Wednesday 29 August 2018

Rabbia in moto

Fra tutte le emozioni, ho meno difficoltà ad ammettere di provare rabbia, visto che la trovo in qualche modo empowering (sì, lo so: che cosa oscenamente eteronormativa da parte mia). Ciononostante, ho il brutto vizio di imbottigliare anche quella, visto che ammettere che qualcuno mi ha fatto arrabbiare è comunque dargliela vinta, nella mia visione distorta dei rapporti umani.
Il dottore mi ha detto che è legittimo e salutare che io la provi quando necessario, e mi ha suggerito di incanalarla in qualcosa di costruttivo per me e per la comunità.
Beh, finalmente è capitata l’occasione.

Uno dei miei berserk button è la gente che non rispetta regole basilari tanto facili da seguire come il codice stradale. I ciclisti sul marciapiede sono in cima alla lista, ma anche chi ci parcheggia non scherza.
Beh, nel mio isolato, all’altro angolo, vive una famiglia di, uhm, bravissime persone che ha il vizio di parcheggiare non una, ma ben due moto una di fila all’altra sul marciapiede. Un marciapiede largo meno di un metro, e proprio in corrispondenza di uno scivolo per gli invalidi le cui mattonelle al bordo si sono sollevate creando un ulteriore ostacolo. Il tutto con tanto di passo carrabile a loro nome, vialetto nel cortile e garage.
Ieri, io e la Mater abbiamo incontrato la signora mentre stava giusto parcheggiando la sua moto e le abbiamo chiesto gentilmente non dico di non parcheggiare sul marciapiede, ma di metterne una almeno dall’altra parte del cancello, in modo che non sia d’ostacolo in corrispondenza della mattonella fuori posto – questo perché nel nostro palazzo abitano diverse donne anziane che vanno a fare la spesa col carrello e hanno, puntualmente, difficoltà a passare. La signora in questione prima ha ironizzato sul fatto che almeno le moto coprono le buche sul marciapiede, poi ha fatto un gestaccio rivolto a me e alla Mater, rientrando in casa.
“Ah, brava. Bravissima. Che educazione. E guardi che la moto non si può parcheggiare sul marciapiede a prescindere.”, le grido dietro.
Lei esce furiosa: “Cos’hai detto?”
Io: “La moto non si può parcheggiare sul marciapiede a pre…”
Lei: ‘“Cos’hai detto dopo?”
Io: “La moto non si può parcheggiare sul marciapiede a prescindere.” (Cioè, signora mia, si lavi le orecchie o almeno legga il labbiale).
Al che lei, con aria di sfida, mi fa: “Tu non sei un vigile urbano”, e rientra.

Ah. Non sono un vigile urbano, quindi?
Per combinazione, io e la Mater stavamo uscendo perché dovevo andare a fare la pulizia dal dentista. La Mater, che a quel punto era fuori dalla grazia di dio, attacca a sbraitare a ruota libera che l’unico motivo per cui non è ancora andata a fare un esposto è che hanno spotato la centrale dei vigili urbani troppo lontano da casa… nella parallela, due traverse più in là, del mio dentista. A quel punto non ci ho visto più.
Bene, la signora mi ha sfidato? Finita la visita, prendo e vado dritto in centrale, incastro subito il vigile chiedendogli se “forse ricordo male, ma non è consentito parcheggiare un veicolo sul marciapiede?”, “No, assolutamente.”, “Nemmeno una moto?”, “Eh, ma sta scherzando?!”, e da lì gli espongo ciò che è successo. Lui promette che passeranno e risolveranno la cosa.

Beh, indovinate che cosa non è parcheggiato dove, oggi? E meno male che non ero un vigile urbano.
La signora ha fatto l’errore di lanciarmi la sfida mentre era in torto. Cosa credeva, che non mi funzionassero le gambe ad andare lì e fare un esposto? Che non glielo avrei fatto rimangiare approfittando di aver ragione? Non m’importa se l’hanno solo avvisata, non m’importa se l’hanno anche multata, ma la sua moto su quel marciapiede non ci può stare.
E ha anche avuto la fortuna di beccare qualcuno che è capace di portare rancore per decenni. Perché cosa crede, che ora si cheteranno le acque e potrà tornare a parcheggiare dove le pare? Sbagliato: ogni volta che sarò in città e vedrò una di quelle due moto sul marciapiede, farò una foto con tanto di targa e partirà un esposto ai vigili urbani (ho controllato e, ai fini dell’esposto, non è lesivo della sua privacy). E se continua sono disposto ad arrivare anche dall’assessore ai trasporti.

Così eccomi qui: ho abbracciato la mia rabbia, l’ho sfogata in modi leciti e costruttivi, ho avuto la mia vendetta, ho rimesso a posto una signora e ho fatto qualcosa per il mio intero palazzo. La terapia sta iniziando a dare dei frutti concreti.

Monday 27 August 2018

Room of double roses

La parte più difficile del mio percorso per diventare un adulto funzionale è accettare le emozioni. Accettare che non c’è vergogna nell’averne, che sentirle non fa di me un essere debole, ma umano. E accettare che non sempre – anzi, quasi mai – sono razionali.
Ecco, il difficile è soprattutto quello: abbandonare l’idea per cui ogni singolo aspetto della mia vita debba essere controllato dalla ragione e ogni cosa che non vi si conforma vada fatta sparire. Ho il diritto e il dovere di sentire le mie emozioni, anche quando vanno in contrasto con la logica e il buon senso. Non devo arrabbiarmi con me stesso, non devo vergognarmene, non devo temere alcun giudizio: la ragione va messa nelle azioni, non nello stato interiore.

D’altro canto, per quanto irrazionale sia il motivo, se per esempio mi sento triste cosa posso fare? Pur con tutta la consapevolezza del mondo, non posso impormi di non esserlo. Devo accettarlo e lasciarlo svaporare.
Se ho voglia di sedermi un po’ a fissare il vuoto con gli occhi lucidi, non devo far finta di niente. Se decido di girare per il centro storico tutto il pomeriggio ascoltando una playlist con le canzoni più strappalacrime da Double Roses di Karen Elson e Room di Eivør, posso e devo farlo. E se ad ogni buon conto voglio aggiungerci sopra 10 Pieces, 10 Bruises di Jonna Lee, ben venga. Se voglio far finta che quelle canzoni parlino di me anche se so che non è così, è una mia prerogativa. Anche se so benissimo che il motivo per cui sono così triste è stupido e irragionevole, ciò che sento è quello, non ha senso che continui a ripetermi che in quel momento va tutto bene.

E in effetti, oggi pomeriggio prima ho cercato, come al solito, di far finta di nulla; ma quando mi sono deciso a essere onesto con me stesso, mi sono sentito bene, di una leggerezza che non ritenevo possibile. Anche perché dopo che Room e Double Roses hanno portato il casino che sentivo dentro a galla, 10 Pieces, 10 Bruises l’ha esorcizzato grazie al contrasto fra la malinconia dei testi e l’allegria delle melodie (potrei star facendo pubblicità occulta).
Probabilmente ho bisogno di metabolizzare ancora un po’ di cose (sto imparando a concedermene il tempo), ma riconoscere questo bisogno è già una vittoria per me. E se stanotte la passerò col sonno agitato anche se so che a pungolarmi è una stupidaggine, è ciò di cui la mia mente ha bisogno per processare ciò che succede, liberarsene e andare avanti.

Thursday 23 August 2018

Sangue nel dentifricio

Non dico di essere riluttante a cercare aiuto quando non sto fisicamente bene; dico solo che, finché posso, evito anche solo di ammettere di stare male.
Così eccomi qua, dopo tre settimane buone di gengivite prima ignorata e poi automedicata, di sangue nel dentifricio, gonfiore, fitte mentre mastico, finché mi sono trovato con metà faccia indolenzita a ogni ora del giorno e della notte e finalmente sono andato dal dentista a farmi prescrivere un antibiotico e un gel antisettico in vista della pulizia.

Naturalmente, oltre che col dolore, ho passato queste settimane ad arrovellarmi su come potessi essermi ridotto così, visto e considerato che i giorni in cui non mi sono spazzolato i denti almeno prima di andare a dormire, negli ultimi sei o sette mesi, si possono contare sulle dita di una sola mano.
E soprattutto, cosa avrei detto al dentista? Cosa avrebbe pensato di me, del fatto che ho lasciato che mi venisse una gengivite di queste proporzioni?

La risposta è che il dentista non avrebbe pensato proprio niente; un po’ perché ha visto sicuramente di peggio, un po’ perché la grande verità è che la maggior parte delle malattie, semplicemente, capita. Mettermelo in testa è particolarmente difficile visto che, quando ero piccolo, la Mater ha sempre trattato le mie malattie come se fossero colpa mia.
Cioè, com’è che funziona, di solito? Per un motivo o per l’altro, per quanto ti sia sempre coperto bene, lavato le mani appena rientrato a casa, evitato di metterti nella linea di fuoco degli starnuti altrui, i germi arrivano a te e ti tocca farti quella settimana a letto con la febbre.
Poi per carità, la Mater si è sempre prodigata per prendersi cura di me quando stavo male, aiutarmi a guarire, comprare le medicine e tutto, ma la sua prima reazione è sempre stata di fastidio, biasimo e rabbia. C’è sempre stato un rimprovero più o meno velato, per motivi che andavano dal perdere giorni di scuola al perdere giorni di pianoforte / karate / quello che è, fino al rischiare di contagiare lei. Il tutto per qualcosa totalmente al di fuori del mio controllo.
Col senno di poi, non c’è da sorprendersi se a) sono un maniaco del controllo in generale, e b) sono diventato un maestro nel mentire a me stesso, far finta di stare bene e dover correre ai ripari quando poi è troppo tardi. È quasi successo con la mia depressione a più riprese, e succede continuamente con qualsiasi raffreddore, febbre, gonfiore o simili (le uniche malattie che non posso ignorare sono quelle gastrointestinali perché quelle non si lasciano ignorare).

Alla fine, l’antibiotico l’avrei preso anche prima, e la prognosi non sarebbe stata particolarmente migliore o peggiore di adesso. L’unica cosa che ho ottenuto sono state settimane di dolore in più.
E ok, in parte ho paura di andare dal medico e scoprire che ciò che ho è ancora più grave di quel che pensassi, ma devo essere onesto con me stesso e accettare che buona parte del motivo è che la mia corsa a essere l’Übermensch passa anche per la (percezione di) salute. Anche qui: ammetto di avere questo problema, ora devo raccogliere i cocci e rimetterli assieme.

Wednesday 15 August 2018

Swooning at the edge of the world

Mentre passeggiavo in centro storico ad Alghero stasera, mi sono seduto per qualche minuto su una panchina del lungomare. Davanti a me, l’orizzonte al crepuscolo: il mare calmo e pieno di barche di pescatori con le loro luci, sotto il cielo che, tramontato il sole, iniziava ad accendersi di stelle. Impossibile non notare la falce di luna crescente contornata da altre luci piuttosto nitide: a ovest Venere, a sud Giove, entrambi luminosi come i fanali dei pescherecci.
Seguendo l’eclittica verso sud, ho poi trovato Saturno in cima e Marte, enorme per via della relativa vicinanza alla Terra, di un ruggine vivo a sud.
Ho aperto Sky Map giusto per essere sicuro di averli azzeccati tutti e ho scoperto che anche Plutone era lì, fra Saturno e Marte, troppo debole per l’occhio nudo ma sempre presente. Mercurio era vicino al Sole appena tramontato, e perfino Nettuno e Urano erano poco sotto l’orizzonte, a est.

Ed è in quel momento che ho “percepito” il Sistema Solare.
Non so come spiegarlo: mi è mancato il fiato di fronte alla consapevolezza che tutti i corpi celesti che avevo visto nelle foto fossero lì, davanti a me, più lontani o vicini, visibili o non visibili, ma là fuori. Tutta quella bellezza lì, davanti a me, indisturbata dalle brutture che gli esseri umani si lanciano addosso l’un l’altro su questo pianeta.
Mi sono sentito come se fossi sull’orlo del mondo e davanti a me ci fosse non il vuoto, ma qualcosa di bello e pieno di colori e particolarità. Che per quanto piccolo, anch’io fossi parte di tutto ciò.
Era da tanto che non sentivo un qualche senso di appartenenza, e questo è stato pressoché universale. È stata una sensazione bellissima.

On a side note, questo mese tutti e otto i pianeti più Plutone sono nella stessa metà del Sistema Solare. Non so quanto sia raro o statisticamente improbabile, ma capiterà di nuovo fra due anni, e poi a metà degli Anni Venti, quando saranno tutti più o meno nello stesso quarto del Sistema, come calcolato da The Planets Today.

15 agosto 2018; dimensioni e distanze non in scala, ma le posizioni sono quelle.