Saturday 29 April 2017

Schadenfreude


Lo ammetto: mi sento un filino ipocrita. Il fatto è che l’intera faccenda del Fyre Festival si offre talmente bene a una risata per come una certa fascia sociale abbia sbattuto brutalmente il muso sulla realtà quotidiana di certe altre fasce sociali che è difficile mettere a fuoco che questo stesso divertimento è indice di quanto la nostra società stia sbandando.

Per chi non seguisse le vicende virali su internet, il Fyre Festival è sostanzialmente un incrocio fra Lost, un episodio di Black Mirror e ciò che Alma Coin aveva in mente quando voleva buttare i bimbi di Capitol negli Hunger Games. In sostanza, due tizi che non hanno le minime skill organizzative hanno venduto biglietti da migliaia di dollari per un festival musicale extralusso nelle Bahamas, con tanto di ospiti illustri, ville da sogno, cucina gourmet e attività ricreative costose, marketizzandolo attraverso starlet di Instagram, influencer e quant’altro, a persone che possono permettersi di spendere quelle cifre. Il tutto prima ancora anche solo di pensare a come organizzare il tutto, col risultato che gli ospiti sono arrivati alle Bahamas per trovare una tendopoli senza cibo, acqua corrente, sicurezza e, ovviamente, ospiti musicali.
E… dai, l’intera faccenda semplicemente fa ridere, c’è poco da fare. Da amante della musica, trovo divertente che tanta gente abbia pagato un sovrapprezzo assurdo per il collaterale quando, spendendo la metà, avrebbe potuto farsi tutti i concerti in scaletta individualmente; chiaro, il punto non era la musica proposta, ma lo status symbol, il paradiso tropicale, il lusso… l’esclusività dell’evento. E poi c’è il fatto che abbiano abboccato perché un manipolo di “personalità” di internet ha presentato la cosa su Instagram in maniera sfiziosa, a prescindere da quello che sarebbe stato il contenuto. Questa vicenda si presta talmente bene a un commento sulla società dell’apparire, sulla superficialità del marketing virale, sul consumismo e bla bla che lascerò gli opinionisti seri a occuparsene.
Anche perché, il tempo di inforcare Twitter e seguire l’hashtag per farmi due risate di chi si lamentava della mancanza del lusso prima di accorgersi che non c’erano proprio condizioni umane di base, e il divertimento mi è già passato. Complici anche i commenti di quelli che non fanno parte dell’1% che poteva permettersi l’evento, ma ci mettono comunque becco. 


Per carità, ce ne sono di davvero divertenti, come quello qui sopra. Però vedo una netta predominanza delle parole “white rich millennial kids”, con le implicazioni sfortunate che si portano dietro. Non tanto il “kids”, perché è vero che la vita ovattata che hanno condotto ha sicuramente contribuito all’ingenuità con cui si sono buttati nella cosa – e pensare che il contrasto stridente ha amplificato esponenzialmente il loro orrore è sadicamente divertente. E ignorerò anche il “white” perché il fatto che indichi automaticamente privilegi non è del tutto scorretto ma nemmeno corretto, ed è un discorso per un altro momento.
Fermiamoci un momento su “millennial” e “rich”: il primo è l’ennesimo commento su come la nostra generazione sia priva di “veri valori” e ignora che qualcuno dovrà pur averci cresciuti così; il secondo è l’unico aspetto della vicenda che la rende divertente. A livello superficiale, è vero: “Boo-hoo, ti tocca dormire in tenda”. Ma a parte che il problema lì era molto più che dover dormire in tenda, se pago per un bene o un servizio, è quel bene o servizio che devo ricevere, punto. A prescindere che costi cinque euro o cinquantamila dollari. “Poor rich kid” è uno stereotipo spesso vero, e di capricci per una manicure scheggiata o un pizzetto non scontornato a dovere è pieno il mondo, ma quel “rich” qui viene brandito come una colpa. E di nuovo, sì, è sostanzialmente un gruppo di gente viziata che ha pagato uno sproposito per un mucchio di roba superflua che con la musica ha poco a che fare, ma qual è il problema, che loro possono permetterselo e noi no? Eh?

C’è poi un ulteriore aspetto che mi disturba non poco: non appena la tendopoli del Fyre Festival è stata paragonata a un campo rifugiati, tutti sono subito saliti sul pulpito a notare con enorme gaudio l’ironia di un mucchio di gente ricca e viziata che si è ritrovata nelle condizioni in cui vivono le stesse persone che vorrebbero non accogliere nei loro paesi. Tralasciando la generalizzazione… e quindi? Questi commenti chi li sta facendo, i rifugiati nei campi profughi o gente che può permettersi l’accesso a internet dalla comodità delle proprie case? Se è giusto che gli amichetti di Kendall Jenner vivano per un giorno da profughi per capire com’è, perché non lo fanno anche quelli che commentano? Magari l’ironia della situazione non sarebbe più così divertente, quando non capita agli altri?
Il punto di questi commenti non è pensare a quelli che stanno peggio di noi e augurarsi (o contribuire a portare) un miglioramento delle loro condizioni di vita, ma bearsi del peggioramento di quelle di gente che sta meglio di noi. Ed è un problema sociale non indifferente. È la versione più divertente e meno crudele di quelli che, quando succede un attentato in una città europea, subito strillano: “Ben ci sta, ci sono luoghi del mondo in cui questa è la realtà quotidiana, almeno abbiamo un assaggio e capiamo com’è”.
No.
No, no e NO. Questo è un ragionamento sbagliato. Il punto della civilizzazione non è dare a tutti un assaggio della brutalità del mondo. Non è peggiorare le condizioni di chi sta meglio per sentirci tutti un po’ più infelici. Il punto di una civiltà sana e prospera è far sì che nessuno viva in condizioni disperate e subisca violenza. Pensare il contrario, che un mucchio di gente ricca si meriti di fare un giorno il profugo per una propria scelta andata male – o che una bomba sotto casa ci “insegni la lezione” – non risolve il problema di chi davvero vive così perché subisce le scelte altrui.
Come ragionamento, non ci dà la superiorità morale per giudicare uno stile di vita che percepiamo come sbagliato. Alla fin fine, è sintomatico della stessa, identica mentalità del riccone che ignora i problemi della gente comune perché tanto capitano a qualcun altro, solo venata dell’invidia di non poter fare altrettanto. Non è lotta sociale, è semplice meschinità.

Per cui, sì, la faccenda del Fyre Festival è oggettivamente ridicola e non si può sfuggire a una certa dose di schadenfreude per come è nata e si è sviluppata. Ridiamoci pure, questi cinque minuti, ma magari riflettiamoci anche un po’, cerchiamo di individuare il vero problema e miglioriamo un filino la nostra mentalità, privata e collettiva, per concentrarci su espandere il benessere invece che imporre il malessere.

Saturday 8 April 2017

Belle che inventa cose

Ho notato che alcune persone sono rimaste perplesse da Belle che inventa cose nel nuovo La Bella e la Bestia. Ammetto che, finché non ho letto pareri in merito, non mi ci ero nemmeno soffermato. Del resto, anche nel film del 1991 Belle era un’intellettuale e un’innovatrice: Gaston rende palese che una donna acculturata non è la norma sociale vigente e lei è semplicemente troppo avanti per fregarsene.
Il nuovo approccio al personaggio rientra nella direzione generale del film, meno sottigliezza: il commento di Gaston non è abbastanza per il pubblico, bisogna proprio imboccarlo mostrando il maestro del villaggio che parte alla carica perché Belle sta – gasp! – insegnando a leggere a una bambina perché è troppo avanti, non tollera la discriminazione e vuole migliorare il mondo.
In questo caso, però, capisco perché si sia voluto sbattere in faccia il fatto che Belle sia una donna intelligente. Un po’ per renderla più attiva in punti chiave del film, come quando è rinchiusa durante il climax e se ne tira fuori da sola. Ma in gran parte, beh, per questo:

Complimenti, Jeff Hong: non hai capito un cazzo di Belle.

Non entro nel merito dell’intera serie, o della validità dell’iconoclastia sull’infanzia altrui come metodo per attirare l’attenzione su argomenti di rilevanza sociale. In questo caso specifico, Jeff Hong ha toppato alla grande. D’accordo, è la Bella e la Bestia. D’accordo, lo dice anche la canzone: “Now, it’s no wonder that her name means ‘Beauty’, her looks have got no parallel”. Ma Belle che considera la chirurgia plastica? Bitch please, fra tutti i personaggi della Disney è probabilmente l’ultima che lo farebbe!
Belle è bella: ciò è costantemente sottolineato nel film. Dagli altri. Ma non è il tratto distintivo del suo personaggio. La sua bellezza è incidentale, serve come simbolo per fare da contrasto con l’aspetto mostruoso della Bestia. Ma lei non capitalizza sulla sua bellezza, non la sfoggia, non la coltiva se non con la cura basilare del corpo e non la ritiene qualcosa di fondamentale. Né su di sé, né negli altri, o avrebbe accettato la proposta di matrimonio di Gaston e non avrebbe dato una possibilità alla Bestia perché il suo carattere si è ammorbidito. Certo, immagino che, come tutti, sia contenta di non essere un roito, ma la bellezza è l’ultima delle sue preoccupazioni.
Inoltre, l’intero inizio del film è dedicato a mostrare quanto Belle se ne sbatta delle aspettative sociali. Non va bene che una donna legga? Che non partecipi ai pettegolezzi del paese? Che non penda dalle labbra di Gaston? Che difenda suo padre anche se è “eccentrico” per i tempi? Lei se ne frega, va avanti per la sua strada anche se questo le costa l’ostracismo del villaggio.
Perché mai, quindi, proprio Belle dovrebbe considerare la chirurgia plastica? Non si ritoccherebbe per sé, visto che l’esteriorità non è una priorità, né per conformarsi all’ideale comune di bellezza, visto che di ciò che pensa la società se ne infischia. Quest’immagine non ha senso.

Ma esiste perché ciò che la gente ricorda pensando a Belle è questo: è bella. Troppo stupidi per cogliere il messaggio del film, fanno esattamente l’opposto, si fermano alle apparenze senza preoccuparsi di indagare cosa c’è sotto. L’intelligenza, l’amore per la cultura, la forza di carattere, la furbizia, l’indipendenza, l’empatia, la capacità di vedere oltre le apparenze: a nessuno importa di questo. Belle è bella.
E in parte questo è colpa della Disney, di come marketizza il brand Disney Princess: sono belle figurine allineate, addobbate per fare la loro figura e stop. Belle ha sempre un’espressione civettuola e una rosa in mano, non un libro, perché lì non importa che la sua più grande passione sia la lettura, no, lei è bella, le rose sono belle, mi pare ci fosse una rosa nel film, va bene così.
Quando si pensa allo stereotipo della Principessa Disney, stucchevole, bella e vuota, si critica proprio quello presentato dal merchandising, che ignora per primo i film di riferimento. Perfino Cenerentola, in mezzo a sogni, sorrisi e sospiri d’ammoreh, è sassy A.F. e non perde occasione di rispondere a tono alla matrigna: non è la ragazzina ingenua e passiva a cui tutti pensano. In quella bella testolina ha carattere.
Da qui, la nuova Belle inventa cose. Si è preso un tratto fondamentale del vecchio personaggio – astuzia e intelligenza – e lo si è presentato al pubblico in maniera inequivocabile in modo che, uscendo dalla sala, si ricordasse non solo che Emma Watson è bella, ma che il suo personaggio ha inventato la lavatrice! In un clima mediatico in cui ogni singolo personaggio femminile deve essere un role model, non c’è posto per la sottigliezza, specie se la stessa compagnia genitrice rema contro per far soldi.

Oltre a questo, però, nell’altro post ho menzionato che nelle trasposizioni le opere vanno aggiornate per restare al passo con i tempi. Belle che inventa cose è di grande attualità.
Viviamo nell’epoca in cui prima le echo chamber su internet e ora perfino la politica danno voce agli ignoranti e incompetenti. Terrapiattisti, no vax, complottisti, antispecisti che frenano la ricerca scientifica, hipster che schifano le tecnologie di comunicazione, Selvaggia Lucarelli… c’è una grande sfiducia nella scienza e nella tecnologia – sebbene tutti quanti vivano una vita comoda godendosene i frutti – e una costante caccia agli intellettuali, a chiunque metta Tizio e Caia di fronte alla realizzazione della loro mediocrità. Inoltre, mentre sbrogliamo l’intricatissima matassa della parità sociale, uno dei fenomeni di cui ci siamo accorti è la resistenza degli ambienti scientifici stessi verso le donne: anche quello va affrontato iniziando dalle future generazioni di scienziati e scienziate.
Da una parte, quindi, Belle che inventa cose incoraggerà le bambine di oggi a seguire la loro passione anche se è la scienza e non la bellezza, e di fregarsene se il vecchio maestro del villaggio dice che non si fa. Dall’altra, vediamo le conseguenze dell’ignoranza che si arroga il diritto di agire con la sua paura dell’innovazione: quanto beneficio avrebbe portato all’intera comunità la proto-lavatrice inventata da Belle? No, loro l’hanno distrutta perché non la capivano, senza soffermarsi a valutare le conseguenze. Mostrare quanto questo sia sbagliato facendolo capitare a un personaggio con cui il pubblico empatizza è un’ottima mossa.

I motivi per cui nel 2017 Belle inventa cose, quindi, sono questi tre: per renderla più attiva nella storia, per sottolineare i tratti distintivi del personaggio oltre alla bellezza, e perché la nostra società, in questo momento, ha bisogno di persone intelligenti che trovano nuove soluzioni a vecchi problemi. Serve che loro abbiano una fonte di ispirazione, qualcuno che non è stato compreso ma se n’è fregato ed è andato avanti, e che Tizio e Caia vedano come la loro chiusura mentale può ferire gli altri e,alla fin fine, danneggiare se stessi.
Abbiamo bisogno di uscire da un cinema dove Belle, una principessa Disney, inventa cose.

Tuesday 4 April 2017

Cambiamenti vari ne La Bella e la Bestia

Partiamo da un presupposto: per quanto sia venuto bene, non si può prendere un lavoro di due decenni e mezzo prima, rifarlo uguale pezzo per pezzo e proporlo così al pubblico contemporaneo. Nemmeno se cambia formato, che sia dalla pagina scritta all’opera, dalla musica allo schermo o, in questo caso, dall’animazione al live action. La Bella e la Bestia 2017 ha avuto bisogno di divergere da quello del 1991, che a sua volta si è distaccato dalla fiaba originale, che a sua volta aveva ispirato il film del 1946 da cui, per chiudere il cerchio, il film Disney del 1991 aveva preso in prestito qualcosa. Una storia si evolve, i gusti del pubblico cambiano, il messaggio può aver bisogno di essere aggiornato: è nella natura delle trasposizioni e non c’è necessariamente una versione migliore e una peggiore, possono essercene varie che, semplicemente, sono diverse.

In questo caso specifico, alcuni cambiamenti li hanno fatti perché la gente è stupida. Belle che fisicamente spinge il padre fuori dalla cella per prendere il suo posto? È per sottolineare ancora più chiaramente che decide di sua volontà di rimanere al castello quindi no, non è sindrome di Stoccolma, manica di idioti.
Altri invece hanno tratteggiato con più dettaglio cose che nella versione originale erano lasciati all’interpretazione (spesso carente) dello spettatore.

Prendamo la frase di Mrs. Potts sui servitori che sono stati maledetti perché sono parzialmente responsabili di come il principe è cresciuto. È chiaro che l’hanno messa per risolvere il “problema” del perché fossero stati maledetti tutti i castellani anche se non c’entravano… un problema che non è mai esistito.
La Bestia è stata maledetta per colpa del suo egoismo e della mancanza di empatia verso gli altri, fin qui ok. Ma sono difetti che non colpiscono solo l’egoista: finiscono per ferire tutti, soprattutto chi gli vuole bene. Ha perfettamente senso che anche i servitori fossero maledetti: è proprio quello che insegna alla Bestia (e al pubblico) che l’egoismo ha conseguenze concrete sulle vite degli altri, anche se non ce ne si rende conto. Alla fine lui capisce che dalla sua capacità di migliorare come persona dipende non solo la sua felicità, ma anche quella delle persone che ha più care, e rende ancora più profondo il suo dilemma.
Per come la vedo io, il punto era proprio che il suo comportamento ha avuto conseguenze su persone che non c’entravano niente. Forse una lezione troppo sottile per qualcuno, da cui questo piccolo “fix a plothole” che, comunque, non mi disturba più di tanto.

Altra cosa che non mi urta è come hanno espanso il rapporto di Belle e della Bestia: nel film animato è relativamente ben sviluppato, lasciano intendere che passa del tempo e che iniziano a conoscersi nelle piccole cose prima di sviluppare un legame, ma posso capire che un live action richieda qualcosa di più; il fatto che qui abbiano dedicato più tempo a loro, mostrato che condividono interessi (anche se… Romeo e Giulietta? Che palle!) e aggiunto la tragica perdita della madre come elemento in comune per empatizzare reciprocamente ci può stare.

Belle che inventa cose merita un post a parte, così come l’approfondimento del personaggio di LeFou. Di Gaston, invece, non so bene cosa pensare. Il sottotesto che si evince è che qualcosa non va in lui – probabilmente ha tendenze sociopatiche fin dall’inizio. Da una parte questo rende la sua progressione come villain meno improvvisa e più credibile: era già un violento con tendenze omicide e la faccenda con Belle ha sfondato una porta aperta.
Dall’altra, l’idea che fosse solo uno stupidotto pieno di sé che è snappato all’improvviso perché non otteneva ciò che si sentiva in diritto di avere era più interessante come commento sociale. Ho già parlato di come Gaston incarnasse non solo il peggio della mascolinità, ma anche la normatività sociale (basata su valori sbagliati) e l’intolleranza nei confronti del non conforme. La sociopatia del nuovo Gaston – o, comunque, il suo evidente gusto per la violenza – toglie potenza all’idea che la nostra società, quando si chiude su se stessa, può diventare dannosa verso qualsiasi cosa percepisca come “altro”, solo per il semplice fatto che se ne frega delle sue aspettative. Senza un vero motivo, senza segni premonitori, senza che magari sia violenta in nessun altro aspetto: quell’unica volta, se non può piegare ciò che si ribella, cerca di schiacciarlo. E mostrare che, nel concreto, a farlo può essere non solo il mostro, ma anche il ragazzo della porta accanto, popolare e abituato al successo ma normale, era un ottimo spunto di riflessione, secondo me.
Ma, di nuovo, probabilmente era troppo sottile per il grande pubblico.

E poi c’è il grosso cambiamento nel climax del film che proprio non mi è andato giù – uno che, fra l’altro, è stata una mera aggiunta e non “sistema” nulla: Evermore. NOPE. È tremendamente fuori posto.
Nel film del 1991, la scena di quando Belle va via è potentissima proprio perché è semplice: vediamo lei che cavalca verso il villaggio e sentiamo solo la Bestia che ruggisce dal dolore. Voglio dire, hai appena perso il tuo amore, la possibilità di ricominciare daccapo con la tua vita, la tua libertà, la tua umanità e anche quella dei tuoi cari: cosa fai? Ti butti a terra a piangere, non ti metti a cantare.
Nella versione del 1991 inizio a piangere quando comincia la scena del ballo, non smetto finché il film non è finito e crollo a pezzi proprio quando la Bestia lascia andare Belle. Qui… ho iniziato a piangermi via gli occhi durante il ballo, come sempre, ma quando è partita Evermore è sparita tutta l’emozione. Morta. Guardavo lo schermo con un’espressione sarcastica e aspettavo che la canzone finisse per tornare all’emozione del film. Poi ho ripreso a piangere e la scena in cui i servitori si trasformavano in oggetti inanimati mi ha devastato, ma Evermore ha stonato tremendamente e ha interrotto il flusso della narrazione. Male, malissimo.

Nel complesso, quindi, è fisiologico che ci fossero cambiamenti nel nuovo La Bella e la Bestia. Il fatto che molti siano nati come risposta diretta a critiche che il film del 1991 ha subito nel corso degli anni un po’ mi irrita perché significa che non tutti sono stati necessari (visto che il pubblico è stupido). Nel complesso, però, non urtano e solo Evermore spezza davvero il flusso del film.
Prossimamente, approfondirò alcuni spunti di riflessione che il film mi ha offerto.