Thursday 20 July 2017

Lust For Life: a rogue review

Lo dico con sincerità, sono contento che su Armonie Universali, la webzine musicale a cui contribuisco, sia Michele a occuparsi di Lagna del Rey: non penso che sarei in grado di parlare di Lust For Life in toni professionali, di scrivere un’analisi davvero coerente per un disco così carente a livello strutturale, o di approfondirlo troppo, visto che l’ascolto è davvero, davvero faticoso. Ma dato che mi sono preso la briga di ascoltarlo, ecco una “recensione” rogue e disimpegnata in cui raccolgo le annotazioni che ho buttato giù durante l’ascolto: non posso deludere il mio carissimo Francisco che si aspetta un po’ di snark.

In cui io sono Lady Olenna.

Partiamo dal peccato originale di Lust For Life: è troppo lungo e molto monotono. La mancanza quasi assoluta di variazioni strutturali, melodiche e di arrangiamenti (quando ci sono, il missaggio le penalizza) non giustifica né canzoni per lo più sopra i quattro o cinque minuti (una sfiora addirittura i sei!), né la durata totale del disco, ben un’ora e tredici. Sedici canzoni sono tante giù in condizioni normali, a maggior ragione quando solo un paio – tre a essere generosi – spiccano nel mare di noia.
Di positivo, c’è che un passo avanti è stato fatto: non è offensivamente brutto come Ultraviolence o Honeymoon, né eccessivamente pacchiano come Born To Die, ma ciò non significa che sia un buon disco: su una sezione ritmica costantemente monotona e priva di vita, troviamo o melodie carine penalizzate da arrangiamenti privi di senso, o arrangiamenti interessanti sprecati su melodie inesistenti (quando gira bene: ci sono anche melodie brutte che corrispondono ad arrangiamenti orribili). Il fatto che il tutto si mantenga più sobrio che in passato (non c’è né l’eccesso strumentale di Born To Die, né la cacofonia faux-post-rock di Ultraviolence) è di per sé un merito, ma rivela senza pietà la mancanza di struttura e sostanza delle canzoni, che non hanno nemmeno più un po’ di make up a mascherare i loro difetti.
Ho accennato al missaggio, ed è proprio quello che, spesso, trasforma la mediocrità in orrore: molto spesso, guizzi interessanti della parte strumentale finiscono per annegare in riverberi e filtri senza senso, col risultato che le singole componenti possono catturare l’orecchio, ma si mescolano le une alle altre diventando una specie di rumore di fondo frustrante all’ascolto.
Che lo dico a fare, il colpo di grazia lo dà la performance vocale di Lagna: i difetti sono i soliti – note calanti, timbro nasale, troppo fiato, vocali sguaiate, acuti traballanti – e, come sempre, sono enfatizzati, piuttosto che corretti, in postproduzione con l’immancabile caterva di sovrapposizioni senza senso, filtri vocali vìnteig, riverberi e una prominenza schiacciante rispetto alla parte strumentale. Su un album già lungo e monotono, una performance piagata da difetti tecnici così evidenti e un’interpretazione fiacca e priva di qualsiasi emozione è ancora meno accettabile.

Parlando dell singole canzoni, Love ha una melodia orecchiabile ma mostra già in apertura che il tutto è troppo diluito;  e i gemiti sul bridge sono proprio brutti. Lust For Life è forse la traccia “migliore” del disco: ha una bella melodia e delle belle tastiere, e l’unica pecca è la parte parlata che rallenta ulteriormente una canzone già poco vivace. 13 Beaches inizia con la brutta orchestrina sanremese e dei campionamenti inutili. L’arrangiamento del ritornello non è male, specie il synth-arpa, ma sopportare la loffiaggine delle strofe per arrivarci è abbastanza faticoso. Cherry inizia con un vocalizzo di rara bruttezza e continua con una melodia vocale inutilmente prolissa, soprattutto nelle strofe. Di salvabile ha solo il beat del ritornello, sprecato nella scarsa coerenza del resto. Il “fuck” finale dà un tocco di classe che spostati.
White Mustang non è malvagia, è semplicemente soporifera, soprattutto per la prova vocale del tutto priva di espressività. I fischi sul finale danno un tocco orribilmente cacofonico in una texture strumentale così scarna. Summer Bummer – un titolo, una garanzia – è invece proprio brutta. La parte rap è loffia quanto le vocals di Lana ed è semplicemente insopportabile, mentre i vocalizzi di sottofondo verso il finale sono atroci. Sul serio, Lagna, chi te lo fa fare a strozzarti così? Scrivi roba alla tua portata.
E a proposito, su Groupie Lover la voce raggiunge picchi di nasalità impressionanti. Senza quel beat caotico l’arrangiamento del ritornello sarebbe stato interessante, ma tutto quel rumore distrae da una melodia già difficile da seguire. Il bridge ha una parte strumentale molto carina, ma i rapper rovinano tutto. L’orrore vocale continua su In My Feelings: il filtro, combinato con il tono nasale e la sguaitezza degli acuti, è micidiale, continua pure sul ritornello e rende gli acuti del bridge semplicemente atroci. Manca totalmente una melodia coerente, il che è uno spreco di una base interessante.
Coachella – Woodstock In My Mind ha una melodia noiosa, un arrangiamento troppo uniforme ed è cantata davvero da cani. Riverberato com’è, il synth sul bridge è proprio cacofonico. God Bless America – And All the Beautiful Women In It invece prende un ritornello che non è male, ma lo annega in troppa ripetitività. L’accavallarsi senza senso delle tracce vocali nel penultimo ritornello crea solo confusione, specie perché è una delle peggiori performance vocali di Lana in assoluto. In compenso, apprezzo l’ironia degli spari in sottofondo: cattura appieno lo spirito americano.
When The World Was At War We Kept Dancing è la prima canzone a variare gli arrangiamenti introducendo un po’ di chitarra. C’è di nuovo un accavallarsi senza senso di tracce vocali su un cantato già sfiatato e sguaiato, specie su quei brutti acuti. Beautiful People Beautiful Problems sembra promettere un’altra novità, il pianoforte, ma si tratta semplici accordi in successione che non variano mai. La melodia non è male, ma l’arrangiamento è di una monotonia estenuante. Tomorrow Never Came è una ballata innocua, anche se eccessivamente lunga: Non aggiunge nulla di davvero interessante, ma almeno non è offensiva da quanto è brutta. D’altro canto, Heroin, che sfiora i sei minuti, è insopportabile. La tastiera iniziale è carina ma, di nuovo, la performance è davvero aberrante. A un minuto ancora non è successo nulla d’interessante e l’attenzione scema praticamente fino al bridge, dove i latrati di Lagna svegliano all’improvviso. L’organo di sottofondo, invece che aggiungere un tocco, aumenta il senso di pesantezza di un brano troppo lento e monotono che non ha un vero climax né una risoluzione.
Change ha un piano davvero bello, ma è relegato sullo sfondo nel mix per lasciare spazio a una performance, alla meglio, mediocre. Peccato: anche la melodia è carina, ma la scelta di missaggio penalizza davvero il brano. Get Free, infine, ha qualche scelta imbarazzante, come i controcanti sguaiatissimi a fine ritornello (sull’ultimo sono addirittura più forti della linea vocale principale, ma perché?!), ma la melodia è bellina, l’arrangaiamento vivace e, con questo ritmo, anche l’accenno di organetto trova un suo posto. Peccato per un intero minuto di rumori di onde e gabbiani alla fine di un album che già era troppo lungo: è una scelta insensata.

L’unico vero progresso è che, stavolta, i testi almeno un 6-- se lo meritano, se non altro per lo sforzo: certo, c’è sempre una predominanza di immagini da Sogno Americano in salsa hollywoodiana (fra le spiagge estive, auto di lusso, groupie, vita paxxissima da ragazzaccia, prostituzione, il Cartello di Hollywood tirato in ballo così), riferimenti troppo diretti al vìnteig, ma almeno la glamourizzazione della tristezza è tenuta a un minimo accettabile e c’è un tentativo di affrontare temi di attualità e rilevanza sociale. Con la profondità di una pozzanghera, ma almeno è qualcosa – sebbene sia una minoranza delle canzoni, contrariamente a ciò che millantava la stampa online. Non c’è nulla di realmente interessante, ma almeno non sono testi stupidi e pretenziosi come in passato.

Certo, la mancanza di male non è di per sé bene. Lust For Life è meglio dei due predecessori, ma resta lungo, monotono e privo di reali contenuti. E non è solo una questione di apprezzare o meno la musica downtempo: sono proprio le carenze strutturali delle troppe canzoni, la mancanza di una progressione coerente che arrivi a un picco e a una risoluzione, l’eccessivo trascinarsi di melodie sconclusionate, la ripetitività e l’appiattimento degli arrangiamenti a dare questa sensazione estenuante. L’unico tentativo di innovazione e insaporimento, l’inserimento dei rapper, è naufragato malamente perché le canzoni non hanno melodie che sostengano quelle parti e il tutto si traduce in ulteriore noia.
Insomma, ci sono modi migliori di impiegare quell’ora e passa di tempo che ascoltare un album, sostanzialmente, inutile.