del tutto dimenticato, ma quest’altro anniversario era l’aver iniziato a indossare la chiavetta d’oro al collo.
Per riassumere, Luana mi aveva regalato un pendente d’oro a forma di metà cuore con su scritto 4ever Friends da una parte e Lola dall’altra. Lei aveva l’altra metà, quella con Alex. Siccome le mie opzioni circa le catenine su cui portare il pendente erano nulle, la Mater mi regalò la sua catenina preferita. Da allora, non la tolsi praticamente più.
Il sabato in cui Quella Luana e suo padre mi riaccompagnarono a Civitavecchia per prendere il traghetto del ritorno, lei era vestita dimostrativamente molto scollata, con una collana floreale intorno al collo ma senza la catenina 4ever Friends – Alex. Una volta tornato a casa, decisi di fare altrettanto, ma mi dispiaceva non indossare più la catenina, visto che nel frattempo la Mater ne aveva già comprata una nuova per sé. Così mi ricordai che i miei genitori avevano comprato casa quando io avevo pochissime settimane e i precedenti proprietari mi avevano regalato un ciondolo a forma di chiave come buon augurio.
Caso volle che in quei mesi fossi tutto un fremito per l’imminente arrivo di The Open Door degli Evanescence; il primo singolo, Call Me When You’re Sober, uscì proprio nelle settimane del dramma di Luana e parlava di Amy che trovava la forza di terminare un rapporto tossico senza rimpianti, ripensamenti e lacrime. Quale migliore coincidenza? Da allora, la chiave è quella della open door da cui escono le persone tossiche della mia vita e la indosso 24/7 per ricordarmi che non devo farmi del male pur di salvare un rapporto esausto.

Una foto pubblicata da Alessandro Narciso (@gothicnarcissus) in data:

Tutto bello e tutto facile sulla carta; nella realtà un po’ meno. Perché se la colpa del litigio grosso, quello che ha mandato tutto in frantumi, fu sua (e su questo non sono disposto a negoziare), il conseguente degenerare della situazione fu in buona parte colpa mia. All’epoca mi giustificai dicendo che povera Luana, a parte me davvero non aveva nessuno; che se me ne andavo io, chi le rimaneva? Che ero meschino a prendermela così per uno screzio, che la mia rabbia era solo una fase, che se aspettavo, se mi sforzavo, saremmo tornati come prima. O che, in alternativa, prima o poi si sarebbe stancata lei di cercarmi a vuoto.
Fatto sta che, qualche mese dopo, Luana mi contattò in lacrime per dirmi che le era morto il cane. Sul momento, le offrii conforto; lei colse la palla al balzo e tornò come se nulla fosse successo. “Allora, Ale, come va con pianoforte? Hai iniziato a fare canto? Dai, che dobbiamo mettere su una band! Mi traduci questo testo che ho scritto sulla morte di Ice?”. Non mi chiese mai scusa per quello che era successo, io non glielo feci mai notare perché mi sembrava assurdo che non ci arrivasse lei. Eppure, proprio il fatto che non ci avesse nemmeno pensato, che forse era il caso di provare a rimediare, mi ferì ancora di più. Vedere il suo numero in chiamata mi rivoltava letteralmente lo stomaco. Solo che, invece che fare chiarezza e dirle senza mezzi termini che a) mi doveva delle grosse scuse, e b) in ogni caso poteva infilarsele dove le pareva perché non era possibile tornare a com’eravamo prima, feci il gioco del silenzio e sperai che si stancasse di essere accolta con storie inverosimili quella volta ogni dieci che le rispondevo al telefono. Ciliegina sulla torta, quando di troncare si trattò, usai un ennesimo pretesto, e solo quando nemmeno questo fu sufficiente le dissi che, semplicemente, non provavo più amicizia per lei dopo quello che era successo l’estate prima. Troppo tardi, quando ormai il torto era diventato mio. Quando avevo lasciato che la situazione si putrefacesse invece che mettere un punto fermo, risparmiare false speranze a lei e tanto logorio di nervi a me.

Parlandone col terapeuta, è emerso che, in sostanza, ho una paura fottuta dei distacchi. Consensuali o non consensuali, naturali o prematuri, con persone, attività, situazioni, cose: qualsiasi sia il distacco, mi spaventa tanto che preferisco una situazione stagnante e insoddisfacente piuttosto che affrontare la fine di qualcosa. Vero, progetto degli Infernal Lords lasciato a due lavori dal completamento perché non mi decido a organizzare questi ultimi shoot?
Comunque, in dieci anni, si spera, sono maturato. Ho avuto il tempo di processare la faccenda di Luana e imparare dai miei errori. Se anche devo essere io a prendermi la colpa di aver sfasciato tutto ufficialmente perché non so scendere a compromessi, sticazzi, rivendico con orgoglio di essere brutto e cattivo, anche più di quanto non lo sia realmente.
Fin qui, ho scritto questo post al primo pomeriggio, rimettendo i fatti in ordine e chiarendomi le idee. Adesso, dopo una passeggiata per riflettere meglio, alcune ultime faccende sbrigate ad Alghero prima di ripartire e, soprattutto, concluso con due lunghissimi messaggi e un’ora e nove minuti di telefonata un rapporto d’amicizia che era diventato profondamente insoddisfacente, posso dirlo: Luana, cara Luana, Quella Luana, finalmente ho imparato la lezione che avrei dovuto imparare con te. Che la gente non mi legge nel pensiero e, se voglio concludere un rapporto, devo semplicemente farlo. Le mezze soluzioni non sono soluzioni.
Spero che questo sia almeno una briciola della giustizia che avrei dovuto farti.

Monday 17 October 2016

Sono un fan di Amy Lee

Continua il mese della nostalgia perché, dopo anni e anni di rotta, aspre critiche, frecciatine, prese per il (grosso) culo e quant’altro, mi sono ritrovato a pensarlo nuovamente: io sono un fan di Amy Lee.
Quando ne parlo con amici o gente che sa a chi mi riferisco, mi fa strano riferirmi a lei col suo nome: nella mia testa è la Pescivendola, Pescy se uso il diminutivo, e da lì non mi schiodo. Col tempo e l’abitudine è diventato un nomignolo tutto sommato affettuoso, anche se sei-sette anni fa era totalmente spregiativo. Ho francamente vergogna a digitare “Amy Lee” nel box di ricerca del blog e leggere i post da fangirl pre-2008, o quelli al vetriolo nel periodo Sally’s Song / faccio la solista / mi taglio i capelli e l’ancor più indigesto “amo gli Evanescence perché la label mi costringe” – in entrambi i casi avevo un rapporto molto malsano con la dicotomia artista / essere umano insita in ognuno di noi.
E sì, ho esagerato a prendermela quando Pescy ha detto che la musica della band era solo un aspetto delle sue capacità artistiche, ero giovane e stupido, tanto da giudicare a priori i progetti da solita solo perché – gasp! – non sarebbero stati rock, dark e epic. Che poi, già facevo fatica allora a dire a me stesso che tutto quello che ascoltavo era, a modo suo, goth, ma a una presa di posizione così netta non ero affatto pronto.
In rettrospettiva, comunque, trovo stupido solo il come, l’aver preso la faccenda così sul personale: in mezzo a tutto il livore e l’infantilità, le critiche che ho mosso a Pescy fra il 2008 e il 2012 – la mancanza di tecnica vocale che iniziava a farsi sentire, il modo stupido in cui ha gestito le PR, la bruttezza di Evanescence (album) – erano oculate e piuttosto lucide. Forse è proprio per questo che, nonostante tutto, sono ancora qui, a parlare di lei e ascoltare la sua musica, quando i suoi fedelissimi tacciavano me e gli altri che la criticavano di essere hater a priori, mentre loro erano i veri fan. Prendermi una “pausa di riflessione”, riconoscere i suoi limiti, accettarli e decidere che non offuscano i pregi, capire cosa della sua musica mi piace e cosa no, tutto ciò mi è servito a bilanciare il mio rapporto con la sua arte, acquisire un nuovo livello di rispetto per la sua vita privata e maturare in generale come ascoltatore di musica.

Una cosa che trovo interessante notare è che i ruoli nel fandom si sono completamente invertiti. Sono i fan che non hanno mai messo in dubbio Amy a non esserci più, ora. Perché tutti noi che, nel suo periodo nero, non siamo stati ad applaudire contenti perché qualsiasi cosa faccia Amy è la Parola del Signore, siamo qui, abbiamo ascoltato Recover, stiamo ascoltando Dream Too Much e, francamente, ce li stiamo godendo. Evanescenceville non è nemmeno più online come sito e, sui media, parla a malapena delle uscite soliste. Gente che nel 2008 era pronta a saltarci agli occhi per ogni critica, anche la più avveduta, le ha ignorate perché “tanto non sono gli Evanescence”. E la cosa assurda è che non sono rimasti chiusi nella piccola scatolina del rock, dark e epic, molti si sono aperti al pop quando Amy ha speso due paroline di supporto per Britney nel periodo Blackout, hanno scoperto altre band da amare… eppure, nei suoi confronti stanno dimostrando esattamente lo stesso tipo di infantilismo che ho dimostrato io anni fa. Non riesco a capire come sia possibile che io e i miei amici siamo andati avanti mentre loro sono rimasti lì: tutte le parole grosse, i tentativi di farsi piacere Evanescence (album) a tutti i costi, di trovare un significato a quella copertina pigra, di coprire di fango i We Are The Fallen e tutti quelli che non lodavano il nome di Pescy sono spariti nel nulla.
Forse è stato proprio scendere a patti con l’umanità di Pescy a permettermi di imparare ad apprezzarla a tutto tondo, anche se in cinque hanni non ha prodotto nemmeno un’ora di musica. Del resto, anche se sono curioso di sentirla seriamente solista, non mi dispiacerebbe nemmeno un nuovo album degli Evanescence, a patto che sia qualitativamente all’altezza delle sue capacità. Fra una frecciata e una critica avveduta, alla fin fine credo ancora in lei e sono pronto a sostenerla quando fa cose che mi piacciono. Sono ancora un fan di Amy Lee.

Monday 10 October 2016

Cinquanta fatti random sulla mia musica preferita

Beh, ho parlato di musica e nostalgia, già che ci siamo…
Di solito odio spammare test stupidi qui sul blog, ma questo a) non è stupido, e b) è un evergreen che faccio e rifaccio periodicamente perché è sempre divertente e attuale. L’idea di base è semplice: prendo la mia classifica di last.fm (che sì, esiste ancora) e rispondo alle domande per ogni posizione. Il risultato è una fotografia delle mie preferenze musicali attuali assieme a una lista di trivia associate a ogni artista.
Le prime versioni di questo test purtroppo sono sparite con la morte del forum di Epica Italy (in cui mi sono imbattuto nel test), qualcuna è superstite sul mio Facebook, ma ricordo che inizialmente, nel 2009, faticavo ad arrivare a cinquanta artisti ascoltati ed era quasi tutto metal. Da allora ne è passata di acqua sotto i ponti e di scrobble verso il sito, e ora siamo arrivati a questo:

1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 30? (Delerium)
• Undici o dodici anni fa girava per eMule un videoclip fan-made di Final Fantasy VIII montato su Silence. Io e il mio amico Giovix lo scaricammo per il gioco, ma rimanemmo stregati anche dalla canzone e decidemmo di approfondire. Poi da lì mi attaccai anche a fare FMV di FFVIII su tutte le canzoni degli Evanescence, ma quella è un’altra storia.
2. Prima canzone ascoltata della numero 22? (Anathema)
• Qualcuno mi fece ascoltare l’immancabile Parisienne Moonlight, ma non mi appassionai alla band fino a quando uscì e ascoltai Falling Deeper. Quell’album è incredibile.
3. Testo preferito della numero 33? (Röyksopp)
• Quello di What Else Is There?, con Running To The Sea subito dopo.
4. Album preferito della numero 49? (Placebo)
• È una dura lotta fra Sleeping With Ghosts e Meds, ma penso che vinca il primo per ragioni affettive.
5. Canzone preferita della numero 13? (Stream of Passion)
• Sembra un po’ un insulto alla loro produzione musicale stellare, ma è una cover: Street Spirit. È davvero indescrivibile.
6. Album peggiore della numero 50? (After Forever)
• I primi due sono quasi inascoltabili e il songwriting di Mark è ancora acerbo da morire, ma il peggiore resta Invisible Circles: pretenzioso, palloso, pesante, strutturato malissimo e con un concept banale e svolto con i piedi. Se si cerca sul dizionario la definizione di “sopravvalutato”, c’è la sua copertina. In realtà è solo con l’arrivo di Joost che gli After Forever sono passati da inascoltabili a ottimi.
7. C’è una canzone della posizione numero 39 che senti molto tua? (Meg Myers)
Feather descrive bene una fase non propriamente felice della mia vita.
8. Bei ricordi legati alla numero 15? (Susanne Sundfør)
• Era appena uscito Ten Love Songs quando andai a Firenze e incontrai Katia e Francischino per la prima volta di persona. Quelli che dovevano essere pochi giorni ospite da Katia si trasformarono in più di tre settimane. I ricordi sono decisamente ottimi e riascoltare canzoni come Kamikaze, Delirious o Accelerate me li riporta sempre in mente.
9. Quanti album possiedi della numero 5? (Emilie Simon)
Tutti e sei (compresa la colonna sonora de La Marche De L’Empereur) più il live.
10. C’è una canzone della numero 45 che ti rende felice? (White Sea)
• Adoro ascoltare Prague quando sono di buon umore: il ritmo, la melodia, il mood – mi dà davvero la carica.
11. Canzone preferita della numero 40? (Phildel)
• Bisognerebbe prima trovarne una che non sia magnifica e non mi piaccia… ma forse Afraid Of The Dark sta un gradino sopra le altre.
12. Canzone della numero 10 che ti piace di meno? (Delain)
• Ogni loro album ha quell’unica canzone che non ha ragione di esistere. Voto The Gathering dal primo, una pacchianata sympho-metal resa ancora peggiore dal gracchiare molesto di Marco Hietala.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 6? (Evanescence)
• Oddio, da dove cominciare? Il primo ascolto di Fallen in Inghilterra? La scoperta di Origin? La gita scolastica di seconda liceo, Alghero-Parigi in pullman e traghetto, passata ad ascoltare le loro canzoni in shuffle con Giovix? Il viaggio natalizio a Roma, Origin sparato in cuffia mentre ci eravamo accampati nel sottoscala in traghetto? L’attesa per The Open Door? Il concerto con meet & greet a Milano? Sono davvero sopravvissuto all’adolescenza grazie alla loro musica.
14. Canzone della numero 38 che associ a un momento o persona? (Octavia Sperati)
Hunting Eye mi fa pensare alla mia ultima cotta seria.
15. Quale canzone della numero 19 ti emoziona di più? (Eivør)
• Moltissime! Vøka è molto intensa, così come Room, ma direi che è True Love che mi travolge ogni volta, specie il video, peggio de La Bella e la Bestia fra un po’!
16. Quante volte hai visto la numero 35 live? (The Crest)
• Considerando che sono pressoché inattivi da più di dieci anni… li ho comunque visti una volta, quando hanno fatto una reunion straordinaria per il quarantesimo compleanno del chitarrista. E lui mi ha invitato.
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 23? (Alizée)
• Avevo sentito Moi… Lolita un pomeriggio in vacanza a Salsomaggiore, J’En Ai Marre mi ha fatto comprare un suo disco, ma è stata Les Collines (Never Leave You) anni e anni dopo a farmi innamorare e decidere di approfondire la discografia.
18. Album preferito della numero 11? (Draconian)
• Vado controcorrente e dico A Rose For The Apocalypse. Ps: Arcane Rain Fell è sopravvalutato!
19. Prima canzone ascoltata della numero 14? (Sia)
• Sono sicuro al 100% di aver sentito The Church Of What’s Happening Now in qualche pub anni prima che Sia facesse il botto con Chandelier; me l’ero anche segnata sul cellulare per cercarla e scaricarla in seguito (cosa poi mai fatta, ma dettagli). Quando ho recuperato la discografia e sono arrivato a Colour The Small One sono esploso in una nuvola di quory.
20. Canzone preferita della numero 27? (Leandra)
• È una lotta durissima fra The Art Of Dreaming e Wake Up Call. I titoli rendono il tutto ancora più ironico.
21. Album preferito della numero 16? (Tristania)
World Of Glass senza se e senza ma. La cosa interessante è che ora lo ascolto come elettronica spinta, più che come metal. Ps: Beyond The Veil è uno degli album più sopravvalutati della storia.
22. Prima canzone ascoltata della numero 47? (Amaranthe)
Drop Dead Cynical, ma li snobbai parecchio, sul momento. Grave errore.
23. C’è una canzone della 18 che trovi catartica? (Lady Gaga)
• So che sembra strano, considerando che è dance-pop e tutto, ma Telephone mi fa sfogare moltissimo quando sono di cattivo umore. Il ritornello, specie le parole, mi aiuta a sfogare il senso di soffocamento degli attacchi d’ansia.
24. Come hai scoperto la numero 21? (Róisín Murphy)
• Me l’avevano consigliata degli amici ma non avevo molta voglia di dedicarmici. Poi ho visto su Instagram che la mia celebrity crush è andata a un suo concerto, e come potevo dire di no?
25. Canzone della numero 26 che ti rende felice? (iamamiwhoami)
Chasing Kites. Ha un retrogusto nostalgico, ma la trovo molto positiva.
26. Canzone preferita della numero 3? (The Gathering)
Oggettivamente è una scelta impossibile; soggettivamente, Saturnine. Come si fa a non amare Saturnine?
27. Album preferito della numero 2? (Within Temptation)
The Unforgiving. Sul serio, è un grandissimo album con una struttura impeccabile, ottime melodie e arrangiamenti che hanno rinfrescato e revitalizzato i Within Temptation. Ps: The Silent Force è sopravvalutatissimo.
28. Prima canzone ascoltata della numero 32? (Abney Park)
Sleep Isabella, courtesy della BriarRose.
29. Testo preferito della numero 8? (Marina & The Diamonds)
TUTTI. I testi sono la parte migliore della musica di Marina, Electra Heart è il nuovo Vangelo. Il misto di ironia, snark e sincerità con cui affronta il mondo è fantastico, ed è una millennial in crisi esistenziale come me, per cui mi vedo un sacco in quello che scrive.
30. Quante volte hai visto la numero 17 live? (Emilie Autumn)
• Una, e che esibizione! Son riuscito a sponsorizzare un limone a BriarRose con Veronica Varlow!
31. Come hai scoperto la numero 44? (Roniit)
• Me ne ha parlato Luisa, tanto per cambiare: da lì ho ascoltato In The Shadow e me ne sono innamorato.
32. Album della 12 che ritieni sottovalutato? (Panic! At The Disco)
• Sembra che tutto ciò che è uscito dopo lo split della band sia considerato poco; secondo me, gli ultimi tre album sono i migliori.
33. Canzone peggiore della numero 29? (Epica)
• Potrei scrivere un trattato su quanto è oscena Twin Flames, ma This Is The Time è talmente saputella, banale, insipida e moralista che la digerisco ancora meno. Queste due canzoni sono offensive. La loro esistenza mi offende. Dov’è la Buoncostume quando serve?
34. Prima canzone ascoltata della numero 34? (Theodor Bastard)
Лилии (Белое), prima che un mix letale di Tuomassa, Piantosalidi, Prozia Livia e Lagna del Rey divorasse i neuroni e quel poco che restava del buongusto musicale della persona che me l’ha passata.
35. Album preferito della numero 28? (Brooke Fraser)
Brutal Romantic: appendere al chiodo la chitarra acustica e, soprattutto, l’ammoreh di Dio ha veramente giovato a Brooke.
36. Quante volte hai visto la numero 42 live? (Anneke Van Giersbergen)
• Oddio, non ricordo se fosse ancora sotto moniker Agua o già Anneke, ma dato che la sostanza non cambia, due.
37. C’è qualche canzone della 36 che consideri un guilty pleasure? (Sirenia)
• In mezzo alla spazzatura che è The Enigma Of Life, ho un debole per Winter Land: sembra Roberta Flack in salsa gothic metal!
38. Come hai scoperto la numero 48? (Sleepthief)
• Luisa me ne ha parlato a lungo e poi mi ha fatto ascoltare Rainy World un pomeriggio. Non la ringrazierò mai abbastanza.
39. Album preferito della numero 7? (Florence + The Machine)
• È come mettermi a scegliere fra la pannacotta, la crema catalana e il sorbetto (e sono capacissimo di mangiarli tutti e tre di seguito), ma forse Ceremonials è quello che mi prende di più.
40. C’è qualche canzone della numero 31 che ti mette nostalgia? (Woodkid)
• Un po’ tutte, visto che mi fanno pensare a Francischino. Però direi The Golden Age in particolare, un po’ per il testo che è fatto apposta, un po’ perché ora mi fa pensare a quando la ascoltavo a Firenze l’estate scorsa.
41. Canzone della 41 che non ti piaceva ma adesso ami? (Nemesea)
• All’inizio trovavo In Control una trashata commerciale; adesso è una delle mie canzoni super-catchy preferite. Ma è vero un po’ di tutto l’album.
42. Testo preferito della posizione numero 24? (Dead Can Dance)
• Considerando che metà delle canzoni sono Lisa che canta glossolalia, la scelta si restringe. Solo che i testi di Brendan sono quasi tutti magnifici, per cui è difficile. Forse The Ubiquitous Mr. Lovegrove, ma Opium? E Song Of The Dispossessed? E Amnesia? Argh!
43. Canzone più emozionante della numero 46? (Aurora)
Winter Bird. Ma è così difficile sceglierne solo una!
44. Canzone della numero 25 che ti rende felice? (The 3rd And The Mortal)
• Sembrerà impossibile, ma ce n’è una: Reflections! Quando si sono dati alla sperimentazione pura sul bistrattatissimo Memoirs hanno tirato fuori parecchia roba vivace.
45. Canzone preferita della numero 9? (Autumn)
• Questa è facile: Sychro-Minds, che è più bella del bello.
46. Primo album ascoltato della numero 37? (Gåte)
Jygri: mi sono imbattuto per puro caso in Bruremarsj Frå Jämtland ed è stato ammoreh al primo ascolto.
47. Membro preferito della numero 4? (Hurts)
• Scusa, Adam, ma Theo è uno dei miei sogni erotici dal 2011. Un threesome non mi farebbe schifo, però.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 43? (The Romanovs)
White Flag, sempre grazie a Luisa.
49. Album che possiedi della numero 20? (Kari Rueslåtten)
• Tutti tranne Mesmerized, che è praticamente introvabile a prezzi umani.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 1? (Theatre of Tragedy)
• Potrei riempire il blog parlandone (in realtà l’ho fatto), ma forse l’ultima sera a casa di Nell, passata a sfogliare il suo scrapbook dei Theatre of Tragedy, ripercorrere i suoi anni nella band e parlare un po’ dei cavoli nostri. Oh, e la colazione con la marmellata di ribes rossi che aveva confezionato lei in casa. Gesù, quella marmellata!

Monday 3 October 2016

Dieci anni di The Open Door

Il 3 ottobre 2006 usciva in tutto il mondo The Open Door degli Evanescence. Dieci anni fa. Esatto. Dieci anni. Più o meno nello stesso periodo avevo creato questo blog: mai chiesti perché l’url sia gothicdoor?
Tecnicamente, il mio personale anniversario sarebbe il 29 settembre, il giorno della pubblicazione in Italia. All’atto pratico, sarebbe addirittura il 4 settembre, quando lo leakarono in internet. Poi promisi alla Mater, anche lei fan, che non avrei scaricato e l’avremmo ascoltato insieme il giorno della pubblicazione, ma seriamente, come resistere? Gli ascolti clandestini sull’iPod dopo mezzanotte al buio sono un ricordo che mi fa sorridere, ora come ora.


Tre anni prima, Fallen era stato una rivelazione: la musica poteva essere intensa, oscura, tormentata, ed esorcizzare così tutte quelle emozioni. E nonostante scoprii che c’era musica che portava tutto ciò a un livello ancora superiore, gli Evanescence rimasero sempre lì, come oasi di catarsi in mezzo alle paturnie adolescenziali. The Open Door, se possibile, ebbe un impatto ancora più profondo, non solo nella mia vita personale, ma anche in quella artistica.


Era in quel periodo, infatti, che avevo iniziato a frequentare deviantArt e mi era venuta voglia di sperimentare un po’ con la fotocamera per creare qualcosa che comunicasse le mie emozioni, gli stati d’animo, le immagini mentali che la musica mi evocava. Le foto che Frank Ockenfels scattò per la campagna promozionale dell’album arrivarono proprio in questo contesto, quando cercavo di capire in che direzione potare la mia arte non avendo i mezzi per creare gli ibridi digitali che vedevo fare agli altri. Se non potevo mettere gli sfondi digitalmente, dovevo riempirli già nella foto e, un po’ per imitare Amy, iniziai a sparami le pose davanti a ogni porta, finestra, cancello, arco, inferriata e ringhiera mi capitasse a tiro. Manierista, non c’è dubbio, ma è così che scoprii come gli sfondi potessero contribuire a dettare il mood e trasmettere l’idea dietro la foto e ho scoperto la mia vera specialità, ovvero i ritratti ambientati.

Per il resto, l’album a molti non piacque per tutti i motivi per cui invece piacque a me: nonostante le interferenze della major e le necessità di classifica, si prende dei rischi e cerca di sperimentare e spaziare il più possibile. Meno immediato di Fallen, ma altrettanto denso di emozioni. Se solo le cose con la band si fossero fermate ad allora, quando ad Amy importava ancora qualcosa…
Ma insomma, se non altro ci sono un mucchio di ricordi associati a quest’album che posso godermi, alcuni belli, alcuni divertenti per quanto sembrano meno brutti dopo tutti questi anni.

Sunday 25 September 2016

End of the World

Now that you’re there
At the end of the world,
Tell me, how does it look?
Fire and ice, like the book?
 
Ai fini pratici di un’amicizia a distanza, non c’è una grossa differenza fra la Toscana e il Nottinghamshire: in entrambi i casi non ci si vedrebbe che un paio di volte l’anno, giorni bellissimi e molto intensi seguiti da momenti in cui ci si può solo sentire. La vera quotidianità è sui social network, in chat, a raccontarsi le rispettive vite, condividere gli interessi e immaginare i momenti in cui ci si potrà rincontrare.

I’ll feed both your cats
And I’ll water your plants,
Clean up the broken glass
While you are gone.

Per qualche strano motivo, però, il fatto che il mio migliore amico si sia trasferito all’estero mi ha lasciato un sapore dolceamaro in bocca. Da una parte sono genuinamente felice per lui, che starà meglio per tutta una serie di circostanze, avrà mille possibilità in più, si scuoterà da una situazione stagnante – anzi, sono orgoglioso che abbia deciso di fare un passo simile nonostante le incertezze che affrontare un trasferimento comporta.

You don’t have to speak,
I can see you’re still weak.
I’m glad you’re there,
But baby, please,
If you ever go back
To the end of the world…

Dall’altra, Firenze non sarà mai più la stessa. I musei, le piazze, i portici, il bar della Feltrinelli, gli autobus con i mancati investimenti, l’arrivederci la sera in stazione – tutto si tingerà di una luce nostalgica. Ed è vero, prendere un Intercity o un RyanAir da Trieste non è poi così diverso in termini di tempo, stanchezza, organizzazione o soldi.  Ma è anche vero che il mio migliore amico ora vive dall’altra parte d’Europa. Con un cellulare inglese, il fuso orario inglese e al quadruplo della distanza da me. E penso a quanto io sia stato stupido a non saltare su un treno per andarlo a vedere più spesso finché potevo.
Francamente, ora vorrei tanto fare un salto in Inghilterra, anche solo per assicurarmi che stia sorridendo.

…Darling,
Take me.

(Il testo, leggermente riadattato, è di una canzone di Carice Van Houten. Quella Carice Van Houten. Sì, Melisandre di Game of Thrones ha pubblicato un album ed è pure ottimo: un ascolto non guasterà.)

Tuesday 20 September 2016

Stuck on Stucky

Di solito, essere single non mi dà particolare fastidio: mi lascia un sacco di tempo da dedicare a me stesso (anche troppo: overthinking, anyone?), seguire le mie passioni e cercare di sbrogliare il casino che ho in testa. Ci sono momenti, però, in cui la cosa mi frustra oltremodo – ed è quando la solitudine mi mette i bastoni fra le ruote proprio nel seguire le mie passioni.
Textbook case: dopo la maratona di film Marvel di qualche mese fa, sono sprofondato fino ai gomiti nella Stucky (la ship di Captain America e il Soldato d’Inverno); ora che è uscito in DVD Civil War, che può riassumersi in “Gli Avengers si pestano per il ragazzo del Cap”, ci sono ricascato con tutti i piedi e mi piacerebbe da matti portare un cosplay di Steve e Bucky a Lucca, prima o poi, facendo tanto, tanto, tanto fanservice (ovviamente faremmo la versione Anni Quaranta pre-siero, visto che al massimo ho il fisico di Steve mingherlino). E non è una cosa che mi va di fare, per dire, con un amico con benefit: sarebbe più divertente ed emozionante da condividere con qualcuno per cui nutro un sentimento più romantico. E se scoperchiamo quel vaso di Pandora che è la lista delle foto che voglio fare con un fidanzato, beh, non finiamo più.

Sì, guardo i film Marvel come film romantici. Problemi?

Spiegare il mio “problema” alle persone normali, che amano col cuore e non con la testa, per cui i sentimenti sono travolgenti e non funzionali ad altri aspetti della loro vita, è un po’ complicato e richiede una premessa.
Essendo paranoico, soffro di un disagio estremo per lo stereotipo del fottografo marpione, quello che ti propone di fare foto ma in realtà vuole un pompino. È un atteggimento che disprezzo dal profondo, per cui, al momento di scattare con un perfetto sconosciuto, mantengo le cose il più asettiche possibile. Poi, per carità, possiamo benissimo fare amicizia, magari anche uscire insieme, ma a foto fatte, postprodotte e pubblicate: fino a quel momento, il rapporto è strettamente professionale, arrivederci e grazie. È anche per questo che preferisco far posare amici: c’è fiducia reciproca, il problema non va a porsi e non finisco a farmi paranoie su che idee si faranno delle mie intenzioni. Per cui, se da una parte sono categorico nel non far colare il mondo fotografico in quello privato, non ho problemi e, anzi, amo fare il contrario.

Del resto, il soggetto di una foto è tutto nell’occhio del fotografo: uscirà come lo percepisce chi manovra la fotocamera (ed è per questo che, ad esempio, chiunque, ma proprio chiunque, uomo o donna, posi per Terry Richardson sembra una mignotta). Certe foto che ho in mente, per come le ho immaginate, richiedono che io provi una forte attrazione o addirittura un coinvolgimento emotivo verso il mio soggetto, perché quello è l’unico modo che ho per trasmettere genuinamente le emozioni che voglio che abbiano. Il soggetto deve essere desiderato, amato, venerato e, perché lo sembri sull’immagine, deve esserlo innanzi tutto nella mia testa.
Non parliamo, poi, delle foto di coppia che ho in mente: alla meglio, deve esserci una tensione erotica o emotiva reciproca; alla peggio, ci si deve spogliare insieme. Anche qui, l’amico fotogenico con benefit potrebbe essere una soluzione, ma sono dei concept talmente importanti per me che non voglio buttarli lì tanto per, senza vivere appieno l’esperienza. Sono foto che hanno bisogno di una genuinità che due modelli a caso, o due amici che scopano, non potrebbero mai trasmettere. Men che meno se devo posare anch’io, che difendo il mio spazio personale con unghie e denti e non mi metterei mai abbastanza a mio agio da farle funzionare.
C’è poi il fatto che mi scoccia chiedere favori; odio sentirmi in difetto. Andando a scattare con un ragazzo con cui sto non avrei il problema, perché i suoi sentimenti mi darebbero un vantaggio da sfruttare per bypassare le mie paranoie. Avrei modi concreti per ricambiare il favore (non necessariamente quelli che state pensando, maliziosi) e, nella mia testa, sarebbe più facile venirsi incontro.

Per cui, riassumendo, di condividere la vita quotidiana con qualcuno, onestamente, fottesega: anzi, è una prospettiva che mi inquieta un po’. Ma, per forza di cose, ho bisogno di qualcuno con cui condividere almeno parte della mia vita artistica perché abbia la profondità emotiva che cerco. La cosa diventa particolarmente frustrante man mano che nuove idee si aggiungono all’ormai chilometrica lista che ho fatto: l’ultima è Eternal degli Evanescence, che non riesco più ad ascoltare senza sbuffare perché continuo a trovarmi davanti agli occhi il trittico di foto che mi ispira e mi secca da morire non avere i mezzi per farlo. E non parliamo nemmeno di Ten Love Songs di Susanne Sundfør, su cui ho pianificato un’intera serie. Non è un caso se nelle varie app come nick ho titoli di sue canzoni: mi sono iscritto nella speranza di trovare materiale per fare quelle dieci dannate foto.
So che come discorso sembra abbastanza cinico, ma considerando l’importanza che l’arte ha per me a livello umano, e che è il filtro attraverso cui processo le mie emozioni, se trovo un partner artistico in qualcuno dal mio punto di vista significa che le cose si fanno davvero serie.

Sunday 18 September 2016

La vita in campagna è sopravvalutata

A me la vita agreste fa schifo. Sarà un’opinione impopolare, ma è così: bella la campagna, nulla da dire… a piccole dosi, una volta ogni tanto. L’unica cosa che apprezzo davvero delle comunità rurali è che la frutta e la verdura sono molto più buone che in città, per il resto grazie ma no, grazie.
E francamente non è nemmeno un atteggiamento che ho acquisito mentre, crescendo, l’establishment ha avuto il tempo di avvelenarmi la mente con consumismo, regole sociali artificiali e le altre scemenze che i fricchettoni gli rinfacciano: la mia infanzia ha preceduto di molto la diffusione di computer e cellulari, e perfino i videogiochi erano rarissimi nel paesino in cui vivevo. Eppure, già da piccolo non mi piaceva sporcarmi di sudore, rotolarmi nella polvere, chiazzarmi di fango e urlare come un forsennato: sono sempre stato più il tipo da Lego sul tappeto, vinile o musicassetta nell’impianto hi-fi e libro da leggere in poltrona. E quell’oretta e mezza di tv quando c’erano i miei cartoni preferiti. Sono proprio uscito dalla fabbrica con il gusto per le comodità moderne, e ciò non ha minimamente handicappato la mia fantasia, il piacere del gioco, o la voglia di conoscere ed esplorare il mondo.

Io a quattro anni: bei vestiti, poltrona in broccato e LP di Bach.

Per questo, da ex-bambino, nutro qualche dubbio sulle implicazioni dello stile di vita che la signora Niki Boon, ex-fisioterapista-ora-fotografa neozelandese, ha scelto per i suoi figli. Da “collega” a “collega”, trovo le sue foto spettacolari sia per tecnica, sia per espressività: i bianchi e neri sono fantastici, le messe a fuoco e le prospettive perfettamente riuscite, e la storia che vuole raccontare, il messaggio che vuole trasmettere, si intuiscono perfettamente. Anzi, francamente li tollero pure bene: non è quella glorificazione fine a se stessa delle piccole banalità quotidiane, la ricerca della dignità artistica del mondano e triviale che gli hipster usano per fingersi sensibili e intellettuali; no, Niki crede davvero in quello che fa, per questo non risulta un vuoto esercizio di concetto. Io non riuscirei a fare delle foto del genere perché non vedo nulla che valga la pena immortalare nella quotidianità, e un po’ invidio il suo punto di vista.

Ciò che non invidio è, invece, l’infanzia da favola che sta regalando ai suoi figli – almeno per come la presenta sul suo sito. Perché siamo realisti: a meno che non si prospetti loro un futuro da agricoltori di sussistenza nel loro microcosmo dorato, riderò molto per lo shock culturale quando dovranno rientrare in un mondo ancora più tecnologico di quello odierno senza averne esperienza. Perché è vero, io ho trascorso un’infanzia non tecnologica e poi ho imparato comunque, ma è anche vero che buona parte della tecnologia che uso oggi è nata e cresciuta assieme a me, e io ho imparato a usarla con la stessa gradualità con cui si diffondeva. Questi bambini invece avranno decenni di progresso tecnologico sconosciuto. In un mondo che va sempre più veloce, ci si può illudere quanto si vuole di potersi ribellare rallentando e guardando dall’altra parte, ma la verità è che si finisce solo per restare indietro. Per quanto la tecnologia stia realmente diventando troppo invasiva e io stesso faccia fatica a capire cosa se ne facciano di uno smartphone ultimo modello i bambini delle elementari, la soluzione non è rinunciare del tutto alla modernità, è trovare il giusto equilibrio fra la passeggiata all’aperto e i giochi in casa, il buon libro e il cartone animato, il videogioco e il gioco pratico.

Per concludere, mi sono imbattuto nei lavori di Niki su questo articolo, la cui parte migliore sono i commenti di quelli che vagheggiano la magia, la bellezza e la genuinità della vita agreste a contatto con la terra, lontano dal veleno della modernità… scrivendo dai computer o dagli smartphone.
Perché guardiamoci in faccia e diciamoci la verità: la vita agreste fa schifo a tutti. Niki Boon l’ha presentata come l’alternativa migliore per e, almeno secondo lei, per i suoi figli. Scommetto che, dopo un giorno e mezzo di isolamento in campagna, a tutti quelli che osannano quello come lo stile di vita universalmente migliore mancherebbe la comodità di comunicare in qualsiasi momento serva, o avere ogni informazione a portata di mano, negozi e ristoranti vicini, poter chiamare il takeaway se una sera non si ha voglia di cucinare… e urlare la loro inutile opinione comodamente seduti dietro il computer o con lo smartphone in mano. Perché è grazie a internet e alla tecnologia che hanno scoperto la bellezza di essere unici, inimitabili, sempre controcorrente e sempre su un palco da cui parlare. Perché è bello essere piccoli fiocchi di neve che spiccano nell’alienante massa umana che è la società moderna, uniformata ancora di più da Internet, ma tutti continiuamo ad approfittarne quando ci fa comodo (ovvero tutte le ore di tutti i giorni).
La verità è che, in mezzo alla natura e senza tecnologia, comodità e convenzioni, chiunque di noi sarebbe perso.