Sunday 28 January 2018

Carne andata a male

In principio era il frigo comune.
Solo che il frigo comune ha quattro ripiani (più lo scompartimento per la verdura) e un minuscolo freezer a due piani per cinque coinquilini. Senza posti fissi, visto che ogni anno c’è un certo ricambio e chi prima arriva meglio alloggia. Il primo anno è andato tutto sommato bene. Il secondo c’era Han il Vietnamita e i problemi erano ben altri. Il terzo sono riuscito a ritagliarmi il mio piano visto che uno dei coinquilini non c’era mai. Il quarto è stato l’inferno perché la Mater non mi ha fatto rientrare fino a due giorni prima di Lucca e, per allora, tutti gli spazi erano ovviamente presi.
Stavo per rassegnarmi anche quest’anno, visto che di biglietti per Trieste si è parlato ai primi di ottobre, ma la Signora Maria è stata un tesoro e ci ha preso un mini-frigo aggiuntivo: due piani (stretti) più spazio per la verdura e mini-freezer interno, sistemato nella lavanderia adiacente la cucina. L’ho lavato da cima a fondo, ho comprato la prolunga e il doppio attacco necessario per collegarlo, mi ci sono subito insediato... e sono rimasto solo. Non ho idea di che cavolo stiano facendo gli altri coinquilini, come si siano divisi lo spazio, fatto sta che sia quel frigo che il mini-freezer li sto usando solo io.
Una pacchia, no?

No. Perché qui o fottesega e qualcuno ha fatto saltare la prolunga muovendo lo stendibiancheria, o c’è stato un malfunzionamento interno, o salcazzo cosa, fatto sta che il freezer ha deciso di non funzionare il tanto da far andare a male la carne che ci avevo conservato. E per “andare a male” intendo proprio diventare di quel marroncino malsano e tirare fuori quel terribile odore dolciastro anche attraverso gli strati di pellicola trasparente in cui l’avevo conservata.
Far andare a male il cibo è uno degli incubi peggiori da quando vivo per conto mio. I motivi sono tanti: da una parte, lo spreco di soldi e cibo stesso; dall’altra, la mia idiosincrasia verso il frigorifero in generale, l’odore che fa e l’umido della condensa, figuriamoci poi l’odore della carne marcia (rileggendo il post sul frigorifero, mi sono accorto che parte di quell’antipatia deriva proprio dalla paura che qualcosa sia andato a male, quindi c’eravamo già). E poi c’è il fatto che la sporcizia derivante dal cibo mi snerva parecchio: lo stesso sugo di pomodoro che ho appena spazzolato via felicemente mi disgusta quando, letteralmente cinque minuti dopo, devo lavarne via le tracce dal piatto. Figurarsi la sporcizia di cibo che è davvero diventato nocivo. Non c’è da sorprendersi se oggi pomeriggio abbia avuto un grazioso meltdown che mi sono affrettato a contenere per sistemare il casino (oltre la carne, mi era marcito anche il prezzemolo e ho dovuto lavare la vaschetta, yay).
Fra l’altro, oltre alle idiosincrasie legate al cibo andato a male in sé, c’è ovviamente anche il mio prendere le cose sul personale: se lascio andare a male il cibo, vuol dire che sono inadeguato come padrone di casa. L’anno scorso mi sono dimenticato di mettere il sugo in frigo per una notte, si è inacidito e non sono riuscito a toccare i fornelli per una settimana perché mi sentivo un fottuto fallimento. A questo giro so che la colpa non è mia, ma non penso che riuscirò ad andare a rifare la spesa prima di lunedì, e fino ad allora mi arrangerò con l’asporto. La sensazione è sempre quella di averlo combinato io, il casino, e quindi che senso ha crearne subito un altro? Tanto sono un povero deficiente, succederà di sicuro qualcos’altro. Ed eccomi qua, una massa di nervi a pezzi che crea un caso nazionale da una stupidaggine.


In tutto questo, l’ironia della situazione non mi è mica sfuggita. Perché se il disgusto per il cibo andato a male è uno degli aspetti base dell’istinto di sopravvivenza, visto che è tossico e la risposta naturale deve essere di repulsione per evitare di ingerirlo accidentalmente, avere un disgusto così estremo significa che il mio istinto di sopravvivenza funziona una meraviglia. Divertente, considerando che nelle ultime settimane ho desiderato di non esserci più in media una o due volte al giorno.
Chiariamoci subito: no, non sono attivamente super, super, super, super! suicidal, nel senso che non rischio di saltarmene su un pomeriggio e buttarmi dalla finestra, o tagliarmi i polsi (in verticale per ottenere risultati) o andare a Sistiana per buttarmi sotto un treno in corsa e rovinare il pomeriggio a mezzo Friuli-Venezia Giulia. No.
È solo che… perché? Davvero, perché? Perché devo essere qui? Perché devo andare a dormire la notte, svegliarmi il giorno dopo, mangiare, uscire, incontrare persone, fare qualcosa del mio tempo, pulire camera mia, farmi la barba, lavarmi i capelli, fingere che me ne freghi qualcosa? Perché? Non voglio. Non me ne frega nulla. È una fatica inutile. Anche starmene a letto a fissare il soffitto è una fatica inutile, visto che non riesco a spegnere i pensieri. Anche dormire è inutile, visto che i miei fottuti sogni sono così attenti alla verosimiglianza dei dettagli che finiscono per ricordarmi tutto ciò che succede da sveglio. Continuo a far finta di nulla, a muovermi per inerzia, a sorridere e ridere e fare anche cose che mi piace fare, ma vorrei solo che tutto smettesse.
Perché non prenda le cose in mano piuttosto che sperare passivamente in un incidente, una tegola in testa, un meteorite, l’olocausto nucleare o semplicemente di non svegliarmi la mattina, non lo so: forse sono talmente codardo e incapace da non riuscire a prendere nemmeno una decisione nella mia vita? Ho semplicemente troppa paura del dolore? Di sbagliare qualcosa e trovarmi paralizzato o in dialisi o sfigurato per il resto della vita? Non voglio prendermi la responsabilità di far star male le persone a cui tengo? Non ne ho idea.
L’unica certezza è che, come si può intuire, i miei buoni propositi di Capodanno WIP sono deragliati malamente. Grazie a una telefonata ben più grande di ciò che sono in grado di gestire in questo momento, arrivata più o meno quando il post era completato all’80% (l’ho finito per pura testardaggine). Sul serio, proprio il giorno in cui mi sono detto: “Sai cosa? Quest’anno mi dedico a rimettermi in piedi!”. Con seguito via email proprio il giorno prima di partire per il week end a Milano a godermi una festa a tema Anni Venti con persone a cui voglio bene. Grazie, che tempismo.
Cioè, è normale che persone che sono state la piaga della mia intera esistenza riescano a essere così inopportune in maniera proprio capillare, con una precisione di ore, proprio nei momenti in cui ne avrei meno bisogno? È l’unica cosa che mi accende una scintilla d’incazzatura in una nebbia di rassegnazione.

TL;DR, lunedì devo ricomprare la carne perché, come tutto il cazzo di resto, è andata a male.

Tuesday 23 January 2018

Post volutamente fumoso

Ci sono decisioni difficili da prendere. Altre facili da prendere ma difficili da seguire. Un giorno decidi, pensi che sia tutto a posto, sai che è un’ottima idea… e poi rimandi. Fino alla prossima settimana, ché tanto quella attuale è già compromessa. Dal prossimo mese, ché quello corrente è andato com’è andato. Mezzanotte è un ottimo momento, solo che – ops! – non riesci a finire in tempo, rimandi tutto al risveglio la mattina dopo. E poi ti svegli con una frazione della risolutezza che avevi la sera prima e quindi rimandi al prossimo momento importante.

Lo scorso 31 dicembre era un ottimo momento per prendere una decisione: l’ultimo giorno dell’ultima settimana dell’ultimo mese dell’anno. Una chiusura perfetta, la domenica che precede il lunedì con tutto il resto impilato sopra. Per questo, nel post di Capodanno parlavo di seppellire vecchie abitudini. L’unica cosa che ho mancato è stata la mezzanotte vera e propria, sempre per sovrabbondanza, per così dire, così ho deciso di puntare al solito “vai a dormire col vecchio e ti svegli col nuovo”. Ha funzionato fino al giorno dopo, quando non ho retto. Poi ho rimandato fino al week end a Milano per il compleanno di BriarRose, perché sepellire qualcosa è più facile quando sei lontano dalle abitudini, dalla routine, da casa. Anche lì ho fallito miseramente e ho pure esaurito i buoni momenti per attuare la decisione.

E poi, dal nulla, oggi. Eccomi qui, con tre settimane di ritardo sulla tabella di marcia, ma determinato a onorare almeno uno dei propositi del nuovo anno. Con un po’ di false partenze e false conclusioni, ma si fa quel che si puo.
Non è un fine settimana, né un fine mese, né un fine anno: con quel genere di scadenze non ho avuto molta fortuna. Ho scelto un giorno qualunque – sto scrivendo questo post proprio per non dimenticarlo – e ho finito a mezzanotte per pura comodità, per avere un punto di partenza facile per contare il tempo. Diciotto ore dopo, sembra che stavolta stia funzionando. Vedremo come me la caverò a sgretolare tutte le piccole abitudini che ruotano intorno a questa faccenda.

Come post è volutamente fumoso perché si tratta di qualcosa che non amo ammettere e mi provoca sensi di colpa, e lo sto scrivendo come semplice promemoria per me stesso. Perché così un domani potrò ricordare questa data, misurare la strada percorsa e farmi forza nei momenti di debolezza che so che arriveranno.

Thursday 18 January 2018

Do I believe in love anymore?

Una volta, tanto tempo fa (tipo dieci anni), sono stato innamorato. Forse anche più di una volta. Non ne sono sicuro. I ricordi non aiutano, e sul blog c’è tanto materiale a riguardo, ma posso fidarmene? È difficile distinguere il ridimensionamento dovuto a una nuova prospettiva, la dimenticanza dopo tanto tempo e il vero e proprio revisionismo storico.

Se ripenso a Mattia, ad esempio, trovo ridicolo chiamarlo “amore” quando è stata letteralmente la storia di un pomeriggio. Tolto lo scambio di commenti sui reciproci blog e qualche chat su MSN, tutto si è consumato in quelle due ore a Milano e ha iniziato a sfaldarsi nel momento stesso in cui sono salito sul treno per Genova. Non è stata una storia a distanza perché non siamo mai andati oltre quel momento, non abbiamo comunicato davvero, non abbiamo pensato a un secondo incontro.
Eppure, undici anni fa sono stato davvero male. Ci ho sofferto per mesi, da gennaio all’estate inoltrata. Non era solo materiale per post lagnosi e foto a tema, ricordo che in Bielorussia ero ancora a pezzi ed era, assieme a un potenziale coming out (che fu rimandato), un discorso serio per cui la Mater mi stette a sentire e mi consolò.  Ci misi fino a settembre per riprendermi: il viaggio in Campania è il primo momento che ricordo in cui ripensavo a Mattia senza sentire dolore.
Per quanto ridicolo sembri adesso, per quanto minuscola l’effettiva vicenda, allora era tremendamente reale.

Con Matteo è difficile dirlo: la situazione ha preso una piega talmente inaspettata e surreale che, nella mia testa, la realtà è solo ciò che è successo dopo. Anche perché non l’ho mai confessato nemmeno a me stesso, ma trovo il prima imbarazzante.
Nonostante abbia fatto la cronaca quasi quotidiana di quei mesi, non ho mai davvero scritto sul blog cosa è successo alla fine: ho ripetuto a me stesso che il motivo era non sputtanare l’altra parte coinvolta ma, in realtà, è perché me ne vergogno.
Che poi, l’unica “colpa” che ho è essere stato un essere umano decente e comprensivo, ma sembrare un cretino prima e un debole poi è un attimo.
L’ho raccontato a pochissime persone, sempre temendo il loro giudizio (perché una delle prime che l’ha saputo è stata spietata – sempre la solita stornza), e ho dovuto talmente minimizzare la narrazione del prima per rendere logico e coerente il dopo che nei miei ricordi è rimasto ben poco di quella passione e quei sentimenti. Al massimo è rimasto l’odio bruciante per quell’hipster del cazzo che si è intromesso, perché un rancore è per sempre che De Beers levati.
Oggi al massimo dico che l’ultima volta che sono stato con qualcuno è stata dieci anni fa, senza scendere nei dettagli. Ma in effetti è vero: sono stato con qualcuno. Ho avuto una storia a distanza faticosa, tormentata eppure tremendamente appassionata. Ero davvero innamorato. Ho lottato quando c’era da lottare, gioito quando c’era da gioire e pianto quando c’era da piangere, e nei momenti in cui andava tutto bene c’era sostegno reciproco e stavo davvero bene. Non è un caso se, nonostante tutta la fatica durante e il dolore dopo, la cosa che ricordo meglio è la dedica che ho scritto sulla tesina della maturità.

Non sono stato debole a sostenere tutto quel dolore. Ma sono stato poco orgoglioso a lasciarmelo infliggere. Non m’importa minimamente di non essere stato orgoglioso allora, perché il rapporto valeva ben più di quello, ma è da allora che con chiunque sia arrivato dopo ne sono ossessionato: l’orgoglio. Salvare la faccia quando tutto finisce è la mia priorità. È una cosa che ho imparato sul campo con l’Uomo Lusingato, più che altro.
Ma il succo è questo: non ricordo nemmeno più com’è essere innamorati. Non riesco a interiorizzare perché tutti ne parlino come se fosse chissà cosa, né a livello emotivo, né tanto meno fisico. Non capisco perché lasciarsi debba essere ‘sto gran problema: basta semplicemente essere il meno coinvolto nella coppia per risparmiarsi grosse seccature, per il resto la vita va avanti.
Sono talmente distante da quel tipo di sensazioni che non riesco a immedesimarmici, né a considerarle più importanti della soddisfazione di avere l’ultima parola. E ho perso il filo di un discorso che già in partenza non sapevo dove sarebbe andato a parare.

Monday 15 January 2018

Close your eyes, close your eyes


Non ricordo se fosse proprio la mia prima volta su internet a casa, dal mio computer con la mia linea, ma è molto probabile. Vinta la strenua lotta contro la linea Tiscali, per prima cosa la Mater e io digitammo l’URL del sito di MTV e ci mettemmo a ficcanasare un po’. C’erano due canzoni consigliate per il free download: la prima non la ricordo proprio, la seconda era l’Oceanic Mix di Analyze dei The Cranberries. Mai sentiti nominare prima, il mio inglese ancora talmente rudimentale che pensavo significasse “Annalisa”, una lunghissima attesa perché i file si scaricassero con la 56K… quando poi le ascoltai, indovinate quale delle due canzoni mi rimase impressa.

I The Cranberries li vidi poi una sera a un live trasmesso da MTV e mi piacquero, anche se la cantante faceva quella strana camminata che la Mater commentò dicendo: “Ragazza mia, sembra che tu abbia la poliomelite!”. Fra “Annalisa” e le canzoni del live della polio, mi convinsi a farmi prestare da una compagna di scuola il CD di Stars (il best of), rigorosamente masterizzato dai marocchini, e scoprii che ‘sti Cranberries erano la band che aveva suonato quella canzone famosissima che avevo sentito da qualche parte e che aveva suonato perfino il gruppo musicale del liceo (ovviamente Zombie).

Streghe avevo iniziato a guardarlo dalla quarta stagione, ma presto arrivarono le repliche e – sorpresa! – avevano usato Animal Instinct (ormai ricordavo i titoli dal best of) all’inizio della puntata in cui moriva Andy!
E non solo: nella puntata in cui Phoebe ha un link telepatico con una Succuba e Prue diventa un uomo per sconfiggerla, all’inizio c’è Promises mentre alla fine ci sono proprio loro, i The Cranberries, a suonare Just My Immagination al P3! Siccome quella puntata l’ho amata e la scena finale è una delle mie preferite in tutta la serie, da lì questi Cranberries hanno iniziato a piacermi davvero.


Scoprii poi che il nome della band era quello di un tipo di mirtillo rosso (cercando “Cranberries” su Google Image uscivano foto delle bacche) e mi venne il capriccio di assaggiarli, un giorno o l’altro – cosa fatta poi in vacanza-studio in Inghilterra.
E a proposito di vacanze-studio, il terzo anno andai in Irlanda e, per coincidenza, il college si trovava vicino a Limerick. Ovviamente comprai Stars alla prima gita in centro: non potevo non comprare qualcosa dei The Cranberries nella loro città d’origine. Anche se, di quel viaggio, come colonna sonora ricordo più Chimera dei Delerium, ho ascoltato volentieri anche le canzoni di questi Shannonsider illustri.

Da lì in poi, lo ammetto, li ho un po’ persi di vista. Ho però sentito qualcosa di Dolores solista e sono stato contento di vederli fare un comeback nel 2012: ricordo di aver visto Roses esposto mentre compravo un libro della Christie nella Feltrinelli di Milano Centrale. Un altro piccolo momento che ho finito per associare a loro.

E no, non sono mai stato un grande fan dei The Cranberries come lo sono di altre band; non ho raccolto meticolosamente tutta la loro discografia, b-side e versioni alternative comprese, non ho passato lunghi periodi ad ascoltare solo loro e non posso dire di essere cresciuto con la loro musica nello stesso modo in cui, ad esempio, sono cresciuto con gli Evanescence. Però ho sempre ascoltato volentieri le loro canzoni quando mi è capitato, ho apprezzato la voce e lo stile di Dolores, ammirato l’impatto che lei, con i suoi compagni, ha avuto sulla musica internazionale.
E, soprattutto, ho tanti ricordi della mia adolescenza, piccoli e meno piccoli (il primo di internet, nientemeno!) che sono in qualche modo legati a loro. Che siano specificamente il soggetto di quei ricordi o ne facciano parte marginalmente, sono stati lì con me. Dolores O’Riordan è stata lì con me. Ed è per questo che, oggi, sono dispiaciuto per la notizia della sua scomparsa e voglio dedicare un pensiero, un po’ di nostalgia e un abbraccio virtuale ai suoi cari, la sua famiglia, i suoi amici, i compagni di band e i fan – quelli con la F maiuscola che l’hanno seguita più assiduamente di me. Tramite la sua musica, ha significato qualcosa ed è diventata parte della vita di tante persone, anche nelle piccole cose.

Monday 1 January 2018

Capodanno WIP

Anch’io ho i miei talloni d’Achille, perfino negli ambiti in cui le mie posizioni sono più nette: quello delle feste comandate, ad esempio, è il Capodanno. Se il Natale lo accolgo con percentuali variabili di indifferenza e fastidio a seconda di quanto me lo sbattono in faccia, la Pasqua – wait, la Pascosa? – dicevo, il Ferragosto come il giorno in cui mi barrico in casa per evitare le orde di turisti, i Santi e i Morti con un rapido rolleye, eccetera, il Capodanno è l’unica festa che sento davvero e a cui partecipo.
Ovviamente non nel senso di munirmi di alcool del discount, scendere in piazza in mezzo alla gente, fare il count down, urlare come un deficiente, agitare e stappare la bottiglia di spumante facendolo schizzare dappertutto come surrogato fallico, partecipare ai tremendi concertoni locali o seguire quello ancora peggiore della RAI – quelle sono cose che detesto e rendono la domanda “Che programmi hai per Capodanno?” particolarmente indigesta. E comunque, non fate finta di sorprendervi quando dico: “Sto a casa a guardare film con la mia migliore amica”, sotto sotto nemmeno voi volete davvero scendere in piazza a fare lo slalom tra i petardi e le chiazze di vomito.
Dicevo, quindi, il mio non è il capodanno VIP della festona: è un giorno che celebro interiormente con piccole tradizioni. Sento davvero un senso di chiusura e inizio di un nuovo ciclo, così mi piace fare cose benaugurali perché “come passi Capodanno poi passi tutto l’anno” – che come superstizione è piuttosto innocua.
Quest’anno però ho deciso di cambiare un po’ le carte in tavola: così come sono rimasto a Trieste evitando tout court lo stress dei parenti per Natale (e lo stress del Natale tout court), ho anche rivisto completamente il mio approccio al Capodanno. Di solito, gli ultimi giorni dell’anno sono una grande corsa a sistemare le cose: si pulisce casa, si prepara la roba vecchia da buttare via, ci si fa i capelli, la barba e quant’altro il 31 dicembre così, a mezzanotte, si è lindi, pinti e perfetti per salutare l’anno nuovo.

Ebbene, il 2018 l’ho iniziado come il relitto che il 2017 si è lasciato alle spalle, né più, né meno. Del resto, avendo pianificato di passare davvero la serata a casa su Skype con Katia, e avendo evitato di invitare gente per l’altra superstizione di Capodanno, me la sono potuta cavare con barba incolta, capelli sporchi e camera che è un caos senza fine.
Perché alla fine è vero, nel 2017 mi sono trascurato: mettevo i momenti di cura personale come “premi” finito di occuparmi degli altri, rimandavo la sistemazione della stanza a dopo aver sistemato gli spazi comuni, e alla fine non avevo più davvero le forze o la voglia di fare qualcosa per me se non il minimo socialmente accettabile. Idem in questi giorni: approfittando dell’assenza di tutti i coinquilini, ho rimesso in sesto l’intera casa, riordinato e pulito a fondo la cucina, grattato via il calcare dal piatto doccia a forza di bicarbonato, aceto e olio di gomito, lavato a fondo il corridoio, il tutto probabilmente per zero riconoscimento quando la truppa sarà tornata (e francamente, magari trovassi casa così io tornando da una lunga assenza), e non ho avuto tempo né energie da dedicare a me o alla mia stanza.
Ma poi mi sono detto, se “come passi Capodanno poi passi tutto l’anno”, perché mentire? Che senso ha che mi faccia trovare in condizioni splendide dal nuovo anno se il vecchio è stato un mezzo disastro?
E ora eccomi qui, sbarbato, con i capelli puliti e in piega, dopo che ho rimesso in ordine e spolverato per lo meno una parte della camera. Invece che farmi trovare pronto e perfetto dal nuovo anno sperando che tutto l’anno continui ad andare magicamente bene, l’ho iniziato rimettendomi in sesto con l’augurio che per tutto l’anno mi resti la determinazione di stare bene. Mi sono svegliato con calma, ho pranzato, ho preso del tempo per me, non ho preteso di fare tutto in una volta in camera, non ho contato i minuti in doccia, non ho ceduto alla tentazione di rimandare perché avrei potuto fare altro, ho messo i puntini sulle I con chi è già rientrato circa il fatto che io ho fatto trovare casa pulita e pretendo che resti tale, dopo di che mi è venuta dal nulla l’ispirazione per una foto e bam!, sono anche stato creativo. C’è stato giusto un po’ di sforzo per vincere l’inerzia iniziale (e perché sto seppellendo vecchie abitudini, ma shh!), ma sono riuscito a essere produttivo verso me stesso e verso gli altri senza arrivare esausto a fine giornata.

Stare bene, fisicamente e mentalmente, richiede un processo attivo e costante. Fin qui, l’approccio di iniziare l’anno in gloria e vedere dove va a parare non ha pagato. Vediamo ora che l’ho iniziato work in progress, con tutte le azioni per rialzarmi e sentirmi una persona. Fin qui, mi sento energico e motivato e non ho intenzione di tornare nello stato in cui ero nelle scorse settimane.
Chissà che non sia questa l’attitudine giusta.