Monday 26 December 2016

Suonare una Fiat Panda

Un giorno smetterò di farmi del male riguardando le scene di Margaery Tyrell della sesta stagione di Game of Thrones e, soprattutto, ascoltando a ripetizione Light Of The Seven, la magnifica colonna sonora dei terribili (e bellissimi) primi venti minuti del season finale. Ma dato che quel giorno non è oggi, ho deciso di esplorare il Tubo in cerca di reinterpretazioni del brano, giusto per variare un po’ gli ascolti. Non ne ho pescata nemmeno una che gli rendesse giustizia ma, in mezzo al mare di beat buttati a casaccio e archi campionati, questa cover in particolare mi ha infastidito un po’.


E ok, non ha nulla di tragicamente sbalgiato: sfiora tutti i temi principali del brano (compresa la seconda parte, spesso ignorata per l’eccessiva complicatezza) e, al massimo, è un po’ troppo frettolosa e semplicistica. Tecnicamente, per quel poco che me ne intendo, il chitarrista sembra anche piuttosto preparato, nulla da dire. Ma il motivo per cui per me è rimasta impressa come deludente è proprio lo strumento usato, la chitatta acustica.
A questo punto, ritengo utile ripescare e ampliare una conversazione di un paio di mesi fa in cui riassumevo i motivi del mio scetticismo nell’affrontare l’eponimo del 2004 di Eivør basandomi su… la copertina, piuttosto esplicita circa la direzione musicale dell’album.

Così ad occhio e croce potrebbe esserci parecchia chitarra acustica.
La chitarra acustica è lo strumento che mi piace di meno. Sarà che la strimpellano (male) cani e porci, specie in occasioni che detesto tipo scampagnate, festicciole fatte in casa, riunioni di oratori eccetera; ma anche in contesti professionali o mi irrita o, per la maggior parte, mi annoia. Le eccezioni sono piuttosto rare. Con la chitarra elettrica è diverso: alle mie orecchie passa per lo più inosservata, una base su cui si costruisce l’intreccio degli strumenti davvero interessanti, e occasionalmente devo tollerare il noioso assolo d’obbligo nel metal, ma non mi annoia in maniera attiva e irritante come la chitarra acustica.
Probabilmente, nella mia testa è associata alla rozzezza, specie perché chiunque sappia come pizzicare le corde ti farà i quattro accordi de La Canzone del Sole e ci sarà subito il gregge di pecore che parte appresso col “NAAAA NAAAA, NA-NA-NAAAA NA-NAAAA” con le vocali spalancate. Insomma, sono quelle occasioni sociali che mi fanno desiderare di essere dall’altra parte del globo.
 Che poi, a pensarci bene non amo particolarmente nemmeno buona parte degli strumenti a fiato: il flauto dolce per colpa della supplente di musica delle medie, le trombe prese da sole perché fanno troppo musica latino-americana cheap, il sassofono perché fa sitcom Anni Novanta, gli strumenti tradizionali del country americano tipo banjo e armonica a bocca fanno redneck… ma è un’impressione più facile da scacciare perché, superato il primo impatto, il contesto in cui suonano è subito diverso e me ne rendo conto. Perfino la fisarmonica, insopportabile quando suonata per l’antipatico ballo sardo, in altri contesti la adoro (side note: checché si pensi del ballo in sé, le melodie sono oggettivamente uno stracciamento di palle unico). Ma se una canzone è solo chitarra acustica e voce, non c’è scampo: a meno che non miri a un effetto ben particolare, di solito diventa la mia traccia “skip” nell’album. È più forte di me. Ecco, magari un arpeggiato lo riesco a tollerare e, a volte, perfino godere, ma la semplice successione di accordi strimpellata dietro una voce è la no-ia.
Ed è vero, anche altri strumenti sono piuttosto sputtanati: vedesi il pianoforte con l’immancabile (e odiosissima) Per Elisa, o i violini che vengono infilati come collante per tenere assieme qualsiasi motivetto banale, o l’elettropop negli ultimi tempi. Ma sono tutte cose che si trovano all’interno del mondo della musica, perché un pianoforte costa, un violino pure, anche un buon synth, e il poraccio di turno non li andrebbe a comprare solo per strimpellarli a tempo perso. Nonostante tutto, conservano quell’alone un po’ più “accademico”, così come gli strumenti più moderni hanno quel che di “sperimentale”. La chitarra invece è cheap, la puoi comprare ovunque, portare ovunque, chiunque pensa di poterla maneggiare… e ho già detto che è cheap? Alla fine si riduce a quello.
Poi ovvio, a livello professionale è uno strumento di tutto rispetto e c’è anche chi la studia e ne è virtuoso. Ma nella mia stesta restano l’equivalente di un pilota bravissimo che riesce a fare i miracoli al volante… di una Panda.

(Per amor di cronaca, alla fine Eivør era molto più godibile di quel che temessi. Almeno nelle canzoni scritte o co-scritte da Eivør. Poi ci sono quelle scritte da Bill Bourne, melodia e testo, con tanto di contributo vocale: il mix di buonismo preconfezionato, accordi banali, la sua terribile voce caprina e, appunto, la chitarra acustica mi fa mettere le mani nei capelli.
Non a caso, Bill Bourne è un “cantante”, musicista e compositore specializzato in chitarra che proviene da un background rurale; poteva comporre qualcosa all’altezza della sofisticatezza di Eivør?)

Monday 19 December 2016

Alghero, città di cacca

Io ogni volta che torno ad Alghero.

Alghero, ridente cittadina turistica del Nord-Ovest Sardegna, conta, arrotondando per eccesso, circa 44.000 abitanti. Trieste, capoluogo del Friuli-Venezia Giulia e porta d’accesso alla Penisola Balcanica, ne conta, sempre arrotondando per eccesso, circa 205.000. Facendo i calcoli, Trieste ha più di quattro volte e mezza gli abitanti di Alghero.
Consideriamo, fra i dati, che la densità abitativa di Trieste è più di dodici volte quella di Alghero; supponiamo ora, per facilità di ragionamento, che il rapporto fra gli abitanti umani di Alghero e Trieste sia applicabile anche agli abitanti canini. Diciamo quindi che, se Alghero ha meno di un quarto degli abitanti di Trieste, ha anche meno di un quarto dei suoi cani, con un dodicesimo della densità sul territorio.
Com’è possibile, quindi, che i marciapiedi di Trieste siano virtualmente privi di deiezioni canine a confronto del campo minato che sono quelli di Alghero?

Ho iniziato a farci caso da quando gioco a Pokémon Go – soprattutto in compagnia: da solo sono abbastanza multi-tasking da prestare attenzione a dove metto i piedi, ma in compagnia ho paura che gli altri siano distratti e non facciano caso a dove mettono i loro. Fatto sta che le volte in cui ho improvvisato una schivata o ho dovuto tirare Giulia per un braccio a Trieste si contano sulle dita di una mano; le volte che ho schivato oppure ho dovuto avvisare Beatrice o la Mater di una cacca di cane sul loro percorso ad Alghero sono innumerabili.
Ho iniziato a farci caso anche fuori dal gioco; un pomeriggio ci ho proprio prestato attenzione deliberatamente: ora, non dico che i marciapiedi di Trieste siano del tutto lindi e pinti, ma il numero di cacche di cane che ho individuato è irrisorio in confronto a quello che ho osservato ad Alghero nel giro di un pomeriggio – con la differenza che a Trieste ho coperto un’area persino più grande. Fra l’altro, ad Alghero non è nemmeno un fenomeno limitato a un quartiere particolare – per dire, è un singolo proprietario con molti cani grossi ed è lui a fare tutto il lavoro: è proprio diffuso capillarmente sul territorio.
Qual è il significato di questi dati? Gli Algheresi sono dei grandi cinofili mentre Trieste è un avamposto della conquista del mondo da parte dei gatti e tutti i cani sono stati banditi dal territorio comunale? Trieste ha un servizio della nettezza urbana capace di intervenire in tempo reale e rimuovere qualsiasi cosa puzzi sul marciapiede? La fa volare via la bora? O, più semplicemente, per ogni Triestino che raccoglie la cacca del cane ci sono cinque Algheresi che sono dei gran cafoni?

È interessante notare come la disproporzione fra cacche sui marciapiedi e popolazione canina stimata sia riscontrabile anche in altri ambiti della vita quotidiana; ad esempio, se supponiamo che Trieste abbia anche il quadruplo delle automobili dodici volte più concentrate, ho notato molti meno parcheggi irregolari. Qui potrei essere io ad aver viziato i dati, visto che di solito percorro vie larghe e parecchio trafficate in cui una sosta in divieto causerebbe un ingorgo e sarebbe presto rimossa, ma anche nelle vie secondarie vedo meno parcheggi in punta di incrocio o sui passaggi pedonali. Ad Alghero la situazione è talmente diffusa che, in preda alla frustrazione, a volte mi verrebbe da tirare fuori le chiavi e vandalizzare tutte le macchine in sosta irregolare perché porca miseria, evidentemente non lo capiscono in nessun altro modo.

E qui lo ammetto: questo post non ha un vero e proprio punto se non sfogare la frustrazione che fare lo slalom sui marciapiedi algheresi mi causa. Cioè, per tornare all profumato argomento originale, non ci vuole molto a risolvere il problema – basta chinarsi, raccogliere una cacca, quella del proprio cane, e si è già dato un contributo – quindi alla gente semplicemente fottesega. Credo sia una questione di mentalità, e qui c’è poco da fare. D’altro canto, è da quando avevo cinque o sei anni che mi sono reso conto di averne una diversa, pace.
Del resto, è dall’estate scorsa che Alghero mi fa venire in mente la gif di Olenna: bastano due gocce di pioggia, o una giornata particolarmente ventosa, che alcuni punti della città profumano di “eau de toilette” perché le fogne sono un colabrodo. Addirittura, in Piazza Sulis basta semplicemente che faccia caldo, e dal mare sale un odore che, a confronto, King’s Landing è un giardino di violette. Questo perché, con la stessa mentalità con cui si lascia perdere la cacca di cane sul marciapiede, non ci si decide a stanziare un appalto decente per rifare tutto il sistema idrico-fognario di Alghero – se ne parla da decenni – perché fa comodo che la ditta di turno, amica del politico di turno, si prenda il piccolo appalto per l’ennesimo rattoppo fatto a sputo quando la cacca per strada non si può più ignorare. Inutile dirlo, la puzza di fogna a Trieste non la sento nemmeno quando piove tanto da allagare tutte le Rive.

Side note: questo sfogo arriva dopo che ho letto un articolo in cui l’“intellighenzia” indipendentista sarda si fa un lungo piagnisteo sull’ingiustizia del “colonialismo culturale italiano”, che “minaccia” l’identità culturale e la mentalità sarda presentandole come arretrate, mentalmente chiuse, isolate e stagnanti. In realtà, dicono loro, non è vero che l’Italia (potenza occupatrice) ha portato la modernità e il progresso sull’isola, ma ha solo cercato di far sembrare il modo di vivere sardo più “selvaggio” per giustificare il loro imperialismo culturale.
Eppure, per tornare al titolo, Trieste sarà la città in cui si esagera con gli alberi di Natale, ma la città di cacca resta Alghero. Forse, e sottolineo forse, bisognerebbe prendere esempio dagli altri, invece che gongolare nella convinzione che la propria mancanza di buon senso e di rispetto civile sia una peculiarità culturale di cui andare fieri.

Sunday 11 December 2016

Panettoni indigesti

Katia stasera mi ha fatto una gran bella domanda, e le domande di Katia sono sempre molto acute e fonte di ottima introspezione: che cosa, precisamente, mi dà tanto ai nervi del Natale?
Bella domanda.
C’è stato il penoso incidente del 1999 che mi ha fatto andare di traverso l’atto in sé di decorare l’albero, ma poi? C’è qualcosa di più profondo? A parte la ghirlanda di luci appesa sulla porta di un negozio qua vicino, con la musichetta accesa 24/7 che, alle tre di notte con l’eco della strada vuota e silenziosa, diventa davvero creepy, stile camioncino dei gelati in un film horror.

Non c’è qualcosina… non so… di eccessivo?

Ci sono aspetti prettamente pratici che mi danno ai nervi, ad esempio Piazza Unità d’Italia. Quando mi sono trasferito a Trieste nel 2008, veniva decorata con due file di alberi di Natale, per non parlare degli altri, alcuni altissimi, sparpagliati per la città. Poi è arrivata la crisi e, negli anni scorsi, il tutto è stato ridimensionato a un solo albero in un angolo della piazza, un presepe e un proiettore di giochi di luce sparato sulla facciata del municipio. Di cui la gente si è lamentata, perché che fine ha fatto l’opulenza festiva di Piazza Unità? È davvero Natale, senza le file di abeti di Piazza Unità?
Ma quest’anno è arrivato Lui, Roberto Di Piazza; è tornata Forza Italia e ha salvato il Natale: riecco le due file di dannati alberi, ma non solo – di più! – ce ne sono decine sparpagliati per mezza città, perfino in Piazza tra i Rivi a Rioiano, perché Lui rimetterà le cose nel verso giusto. Sei mesi di mandato e ha reso Trieste di nuovo opulenta, perché è quello che significano ventiquattro dannati abeti – ventiquattro! – in due file su una piazza. Più i sei in Piazza Borsa, i due in Piazza Verdi, quelli di cui ho perso il conto andando in Cavana…
È una dimostrazione di potere e ricchezza fatta nella sicurezza che, mal che vada, si tratta di una stupidaggine. Roba a cui laggente tiene, ma pur sempre una stupidaggine inconsequenziale. Tutto fumo negli occhi.


C’è poi il fatto che la stagione natalizia ormai inizia i primi di ottobre. In inglese c’è un nome specifico per questo fenomeno: Christmas creep. D’altro canto, se hai della merce così marcatamente stagionale, ovvio che cercherai di venderla con una campagna pubblicitaria martellante e, a ogni buon conto, allungare il più possibile il lasso di tempo in cui è appropriato esporla. Purtroppo il lato consumistico – odio questa parola, fa tanto fricchettone no global incallito – del Natale ha dei limiti intrinsechi per superare i quali deve essere invadente fino al parossismo. È un lato imprescindibile e, se ti dà più fastidio di quanto i buoni sentimenti riescano a controbilanciare, c’è poco da fare, odierai sempre il Natale.

Probabilmente, il mio problema col Natale è proprio questo: me ne sento soverchiato. È tutto troppo, per me: troppe lucine, troppa gente, troppa frenesia, troppi buoni sentimenti, troppi parenti, troppi messaggi, troppe telefonate, troppi soldi in ballo, troppa pubblicità, troppe festicciole, troppo, troppo, troppo. Mi sento sempre come se arrancassi indietro e non riuscissi a stare al passo col resto dell’umanità. Mi sento sbagliato perché è socialmente bizzarro che non mi vada di prender parte ai festeggiamenti: se non li sento miei, dovrei almeno farlo perché è la tradizione; se non m’interessa la tradizione, dovrei farlo perché mi diverto, perché tutti si divertono alle feste. Questo rende il Natale l’ennesimo obbligo – uno del tutto infondato, per di più. Mi sento escluso da una cosa stupida in cui gli altri riescono a trovare un po’ di conforto e allegria cheap per qualche giorno, fingendo che tutto sia più magico e speciale. Mi sento sbagliato perché la mia resting bitch face è ancora più fuori luogo in mezzo al clima festivo, così come il mio humour tagliente e la mia voglia di essere amichevole solo con un numero ristretto di persone ignorando tutte le altre.
Così, puntualmente, al primo segno di panettoni e lucine sugli scaffali, inizio già a imbastire grandiose cazzate sui miei mirabolanti piani per Natale. E per Capodanno, ché dovrei essere davvero un freak per non voler far piani a Capodanno. Non mi va di dover accettare inviti, fingere di essere una persona normale che adora il Natale, o fare la parte di quello che rovina le feste agli altri.
Che ansia. Non vedo l’ora che il sei gennaio arrivi come una doccia fredda in tutto questo delirio, e il mondo torni ad essere meno luccicoso e più grumpy per farmi sentire meno fuori posto.

Sunday 4 December 2016

La bellezza dei granelli di polvere

Se c’è una cosa che mi urta (sì, lo ammetto, ce ne sono molte) è quando la Terra viene definita un piccolo, insignificante, patetico granello di polvere nella vastità dell’universo. Un minuscolo sasso in orbita intorno a una minuscola stella, ridicoli non solo sulla scala delle distanze cosmiche, ma anche paragonati alle dimensioni di altri pianeti e stelle.

Da una parte capisco da dove questi discorsi provengono e la buona fede che c’è dietro: dopo secoli di mentalità antropocentrica, in cui ogni cosa era stata creata a nostro uso e consumo come da dottrina cristiana, è doveroso rimettere le cose nella giusta prospettiva e ricordare che siamo solo un piccolo frammento di un universo vastissimo.
La nostra esistenza non è frutto di un universo costruito a misura nostra, ma di tante piccole coincidenze che hanno, in buona parte, a che fare con la “mediocrità” di cui siamo circondati: un sole nella media, senza fenomeni stellari particolarmente interessanti, senza una vera compagna perché Giove è rimasto troppo piccolo per diventare una stella binaria, in un angolo semi-periferico e privo di oggetti interessanti che possano interferire con la nostra esistenza in una galassia nella media, su un pianeta piccolo, senza anelli, con un solo satellite, che si trova alla giusta distanza dalla sua stella per permetterci di esistere. Tutte condizioni temporanee ed estremamente variabili, in tempi astronomici, che ci danno qualche centinaio di migliaio di anni per esistere, un tempo minimo sulla scala dell’universo.

La Terra vista da Saturno: un piccolo punto luminoso nella vastità dello spazio.

Fin qua nulla da ridire, ma poi c’è l’altra faccia della medaglia. C’è quando l’argomentazione va troppo in là e, a “piccolo” e “in un vicinato cosmico relativamente pacifico”, si aggiunge la derogazione. “Insignificante”, “patetico”, “non importante”, “fragile”, “granello di polvere”: queste sono cose che mi irritano parecchio. Perché sulla scala dell’universo è vero, non siamo nulla… ma cosa non lo è? Perfino le stelle più grandi e spettacolari non sono nulla nella vastità del cosmo. E allora, se niente è nulla, vuol dire che tutto è qualcosa: tanto la nostra piccola Terra quanto un’intera galassia non importano nell’arco di qualche decina di miliardi di anni, ma essere piccoli non significa essere insignificanti.
Del resto, questo “granello di polvere”, questa stella nella media, questa galassia grande ma non troppo per noi sono tutto. In un certo senso, è proprio la brevità, la precarietà e la straordinarietà delle circostanze della nostra esistenza a renderla molto più preziosa di quanto non sarebbe se tutto fosse stato progettato in sua funzione. Esistere nonostante l’universo sia un posto ostile alla fragile biologia del carbonio, in un breve momento prima che il Sole diventi troppo potente e ci spazzi via l’atmosfera o la alteri chimicamente fino a renderla simile a quella di Venere, prima che l’orbita della Luna decada e smetta di stabilizzare l’inclinazione del nostro asse e, con essa, i cicli stagionali, prima che la rotazione rallenti al punto da far perdere ogni nozione di giorno e di notte (e, con essa, di insolazione bilanciata), e avere un intelletto che ci permette di esserne consapevoli è una grande fortuna che, come specie, non dovremmo sprecare. È qualcosa di prezioso che non dovremmo dare per scontato.


Ma se la Terra per noi è importante perché è tutto, è la nostra vita, non si può togliere nulla neanche ai piccoli corpi celesti che non hanno a che fare con noi. Ogni stella e pianeta, ogni asteroide e cometa, è unico e speciale a modo suo. Perfino qualcosa come l’asteroide Ida, un piccolo mondo lungo nemmeno sessanta chilometri, è speciale, con la sua piccola luna Dattilo, un sassolino di un chilometro di diametro. Un asteroide con un satellite. Speciale come Plutone con Caronte qualunque sia la sua designazione, o Cerere col suo cratere brillante, gli anelli di Saturno e l’atmosfera di Titano, le tempeste di Nettuno, le bizzarre stagioni di Urano…
Nulla è insignificante: ogni cosa può essere interessante. L’universo può non essere stato creato secondo i nostri bisogni, può non esserci una ragione perché esistono gli altri pianeti, gli asteroidi, la fascia di Kuiper, le comete, le stelle, ma questo non ci impedisce di poter apprezzare come ogni cosa sia bella e unica a modo suo, di essere curiosi, voler imparare di più, fare nuove scoperte e porci altre domande.
E anzi, è proprio perché l’universo non è un modellino assemblato da qualcuno e ogni cosa, in tempi astronomici, è effimera che non dobbiamo cadere nella trappola dell’insignificanza dei “granelli di polvere”: siamo fortunati a trovarci sul nostro e a poter scoprire, osservare e imparare da quelli che ci circondano in questo breve momento in cui esistiamo.

Thursday 1 December 2016

Referendum mon amour ma haine

In un momento di infantile meschinità, potrei mettere a tacere la mia coscienza di cittadino dicendo che, visto che il governo ha messo in moto, per motivi che non condivido, una catena di eventi che ha portato al ritiro di RyanAir dalle rotte da e per la Sardegna, non può aspettarsi che mi freghi qualcosa del prezioso referendum attorno al quale sta cercando di basare la sua credibilità. Avete alzato le tasse aeroportuali oltre il livello di convenienza di RyanAir per trovare i fondi con cui salvare Alitalia, la quale manda i suoi piloti a mangiare nell’albergo più costoso di Alghero, che è dalla parte opposta rispetto all’aeroporto con annessi costi di trasporto del personale? Vi “punisco” boicottando il vostro referendum.
In realtà, poi, mi rendo perfettamente conto che la mia “punizione” del governo ricadrà, alla fine, solo su me stesso, perché ho la materia grigia necessaria a capire che lo Stato sono anch’io e, se lo danneggio, danneggio anche me stesso. E non essermi informato a dovere sul referendum, non aver tentato di colmare le lacune che non mi consentono di avere le idee chiare, è un torto che ho fatto a me stesso, più che un dito medio alla campagna referendaria “ché tanto, sia quelli del Sì sia quelli del No sparano solo stronzate”.
La realtà, comunque, è che semplicemente non ho soldi per scendere in Sardegna apposta per votare a ‘sto dannato referendum, non ho la stabilità mentale ed emotiva per affrontare la trafila che mi permetterebbe di votare qui a Trieste, per cui tanti saluti, mi sono risparmiato il disagio, la fatica e le sicure incazzature che tentare di navigare attraverso il pantano che è questa campagna elettorale mi avrebbe causato.
Detto questo, mi sono accorto con spavento di una cosa: da ignorante in materia, ho solo le nozioni base di cosa il Sì e il No comportino, senza una chiara comprensione delle ramificazioni pratiche di ciascuna opzione; di base, mi ritrovo a flirtare col Sì, sia perché trovo che gli aspetti negativi siano stati ingigantiti… sia perché, semplificato al massimo, il MoVimento 5 Stelle fa campagna per il No. Ecco, la cosa che mi spaventa è che potrei ritrovarmi a votare “di pancia” per far torto a qualcuno, invece che con chiarezza per migliorare le cose.

Ora, piano. Scendete dai cavalli, amici grillini, e mettete via i cappelli di carta d’alluminio e gli striscioni del gombloddo: ci sono un paio di cose da chiarire. Prima di tutto no, non sono pagato dalla Ka$ta per scrivere quello che sto scrivendo (magari!), non ho il microchip sottocutaneo e, soprattutto, non mi viene da votare l’opposto di quello che suggerisce il M5S perché simpatizzo per Renzi o il PD. Al punto attuale, non simpatizzo per nessuno, se si andasse alle elezioni dopodomani sbatterei la testa al muro.
No, il motivo per cui se il M5S dice dritto per me è inversione a U non ha nulla a che fare con la fedeltà ad altri, né tanto meno con ciò che gli altri dicono del MoVimento: mettetevi il cuore in pace, cari Grillini, e risparmiatemi il vittimismo da “i giornali ce l’hanno sempre con noi”. Il motivo della mia sfiducia è intrinseco alla natura stessa del MoVimento, ha a che fare con il modo malato in cui è nato e opera, con i metodi che invita i suoi accoliti a usare per (dis)informarsi e (s)ragionare. In breve, considerando le fonti, i toni, l’inaccuratezza, l’irrazionalità e la totale disconnessione dalla realtà che il MoVimento dimostra su otto temi su dieci, scusate, ma non rischio di fidarmi di loro nemmeno su quegli altri due temi, per quanto l’altra campana sia ugualmente sospetta.

La politica ritocca i fatti per attirare acqua al suo mulino, non è una novità. Il MoVimento 5 Stelle si proclamava diverso (ho già detto la mia in merito) e, forse, su questo ha ragione, perché mente direttamente. Niente manipolazione delle notizie, no, le loro sono vere, dirette, onestissime bugie. Ma proprio a livello capillare: non solo sui grandi temi, anche sulle stronzate più spicciole, vedasi l’ultima perla partorita dai media grillini in queste ore.

Ciao, Torino, quanto sei cambiata!
Francamente, come faccio a fidarmi di un partito che mente anche sulle cretinate come quanta gente c’era in piazza? Voterei Adinolfi, se così fosse. E non so cosa sia peggio, se pensare che sia stato fatto in malafede per cercare di dimostrare di avere massa critica, o in buona fede perché chi ha postato non sa distinguere Firenze da Torino (nemmeno fosse stata Piazza della Repubblica, che quel gusto sabaudo ce l’ha).
Ed è quello l’altro grande problema che ho col MoVimento 5 Stelle: giustifica e nobilita l’ignoranza. La promuove a condizione esistenziale privilegiata. “Votate con la pancia e non con la testa”, che sì, è sempre meglio che votare col culo come hanno fatto Oltremanica e Oltreoceano, ma col suo continuo uso di fonti inaffidabili, teorie scientificamente improbabili (le Sirene, porca miseria!), retorica del “noi contro loro” che implica che qualsiasi cosa non sia Grillo-approved sia automaticamente falsa, cercano sistematicamente di formare un elettorato incapace di pensare con la sua testa. E sì, il fatto che il sistema scolastico italiano non sia ancora stato riformato dai tempi di Gentiloni la dice lunga su quanto i nostri politici non vogliano dei cittadini particolarmente svegli, ma anche lì, un conto è l’omissione via programmi scolastici (specie di storia) mal strutturati, un conto è diffondere fatti oggettivamente non veri e condirli dicendo senza sottigliezze e mezzi termini “spegnete il cervello e credete a noi”. Davvero, davvero qualcuno può fidarsi delle direzioni che questa gente dà al voto?
E poi c’è quella ciò che recrimino loro e non ho ancora perdonato dal dibattito sulla legge Cirinnà: la loro argomentazione di punta è sempre e comunque “mandiamo a casa Renzi!!!!”. Punto primo, è interessante vedere come sparlino quasi solo del PD e poco o niente della Lega o del Centrodestra in generale. Punto secondo, che abbiano più a cuore far fuori certi avversari politici che governare il paese era evidente già da quando si è formato il Governo: quel poco di critica alla destra che sento venire da loro è nelle corde di “Eh, ma al governo c’è anche Alfano”. Davvero? E dov’eravate voi quando c’era da fare la coalizione di governo? Niente alleanze al grido di “O governiamo soli o niente”, e avete preparato il terreno per il governo di larghe intese (questa è una cosa che recrimino anche ai partiti di Rivoluzione Civile, per par condicio). È da allora che danno contro al Governo per partito preso, qualsiasi sia l’argomento in discussione, senza curarsi del fatto che il Paese ha bisogno di fatti, non di vuota ideologia. Nessuna delle leggi o riforme osteggiate è mai stata perfetta, ma fare politica significa anche scendere a compromessi: un piccolo passo avanti è pur sempre meglio che stare fermi come i muli. Finché il MoVimento 5 Stelle non capirà questo, magari potrà cavarsela localmente, ma non sarà in grado di governare un intero Paese.

Ricapitolando, quindi, il MoVimento 5 Stelle:
  • Mente. Non è ipocrisia politica, non attira l’acqua al suo mulino ritoccando le notizie, mente direttamente.
  • È disinformato, promuove la sospensione del pensiero critico e si erge a unico detentore della Verità.
  • Non ha chiaramente idea delle priorità di governo, si aggrappa alle logiche di partito e alle questioni ideologiche a discapito del pragmatismo e della praticità.
Quindi, il vero motivo per cui mi viene da fare l’esatto opposto di ciò che raccomanda il MoVimento è che i suoi valori, metodi e azioni non è che non si allineano con i miei, sono diametralmente opposti.
Ora, al di là di quelli che sono i pensieri su questo referendum nello specifico, pensateci bene: davvero vorreste lasciare le redini del Paese in mano a questa gente? No, perché dopo il Brexit e la vittoria di Trump, ormai mi aspetto il peggio da LAGGENTE.