Sunday 17 January 2016

Nostalgia per qualcosa di mai vissuto

A volte mi chiedo se, esteticamente parlando, la nostra sia davvero un’epoca così brutta o se, invece, siamo talmente assuefatti alla quotidianità da non vederne il fascino; magari, ciò che rende così bello il passato è semplicemente la nostalgia per qualcosa di lontano che non potremo mai vivere.
Come fotografo ho una specie di culto per l’ordine e il vuoto: nella mia immagine ogni cosa deve seguire lo schema che imposto io; di conseguenza, la folla e ciò che ne deriva (traffico, sporcizia, movimento) va eliminata, tagliata fuori dall’immagine. Nelle foto che creo c’è posto solo per la mia visione, il soggetto che ritraggo e lo spazio (privo di tempo) in cui lo colloco: la folla è una massa caotica e informe che distrugge i miei parametri estetici. Tranne in rari casi, non riuscirei a uscire per strada e scattare delle istantanee di una via trafficata o di un luogo affollato (a meno che il caos non sia funzionale al concept).
Eppure, quando vedo foto d’altri tempi… non lo so, succede qualcosa e il cuore mi si riempie di meraviglia. E non mi riferisco nello specifico ai ritratti posati, ma anche e soprattutto alle istantanee di vita quotidiana: le foto delle strade, le macchine, la gente che si affaccenda o passeggia, perfino i cantieri… sono degli scorci che, potendo, avrei fotografato volentieri.
The Pretty Girls of Leicester di Bert Hardy, 1948.
Da qui il mio dilemma: com’è possibile che lo stesso soggetto oggi mi dia fastidio mentre nel passato mi affascini? È un problema che sta tutto nella mia testa? Se provassi a guardare meglio, troverei lo stesso fascino anche nel traffico e nella vita urbana odierni?
Beh, è capitato: il traffico di Praga sullo sfondo del Tančící Dům, o la folla di turisti sul Karlův Most, mi hanno ispirato moltissimo. Ma sono eccezioni, perché per il resto, con la dovuta pazienza, creo foto in cui Praga, Milano, Trieste, perfino Venezia, sono città vuote, monumenti architettonici non toccati da una presenza umana umana attuale. Niente persone, niente macchine, niente chewing gum o filtri di sigarette o cartacce a terra (spesso per merito di Photoshop). Nelle mie foto, cartelli stradali e numeri civici spariscono da davanti a palazzi d’epoca, gru e impalcature dalle silhouette delle costruzioni, mentre una foto del cantiere dell’Atomium nel 1958, con tanto di operaio, mi manda in visibilio.
Da una parte è vero: l’attrezzatura dell’epoca non era quella di oggi. Tralasciando le inevitabili distorsioni (il tipo di obiettivo usato, di luce ambientale, ma anche la percezione del fotografo), l’equipaggiamento che abbiamo ora ci permette di rappresentare il mondo circostante nel dettaglio e con molta precisione. All’epoca, il bianco e nero, la grana delle pellicole, gli obiettivi meno precisi mascheravano molte imperfezioni, riducevano alcuni dettagli a semplici forme, uniformavano il caos cromatico dei vestiti e ammantavano perfino la realtà quotidiana di un certo romanticismo. Per  cui è lecito pensare che il mondo non si sia imbruttito, semplicemente ciò che vediamo del passato attraversa un filtro che lo rende più gradevole.
Ma poi, è anche vero che l’ambiente urbano odierno è alquanto diverso da quello di sessanta o settant’anni fa. Tanto per cominciare, siamo molti di più: le strade affollate dell’epoca sono quasi vuote rispetto a quelle odierne, e meno elementi significano più ordine. Senza contare che più persone producono più sporcizia e anche questo contribuisce al senso di caos in cui viviamo. Per non parlare del traffico: le macchine, in movimento o parcheggiate, erano poche e arricchivano lo scorcio, oggi invece sono tantissime e costituiscono vere e proprie barriere che occludono la visuale. Sia le persone che i loro veicoli e rifiuti oggi sono in una tale quantità che, invece che arricchire il paesaggio urbano, lo dominano e soffocano completamente.
E poi ammettiamolo: in passato eravamo più stilosi. Le auto avevano forme più eleganti, così come i vestiti casual erano molto più armoniosi. Se un tempo si indossavano ogni giorno quei cappotti che oggi riserviamo alle occasioni speciali e creano belle geometrie, oggi è più probabile imbattersi in una felpa informe, un orribile bomber, colori sgargianti (spesso male assortiti su una stessa persona) e pettinature informi: tutte cose ben poco invitanti, dal punto di vista fotografico. Ma basta guardare, ad esempio, le uniformi militari, confrontare quelle d’inizio Novecento con quelle odierne.
E che dire della pubblicità? Dall’avvento della società del consumo è diventata onnipresente. Ma sia i poster pubblicitari, sia le insegne di un tempo erano eleganti, curati, spesso vere e proprie opere d’arte. Oggi invece la pubblicità è aggressiva e soffocante, con insegne luminosissime e poster sgargianti che sembrano enormi parassiti sulle architetture che li ospitano. Se nella Galleria Vittorio Emanuele II ogni insegna è vincolata a un preciso schema di colori che la rende relativamente poco invasiva, nel resto del mondo è l’opposto, è un affastellarsi di caos, colori violenti e forme pacchiane che non tiene minimamente in conto il resto del paesaggio urbano.
Forse la chiave del dilemma è proprio questa: alla fin fine, il cambiamento della pubblicità riflette quello del gusto generale. Allora è vero che, al crescere del caos perché ci sono più persone, si è aggiunto un progressivo imbruttimento dei gusti estetici sociali con una tendenza all’esagerazione e al disordine. Ed è quindi vero che viviamo in un’epoca brutta in cui la quotidianità uccide il gusto artistico invece che stuzzicarlo.

Ok, questo è un mucchio di riflessioni random sulla scia di una mostra storica e fotografica dedicata alla Trieste della Prima Guerra Mondiale. La storia si porta sempre dietro un po’ di nostalgia per qualcosa di mai vissuto.

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