Wednesday 23 January 2019

Neve a Trieste

Oggi ha nevicato a Trieste. Sono tornato ieri sera (con un viaggio stranamente non della speranza), mi sono buttato a dormire, e stamattina presto mi sono trovato un numero spropositato di chiamate da Giulia, che è rimasta attaccata al telefono tentando di svegliarmi finché non l’ho sentita e non le ho risposto. Se non l’avesse fatto, avrei dormito fino all’ora di pranzo per recuperare le forze e sarebbe stato troppo tardi per saltare su un autobus, arrivare al Cimitero di Sant’Anna e scattare Frozen, il trittico di foto con relativa grafica ispirato alla canzone dei Theatre of Tragedy che mi serviva per completare una trilogia con Hollow e Illusions. La neve, fondamentale per il concept e le estetiche del lavoro, si sarebbe già sciolta e sarei rimasto per l’ennesima volta con un palmo di naso – e stavolta mi sarebbe roso ancora di più perché ero lì.
Amicizia è sapere che, per quanto io adori dormire, tengo molto più alle mie foto, quindi vale la pena di rischiare una valanga di insulti (che non c’è stata) e svegliarmi in tempo.

In questi anni, la neve a Trieste me la sono sempre persa perché ero in Sardegna – l’anno scorso ha addirittura nevicato a marzo proprio il giorno che ero sceso per votare. Hollow è del 2013, Illusions del 2014, quindi sono anni che ho aspettato questo momento con l’idea ben fissata in testa.
Adesso, onestamente, ho paura. Non riesco ancora nemmeno a scaricare le foto sul computer per il timore che non siano all’altezza delle aspettative che mi sono fatto. Ero stanco, mezzo addormentato e un po’ di fretta per non farmi beccare da qualche custode mentre armeggiavo con treppiede e tutto, mi sono scontrato con le difficoltà di scattare un autoritratto all’aperto senza un assistente e, in più, ho dovuto gestire la neve e non far morire la fotocamera nel processo.
Dalle anteprime, che ho guardato con cura prima di smontare tutto e andarmene, di materiale valido ce n’è parecchio: c’è solo da vedere se sarà buono quanto un’idea che è rimasta a fermentare per anni.

Ma me ne occuperò dopo un sonno ristoratore, di cui sento di avere decisamente bisogno. Poi magari rimetterò un filo in ordine la camera, ancora disastrata dal mese di assenza, e finalmente mi concederò il piacere di realizzare e concludere questo progetto. Chissà che, come con Belial l’anno scorso, il risultato non sia un favoloso premio per tutti questi anni di pazienza e frustrazioni.

Friday 18 January 2019

Forget

Yeah, I’ve been dancing with the devil:
I love that he pretends to care
If I’ll ever get to heaven
When a million dollars gets you there.
Oh, all the time that I have wasted
Chasing rabbits down a hole
When I was born to be the tortoise,
I was born to walk alone.
Forget about it.
Forget about it.
Forget about it.

Mi sto rendendo conto che crescere, maturare, significa anche accettare con più serenità la fine di un’amicizia. Senza drama, con giusto la quantità necessaria di shade per esorcizzare la delusione, ma senza necessariamente perdere nulla di ciò che è stato.
Provare attivamente a sistemare le cose ma sapere quando fermarsi aiuta a non avere rimpianti: non è più un gioco di potere, una questione di fingersi intoccabili, di orgoglio da proteggere anche a costo degli affetti – è solo salvaguardare il rispetto di se stessi quando, durante un confronto, tentano di manipolarci. Non è più volersi salvare la faccia, ma proteggersi dal comportamento tossico di una persona evidentemente priva di empatia.

E poi si impara anche ad accettare che i tempi in cui un rapporto è tutto o niente sono passati. Quando un’amicizia finisce, a seconda delle circostanze, non per forza ci si smette di sentire: si può rimanere buoni conoscenti, scambiarsi qualche convenevole di tanto in tanto e mantenere intatta la cortesia.
Per come sono fatto, per il peso che do all’amicizia, quando una persona mi spinge al punto di volerla interrompere è perché ha fatto qualcosa che ritengo davvero, davvero imperdonabile: tutto il bene che voglio si trasforma istantaneamente in acredine. E dato che sono capace di volere molto, molto bene, sono anche capace di portare molto, molto rancore, anche per tutta la vita. È stato proprio notare come, a questo giro, non sia successo, che mi senta solo deluso, non arrabbiato, ad avermi fatto riflettere.

Ma soprattutto, ti accorgi di essere un po’ più maturo quando riesci a guardare indietro e non cambiare prospettiva su ciò che è successo prima della rottura. Mi è capitato più volte di litigare con qualcuno, smettere di parlarci e non riuscire più a ripensare ai momenti condivisi perché la fine dell’amicizia li aveva in qualche modo intorpiditi. Non stavolta: nulla degli ultimi anni è diventato opaco, amaro, è semplicemente passato. E ritengo che riuscire a conservare ciò che un’amicizia ti ha dato dopo che è finita sia un bel modo di diventare più maturi.
Quanto all’acredine,
sometimes you have to learn to forget about it.

Saturday 12 January 2019

Bandiera

Negli ultimi mesi, ho lavorato come social media manager per alcune aziende locali. Nulla di spettacolare, si è trattato per lo più di gestire gli account Instagram e piazzare like strategici in modo da aumentare il traffico in arrivo: miravo ai post geolocalizzati a Trieste e mettevo una sfilza di like ogni tot tempo, in modo da attirare le persone del posto sui profili e far crescere le attività così che l’algoritmo li rendesse più visibili.
Ci sarebbe una miriade di parole da scrivere sulle miserie umane che ho visto, fra sfilze di selfie a caso tutti uguali, senza contesto, post di buongiornissimo sera e mattina (giuro che quasi pensavo non esistessero davvero) e gente sessualmente preoccupata, ma mi sono accorto, col tempo, di trovare molto più insidiosi altri tipi di post.

Naturalmente, rappresentando col mio lavoro delle aziende, non è che potevo mettere like indiscriminatamente a tutto ciò che mi capitava sott’occhio. Qualcuno voleva che evitassi “la concorrenza”, quindi dovevo schivare tutti i post simili (ma fare attenzione a includere quelli che potevano essere potenziali clienti). Con tutti, dovevo evitare i post “dal contenuto sensibile” e, anche se non mi è stato detto esplicitamente, io ci ho incluso quelli politici: chiaro che un’azienda debba mantenersi neutrale nelle questioni politiche per non rischiare di alienarsi una fetta di mercato, da una parte o dall’altra. E ai post di destra sono io, per le mie convinzioni, a rifiutarmi di dare attenzione mediatica – il che non è molto facile, con i nostri giovani consiglieri comunali leghisti che passano più tempo attaccati allo smartphone che a fare il loro lavoro.
Le giornate peggiori le ho avute quando c’è stata la manifestazione di CasaFotte (mi rifiuto di far indicizzare il mio blog con quel nome) e relativa contromanifestazione: la seconda l’ho snobbata per par condicio, ma la prima mi faceva semplicemente vomitare. Daje allora a schivare i post con fumogeni, tricolori sventolati, gente che urla, tartarughe nere e – ho già detto tricolori sventolati? Il giorno della manifestazione e la settimana che è seguita ho veramente giocato a campo minato.
Ma non è solo CasaFotte a sventolare il tricolore, purtroppo: anche i nostri amici leghisti sembrano amarlo un sacco. E anche loro li dovevo e volevo evitare. Così, pian piano, ho iniziato a entrare nel panico, skippare o, a danno fatto, correre a togliere alla chetichella il like a qualsiasi post con la bandiera italiana.
E questo, dopo un po’, ha iniziato a farmi tristezza, orrore e vergogna insieme.

Proprio così: mi sono reso conto di vivere in un periodo storico in cui la mia bandiera, il simbolo del mio Paese, mi suscita vergogna.
Vero che sono di natura apolide, sono cresciuto in una famiglia multiculturale con i problemi identitari che ne conseguono, non ho praticamente legami affettivi o identitari con “La Mia Terra™” e i Quattro Mori mi fanno cringeare forte, se devo dichiarare un’identità mi definisco europeo prima che italiano. Ma italiano lo sono pur sempre, sono nato e cresciuto qui, ho studiato qui, la mia nazione ha inevitabilmente scolpito parte della mia identità.
Per questo mi fa tristezza vedere che del suo simbolo si è appropriata la peggior feccia, gente che la usa per mascherare come identità nazionale la sua piccola mentalità vuota, tutta pregiudizi, che nella sua insicurezza odia qualsiasi cosa percepisca come una minaccia. La bandiera italiana dovrebbe essere il simbolo di una nazione disastrata e spesso poco seria, sì, ma che ha alla base un intreccio millenario di culture e tradizioni da cui attingere per diventare unica, un tassello meraviglioso della nazione europea che, a sua volta, fa parte del mosaico che è l’intera umanità. Dovrebbe farmi sentire un senso di appartenenza, inclusione, celebrazione di una storia di alti e bassi ma unica e ricchissima. Invece ormai la percepisco come un simbolo di odio, prevaricazione, superiorità millantata, chiusura, discriminazione.

Come siamo arrivati a questo punto? C’è un modo per fare retromarcia, schiacciare sotto le ruote il becero nazionalismo e riportare il tricolore al simbolo di un’identità poliedrica e culturalmente ricca che può arricchire e farsi arricchire dalle bandiere di altro colore? Arriverà un momento in cui, quando vedrò a colpo d’occhio la bandiera italiana su internet, penserò di nuovo non che è il post di qualche bigotto che vuole escludere il resto dell’umanità, ma di un Italiano che vuole celebrare la cultura che ha forgiato la sua identità di cittadino del mondo?

Thursday 10 January 2019

Sardinian Gods

Mi affascina molto una stele votiva alla Madonna che si erge all’imbocco della strada che, dalla statale, porta a Tottubella, una minuscola borgata agreste di Sassari. Nulla di straordinario, un elemento insignificante del paesaggio che sfreccia oltre i vetri del pullman: quattro blocchi di cemento sciupato e coperto di licheni, con un brutto bassorilievo della Madonna col Bambino e gli immancabili fiori di plastica offerti sotto. E la scritta: “Maria, benedici i nostri campi”.


Accidenti, penso io. Un po’ presuntuoso pretendere che la sola ed unica Madonna, madre dell’intero ecumene cristiano, non abbia di meglio da fare che spendere una buona parola con l’Onnipotente affinché renda fertili i campi di Tottubella (SS), popolazione 307. Formulazione che ho arricchito io, fra l’altro, visto che dalla scritta sembra che sia lei stessa ad agire quando, canonicamente, il massimo che può fare è intercedere.

Ma poi penso, la formulazione è corretta: alla fin fine, non è a Maria che si rivolgono, ma a qualche divinità agreste locale assorbita nel culto monoteistico. E non è nemmeno presuntuoso pensare che dedichi la sua attenzione ai campi di Tottubella, visto che sono la sua dimora, il suo dominio, e la loro fertilità rientra nei suoi poteri.
Rivolgersi a divinità super-specializzate per piccoli affari locali è tipico del paganesimo; e del resto, tutte le varie Santa Maria del Fiore, Santa Maria del Pozzo, Madonna Nera e le altre “varietà locali” della Madonna non sono tanto “avatar” di Maria, quanto divinità preesistenti, Madri Natura inglobate nell’unica figura femminile di spicco del Cristianesimo.
In effetti, trovo affascinante questo aspetto del Cattolicesimo in particolare: tutte le varie processioni con i feticci di legno, le offerte agli altari dei Santi, la devozione locale che, in pratica, rivaleggia quella per Yaweh e Gesù. Sono tutte divinità minori pagane a cui la gente era troppo legata, più che a Giove, Giunone e compagnia, per abbandonarle così d’un punto in bianco. L’onnipresenza del Paganesimo nel Cristianesimo ha un che di ironico e divertente.

Così, ora, eccomi a immaginare uno scenario stile American Gods: una qualche vecchietta a Tottubella che, dirottando il culto mariano, trae sostentamento da quei fiori di plastica, diligentemente sostituiti appena sbiadiscono, che le vengono offerti sotto quell’altarino cheap in cambio di un raccolto generoso. Vive lì dalla preistoria, da quando era la sacerdotessa di uno dei numerosi nuraghi della zona, e oggi se la ghigna alla faccia della Madonna per cui si spaccia.

Wednesday 9 January 2019

Lasciamo andare l’aria

Giusto per sapere come è andata a finire.
Alla fine il mercoledì è arrivato e, semplicemente, il Mac si era auto-ibernato perché, per la prima volta, l’avevo davvero sovraccaricato con troppi processi da elaborare allo stesso tempo, ed era da tanto che non facevo una deframmentazione. Bastava solo forzare il riavvio, chiudere un po’ di applicazioni, deframmentare e ha ripreso a girare come una trottola. Di nuovo, la macchina in sé non aveva alcun problema, tant’è che non ho nemmeno pagato l’intervento.
La batteria è sì da sostituire, ma non era la causa del malfunzionamento e potrò quindi farlo con calma quando avrò finito di lavorare e mi sarò preparato psicologicamente alla cosa. The end.

Di nuovo, sono molto, molto soddisfatto di me stesso per i nervi saldi con cui ho affrontato l’intera faccenda. Credo che già solo un anno fa avrei avuto un meltdown totale e sarei morto divorato dal panico, mentre oggi ero solo un pochino ansioso di sapere date e costi specifici, ma me la sono cavata al meglio.
A questo punto, non mi resta che aspettare di tornare a Trieste, dove ho l’hard disk esterno, rifare per sicurezza il back up di tutti i file importanti (che non faccio da troppo tempo), spostare del tutto file che non mi serve tenere sul disco interno e sarò pronto a fare una nuova deframmentazione a Macbook più leggero. Poi deciderò quando occuparmi della batteria – e magari dimostrerò a me stesso di essere davvero cresciuto un po’ evitando di procrastinare per un altro anno e mezzo.
In ogni caso, è bello essere in grado di gestire la propria vita. Yay.

Monday 7 January 2019

Facciamo un respiro profondo

Sto iniziando ad accusare il colpo a distanza di qualche ora dall’avvenimento: il mio Macbook è temporaneamente fuori uso per quello che, probabilmente, è un problema di alimentazione. La batteria dava segni di sofferenza già da qualche tempo e, finalmente, ha ceduto al punto che nemmeno la corrente riesce a bypassarla (o qualcosa del genere).
Ecco, adesso sì, mi sento triste. Sto lentamente realizzando che nei prossimi giorni la mia quotidianità sarà messa a soqquadro finché il Mac non resusciterà secondo le Scritture.
Saprò qualcosa di preciso solo mercoledì, perché il tecnico del centro Mac di Sassari è fuori fino ad allora. Potrebbe volerci solo un giorno, se si tratta della batteria e ne hanno una in magazzino, così come il tempo di ordinarla dalla Apple, o fino a dieci giorni lavorativi se il problema è un altro.

So già tutto questo perché la seconda cosa che ho fatto (dopo chiamare la Mater in cerca di sostegno) è stato gogglare il negozio e telefonare. Lucidamente, senza iperventilare, senza cedere al panico. Di sicuro ha aiutato il fatto che il computer non si sia freezato, non abbia dato messaggi di errore o altro, ma si sia semplicemente spento come quando chiudo lo schermo o finisce la carica della batteria: sono abbastanza sicuro che i dati siano a posto.
Però ecco, ho affrontato la situazione con nervi saldi e calma, senza lasciarmene travolgere. E anche adesso mi sto dando il tempo di elaborare il lutto e sentirmi triste, ho preso con lucida rassegnazione l’attesa forzata fino a mercoledì e non sto a colpevolizzarmi su “Se avessi sostituito la batteria prima”. Tanto il risultato sarebbe stato lo stesso – tempo X senza computer – ma magari non sarei stato psicologicamente in grado di reggerlo.

Per inciso, “già da qualche tempo” era più di un anno e mezzo, eppure la batteria ha continuato a sopravvivere per tutto questo tempo. E ha più di sei anni di vita senza sostituzione. Il Macbook stesso è la terza volta che ha bisogno di attenzione da quando l’ho comprato nel 2012 – e la prima è stata una mia svista, non un problema suo. Per quanto mi riguarda, la gente può riempirsi quanto vuole la bocca del fatto che si paga il brand e posso trovare un equivalente a un terzo del prezzo e senza assistenza super costosa, ma la verità è che in quasi sette per il Macbook anni ho speso in totale forse anche meno di quanto avessi speso per i due PC portatili fra il 2008 e il 2012. Haters gonna hate, I guess.