Nei boschetti vicino a dove vivevo da bambino era molto diffusa l’edera. Gli alberi erano molto alti ma sottili e l’edera ne ricopriva i tronchi avvinghiandosi fino alla cima e sembrava quasi soffocarli; la cosa era particolarmente evidente d’inverno, quando le foglie degli alberi cadevano mentre l’edera rimaneva verde. Era un dettaglio che mi colpiva molto, tant’è che, spesso, nei miei disegni (per qualche motivo adoravo disegnare i boschi) c’era questo nastro verde che spiraleggiava intorno ai tronchi marroni dalle radici fino ai rami più alti (un nastro verde perché a) per me l’edera non si ramificava, aveva un solo fusticello da cui spuntavano tutte le foglie, e b) figurarsi se le foglie in questione avevo la sbatta o la pretesa di realismo di disegnarle una ad una, diventavano un tutt’uno verde nastriforme).
Per qualche strano motivo, ero convinto che l’edera fosse una pianta fortemente dannosa. Pensavo che fosse una parassita che succhiava via tutta la linfa e l’energia agli alberi privandoli a poco a poco della vita, e che alla lunga avrebbe finito per ucciderli (cosa non del tutto sorprendente, visto e considerato che quei poveretti sembravano letteralmente piegati sotto il peso di una pianta che spesso ne triplicava il volume e che superava l’inverno in tutta tranquillità senza perdere mezza foglia mentre loro erano a stecchetto; oh, sì, e guardavo anche troppo Sailor Moon). Per cui, quando la Mater e la Signora Suocera portavano me e Vanessa, la mia fidanzatina dell’epoca, a giocare nel boschetto, gli alberi erano ovviamente nostri amici e noi dovevamo salvarli dall’edera malvagia.
(Prima che qualche ambientalista vagante inizi a sbraitare, che mi risulti nessun tralcio d’edera è stato mai danneggiato nel corso dei nostri giochi, tutt’al più utilizzavamo i nostri poteri magici per ucciderla e poi l’amico albero di turno se la sarebbe staccata di dosso in tutta calma quando si fosse seccata del tutto).
Tutto questo mi è tornato in mente perché nella zona subito fuori Trieste ci sono alberi molto simili, anche loro talmente coperti di edera da esserne praticamente fagocitati – stanno sfrecciando davanti ai miei occhi, fuori dal finestrino del Frecciabianca Trieste-Torino sul quale viaggerò fino a Milano, mentre ascolto Susanne Sundfør e inizio questo primo vero post del mio blog redivivo.
Probabile che questi ricordi infantili mi siano venuti in mente perché da qualche tempo sto cercando di riconnettermi un po’ col me-stesso-bambino dolce e coccoloso così non dico da abbattere, ma almeno picchiettare un po’ i bastioni che mi sono costruito intorno, magari il tanto da aprire un piccolo spiraglio, così da tornare a standard quantomeno minimi di accettazione della presenza di esseri umani nelle mie immediate vicinanze emotive.
In tutto ciò, avevo inizialmente pensato di scrivere un po’ di post che riassumessero ciò che vi siete persi (?) negli ultimi quattordici mesi circa – non dico “mi ero ripromesso” perché di propositi non ne faccio più, visto che li disattendo puntualmente – ma sinceramente non ne ho avuto molta voglia. Come post di riapertura questo è forse anche un po’ più carino di una serie di riepiloghi delle puntate precedenti, per cui forse credo sia più sensato adottare la tecnica narrativa di Once Upon A Time (la mia nuova droga ufficiale, roba che non ero così preso da una serie tv dai tempi i Streghe) e partire dalle situazioni che mi si presentano nel contingente per tracciare parallelismi che introducano qualche flashback dell’anno passato.
Oh, e già che ci sono magari mi invento qualcosa di carino per la grafica.