Tuesday 21 June 2016

Tenere assieme i pezzi

È stato calcolato non ricordo da chi che una bugia che viene detta su quattro è “sto bene”. Statisticamente è anche la più usata, più del doppio della successiva, ed è una risposta talmente automatica alla domanda “Come va?” che spesso, quando anche c’è il desiderio di essere sinceri e raccontare cos’è che non va, si finisce per dire che va “tutto bene” e ci si corregge un secondo dopo.

Personalmente, sono un maestro nell’interagire socialmente col sorriso sulle labbra mentre sto morendo dentro. Oggi, ad esempio, eccomi in giro per Milano a fare commissioni, sorridere alla bigliettaia, al controllore, alla signora che mi chiede qual è la prossima fermata, fra un po’ al commesso dell’Unieuro dove sto andando d’urgenza, mentre sento davvero i pezzi che cadono uno dopo l’altro da sotto le costole e vorrei solo buttarmi in un angolo a fissare il vuoto mentre tento, probabilmente col solito, scarso successo, di farmi un bel pianto per buttare fuori un po’ di negatività. Tutte queste interazioni sociali di cui farei a meno sono, purtroppo, obbligatorie: mi si è guastato il caricabatterie della fotocamera e sto facendo un viaggio per cacciare fuori cinquanta euro che mi sarei volentieri tenuto per sostituirlo (e sì, ciò ha sicuramente contribuito al malessere).

Piuttosto, è interessante vedere come io non faccia nulla per evitare tutte le interazioni sociali non indispensabili. Bardato di auricolari e muso lungo, le probabilità di essere contattato in treno sono scarse, a parte il controllore e la signora della fermata; invece, eccomi attaccato allo smartphone a commentare in allegria l’ultimo episodio di Game of Thrones sotto stati altrui, come se fossi davvero dell’umore di scambiare battute su quanto sia paraculata Daenerys o su quanto Ramsey Bolton sia dell’ottimo cibo per cani. O, ancora meglio, riempire di quory i commenti sulla ship di Sansa e il Mastino. Da una parte è vero, almeno così mi distraggo dall’ennesimo contrattempo invece che rimuginarci sopra per i quaranta minuti di andata più altrettanti di ritorno, ma interagire normalmente con le persone in un momento in cui mi sento profondamente anormale è faticoso. Davvero, davvero faticoso. E potrei evitarmelo almeno in parte.

Ancora più incomprensibile è perché vada deliberatamente a cercarmi interazioni che sono ancora più faticose e, nella maggior parte dei casi, direttamente spiacevoli aprendo Romeo e Grindr: non sono nemmeno dell’umore per rifarmi gli occhi con le offerte locali, rischio solo di fare effetto carne fresca e attirare le attenzioni del solito stuolo di gente ben oltre i limiti di età, o di ragazzi decisamente al di sotto dei miei standard, o – ancora peggio – ragazzi carini ma con cui non combinerò nulla perché non ho letteralmente mezzo minuto di tempo da buttare a questo giro. È un po’ l’abitudine, forse: esaurite le foto nuove su Instagram e le notifiche su Facebook, pur di non restare solo coi miei pensieri il dito va automaticamente ad aprire le app.

Beh, non ho comunque tempo di riflettere su questa mia forma di masochismo da socializzazione: sono quasi a Repubblica. Magari faccio un salto in Buenos Aires a prendermi un gelato: un po’ di comfort food non può che fare bene.

Sunday 12 June 2016

Senza veleno

Ci sono persone con cui è bello condividere una gioia perché ti vogliono bene e tu ne vuoi loro: quando stai scoppiando d’entusiasmo, sai che a loro farà piacere saperlo e, anzi, probabilmente se ne lasceranno contagiare.
Ci sono persone con cui è bello condividere una gioia perché la possono capire: magari riguarda una passione comune ed è quella che dà loro il senso dell’enormità di quanto è successo, fa capire loro perché una gioia è tale.
Ci sono persone con cui è bello condividere una gioia perché ti conoscono talmente bene che, anche se non condividono la passione per quel che è successo, sanno quanto è importante per te e ne sono felici in maniera totalmente disinteressata.
Ci sono persone che sono una combinazione delle tre cose: condividono l’entusiasmo per quel che è successo, sanno quanto conta per te e la tua gioia fa loro piacere.

Ci sono persone con cui è bello condividere una gioia perché le disprezzi: ti piace sbattere loro in faccia la tua felicità perché sai che rosicheranno e la cosa ti provoca un immenso piacere. È bello che, ogni tanto, le cose ti vadano meglio che a loro, ed è bello ridacchiare dei loro tentativi di sminuire la notizia.
E poi ci sono persone che disprezzi, ma con cui non condivideresti mai una gioia. Nemmeno per farli sentire dei poracci. Sai che sono persone talmente antipatiche che rosicherebbero proprio come vuoi tu, sei già pronto al pelo nell’uovo che troverebbero, o sai che farebbero un sorrisetto di circostanza, annuirebbero e si concentrerebbero invece sul parlare di quanto a loro le cose invece vanno male. Ma sono talmente negative, talmente velenose, che hai paura che la loro sola presenza potrebbe infettare la tua gioia. Che il solo farli entrare in contatto con qualcosa di tanto puro, luminoso, sacro, rischierebbe di corromperlo, a prescindere da ciò che possano dire o fare.

Resistere alla tentazione di trasformare una gioia in un trionfo sulla pelle qualcun altro è difficile, ma a volte è indispensabile: semplicemente, è bello godersi un momento di positività senza che nulla possa comprometterlo.

E quando ti rendi conto che hai una di queste persone vicine… fuggi. Fuggi e non voltarti indietro.

Saturday 11 June 2016

Stanza vuota

Room by GothicNarcissusI will keep this lonely room
Empty for you, empty for you.
I will leave everything
Unchanged, unaffected.
Everything will stay the same,
Nothing’s ever gonna change.

Forever, I will keep this room
Empty for you, empty for you.
I will leave the streetlights on,
Shining for you, shining for you.
I will sing the songs we knew
Just to feel close to you.

I’ll write your name
In my sacred scripture,
As if you were still
A part of the picture.

I’ve seen the picture on the wall
Falling down on the floor,
Breaking into a thousand pieces
Near my feet, and I bleed.
Gluing back the picture frame,
Putting it back on the nail on the wall.

I will keep my heart undressed,
Open for you, open for you,
The empty space which you left
In my chest, in my chest,
And I will sing the songs we knew
Just to feel close to you.

[ Room – Eivør ]
 
È vero: non c’è nulla, nel mondo reale, che possa competere con un sogno. È anche vero che, in alcuni momenti, il mondo reale non ci prova nemmeno. Tipo negli ultimi quattro anni: è facile affezionarsi a un sogno e lasciargli spazio nel tuo cuore se non c’è nessuna, e dico nessuna valida alternativa. D’altra parte, non posso nemmeno dire che lo sto inseguendo, questo sogno: svegliarmi sarebbe troppo brutto. Mi basta semplicemente stringermelo contro mentre mi addormento.
Onestamente, non mi aspettavo, né desideravo, che questa canzone diventasse la descrizione di una mia piccola ossessione, o che un mio autoritratto sentimentale avesse quest’aspetto, eppure eccomi qui, con Tumblr e Facebook che mi ricordano che è quattro anni fa che mi sono perso in una foto.
Ma poi, chi me lo fa fare, di ritrovarmi e lasciarla andare?

Sunday 5 June 2016

Brutal romantic

We here have been brutalised with loss; it has made us brutal in return. There is no going back from this moment.
[ Vanessa Ives – Penny Dreadful ]

Se c’è una cosa che mi ha accompagnato per tutta la visione di The Martian è stata la certezza che qualcuno non sarebbe sopravvissuto al film. Magari Sean Bean – già mi immaginavo il suo personaggio stroncato da un infarto per la tensione di gestire la missione di recupero da Terra, giusto per non smentirsi. Tralasciando Matt Damon, la cui morte dopo un intero film su come farlo sopravvivere e riportarlo a casa sarebbe stata anticlimatica, ero certo che qualche membro dell’equipaggio non ce l’avrebbe fatta. Ero pronto a scommettere su Sebastian Stan, perché gli gnocchi che mi piacciono hanno vita breve e, soprattutto, perché è stato l’unico ad avere interazioni romantiche on screen: la tenerezzza con Kate Mara era un potenziale preludio a lui che finiva alla deriva nello spazio mentre tentava di ripescare Matt Damon e lei che restava da sola a piangerlo. Quando tutti, ma proprio tutti sono arrivati a fine film, mi è cascata la mascella.
Stessa cosa dicasi del finale di stagione di Supernatural, in cui mi aspettavo che Amara-The Darkness sarebbe morta malamente, probabilmente sacrificandosi per salvare suo fratello Chuck-Dio, dopo che si sono presi tutto il tempo per mostrare un lato inaspettatamente umano di quella che doveva essere la forza del male suprema. O prendiamo le reazioni a Captain America: Civil War: c’è gente che è rimasta sorpresa che non sia morto nessuno, né Cap come nei fumetti, né Bucky che era un ottimo candidato (povero Sebastian Stan!), né War Machine che ha fatto una caduta di qualche centinaio di metri. Tralasciando i paragoni con il fumetto e le morti che ci si aspettava da lì (persone, sul serio: film e fumetti sono due continuità diverse, fatevene una ragione), mi sorprende che il fatto che tutti gli Avengers & friends siano sopravvissuti sia un big deal.
Da qui la domanda: siamo davvero così abituati alla tragedia su schermo che a farci rimanere di sale è quando le cose vanno per il meglio?

Faccio una premessa: da una parte, ammetto che è la mia ignoranza cinematografica a parlare e spingermi a considerare analoghi due formati profondamente diversi – quello della serie tv e quello del film – semplicemente perché guardo entrambi svolgersi su uno schermo.
Una serie tv ha bisogno di uccidere dei personaggi, vuoi per ragioni off-screen (contratti, disponibilità, salute degli attori), vuoi per la lunghezza della storia, che esaurisce la funzione di certi personaggi o richiede la creazione di nuovi conflitti per andare avanti. Se guardi una serie tv, hai la certezza che prima o poi qualche personaggio a cui tieni morirà – e quando ciò avverrà, sarà devastante, perché il formato ti ha dato anni per affezionartici e non avrebbe senso farlo uscire di scena in una maniera non emozionante. Per cui, la mia percezione di una morte sempre in agguato sullo schermo è probabilmente influenzata dal fatto che guardo più serie tv che film, e magari nei film è un po’ meno comune.
C’è poi una certa parzialità di genere: cinematograficamente sono onnivoro e vado da film che più hipster non si può a blockbusteroni hollywoodiani, ma preferisco le storie con un sottotesto drammatico perché sono emotivamente più soddisfacenti; ovviamente, più dramma vuol dire più tragedie. Sulle serie tv la parzialità è ancora più evidente visto che, tralasciando serie come La Signora in Giallo e Poirot in cui l’omicidio è parte integrante della trama di ogni episodio, la cosa più vicina a una commedia che guardo è Scream Queens che, BEH.

Resta però il fatto che viviamo in un mondo in cui Game of Thrones è la serie di maggior successo degli ultimi tempi. E Thrones fa della tragedia sempre dietro l’angolo un caposaldo: nel momento in cui ci si concentra su un personaggio secondario, possiamo stare certi che morirà presto. E il modo più rapido per renderne la morte significativa è proprio investire emotivamente sul personaggio: vedesi Shireen Baratheon nella scorsa stagione. Thrones sta diventando un po’ la regola della fiction drammatica su schermo e ci ha talmente brutalizzati che ormai è quella che ci aspettiamo. Ed è vero, è un adattamento letterario e segue una trama molto sanguinaria, ma aggiunge molto di proprio.
Ma basta vedere le differenze fra uno Streghe e un Supernatural per notare come la fiction su schermo è progredita: premessa di base simile – una famiglia che lotta contro le forze del male – ma in Streghe, terminato nel 2006, la morte dell’innocente era l’eccezione in circostanze straordinarie, in Supernatural, iniziato l’anno prima, è molto più comune. Non parliamo poi di American Horror Story e Penny Dreadful, sanguinolenti per forza di cose, o perfino Doctor Who con i suoi eccidi una puntata sì e una no, mentre perfino una serie drammatica come Buffy si conservava le morti strappalacrime per momenti importanti.
Ormai, se non sto guardando una commedia, nel momento in cui a un personaggio secondario viene data una certa rilevanza mi preparo già a non affezionarmici perché probabilmente morirà e non voglio starci troppo male – soprattutto se è una sottotrama sentimentale. Porca miseria, perfino la Disney nel 2009 è riuscita a uccidere uno dei buoni in un film delle principesse (Ray in Princess And The Frog) senza che la cosa avesse un legame diretto con la trama!

Onestamente non so bene che conclusioni trarre da tutto ciò: di sicuro, la fiction che produciamo riflette la nostra società e bla bla, quindi è probabile che siamo davvero talmente rassegnati alla perdita da considerarla normale e onnipresente; pretendiamo realismo dai nostri racconti perché abbiamo rinunciato anche solo all’illusione di un lieto fine. O forse abbiamo talmente paura del dolore, emotivamente fragili come siamo diventati, che lo esorcizziamo in forma fittizia, come un veleno assunto a piccole dosi per immunizzarci – del resto, esocrizzare le paure è sempre stato uno degli scopi della narrativa. Cioè, c’è gente che si lamenta che, dopo una stagione di stragi, American Horror Story dà ai superstiti un lieto fine, in un modo o nell’altro: ragazzi, che problemi avete?
Personalmente, mi piace vedere un lieto fine, anche non agrodolce, ogni tanto. Anche se poi nella vita reale le cose non vanno mai davvero bene: almeno quel piccolo momento di felicità di seconda mano me lo godo volentieri.