Wednesday 27 April 2016

Il ladro di rose

Armato di forbici da chirurgo, col cappuccio calato in testa e il favore non tanto delle tenebre (ché questo quartiere è illuminato a giorno) quanto della solitudine notturna, sono appena sceso nel parchetto vicino casa a rubare un po’ di rose che mi serviranno per una foto che intendo scattare domani. Più che di un parco, si tratta di un parcheggio: due delle vie parallele che lo delimitano sono a dislivello, così è stato costruito un parcheggio multipiano a livello di quella inferiore e sopra un giardino pensile con alcune aiuole, dei sentierini, giochi per i bambini, un campetto da pallavvolo e un pergolato su cui si arrampicano glicini, gelsomini e, appunto rose. Stanno lì e, piuttosto che pagare un fiorista o un pachistano, ho deciso che un raid notturno sarebbe stato più conveniente.
Ammetto che, mentre armeggiavo con rami e forbici, ho avuto qualche senso di colpa. I motivi sono due e piuttosto semplici:
• Mi dispiace sempre recidere un fiore e ucciderne la bellezza.
• Ho sostanzialmente derubato i fruitori del parco di alcune rose.

Il primo motivo è lo stesso sentimentalismo stupido per cui mi è dispiaciuto un po’ lasciar marcire per settimane una mela bellissima e saporita per poi usarla in una foto: ho rovinato qualcosa di bello. Ma, alla fin fine, la verità è semplice: quelle rose sarebbero appassite comunque, avrebbero perso la loro bellezza nel giro di qualche settimana. In realtà, preservandone la bellezza in foto le sottraggo, in un certo senso, al decadimento e le rendo eterne. Di sicuro non me ne vorranno. Un po’ come la mela: anche se l’ho lasciata marcire, è diventata un simbolo importante in una foto che mi sta a cuore.
Per quanto riguarda il secondo motivo, che si è fatto più pressante mentre tagliavo una magnifica rosa gialla privando il resto della cittadinanza della sua bellezza… beh, viviamo nell’epoca della grande corsa quotidiana. Nessuno guarda più le rose oggi. Tutti – i bambini che giocano, le mamme che li tengono d’occhio, quelli che portano a passeggio il cane, che giocano a pallavvolo, che si siedono sulle panchine a chiacchierare o fumarsi una sigaretta – semplicemente sanno che le rose sono lì. Probabilmente apprezzano il fatto che, nel complesso, quel pergolato renda il parco più bello, ma dubito che si soffermino a guardarle davvero, le rose. Sarebbero appassite lì inosservate, in un mondo troppo preso dalla quotidianità per rallentare e osservare. Scegliendole per la mia foto, ho dato loro un pubblico che le guarderà davvero, in quanto rose, non in quanto contorno di una passeggiata pomeridiana.

E comunque, il parco è intitolato a una pittrice: scommetto che non se la prenderebbe per un piccolo furto notturno di rose in nome dell’arte.

Tuesday 19 April 2016

Musica italiana, questa sconosciuta

Secondo la mia libreria di iTunes, ho oltre settantatrè ore di musica norvegese sul computer, più di tre giorni di ascolto senza sosta. Per contro, la musica italiana che ho arriva sì e no a cinque ore; fra l’altro, è ripartita così: più di un’ora e mezza per i Dama/Barbara Schera Vanoli declinata in varie salse; un’oretta di Giorgia; intorno a quarantacinque minuti a testa per Carmen Consoli e Paola & Chiara; una quarantina di minuti i Magnifiqat; il resto è sparso in modo vario ed eventuale fra Elisa, i Lacuna Coil, i Rondò Veneziano e gente sconosciuta. Quindi la fetta più grande se la prende un’artista indipendente che, musicalmente, di italiano ha ben poco, il resto è diviso fra vari pezzi di nostalgia di quando ero adolescente e briciole sparse.
Al che sorge spontanea una domanda: sono tremendamente fuori posto in Italia e dovrei fare i bagagli per la Scandinavia, o sono solo un insopportabile snob?

Beh, snob lo sono di sicuro: ormai quanto a generi ascolto di tutto, ma sono tremendamente selettivo. Probabilmente il coefficiente di musica italiana sarebbe lievitato se, ai tempi del solo-metal-e-nulla-più, mi fossi preso la briga di ascoltare i Lacuna Coil e avessi la loro discografia completa sul computer (perché diciamolo, la Norvegia la trainano discografie decennali come quelle di Theatre of Tragedy, Tristania, The 3rd And The Mortal o Sirenia), ma ho preferito concentrarmi su altre band. E comunque, all’atto pratico, quanto possono essere considerati “italiani”, i Lacuna Coil? Sì, vengono da Milano ma, come i Dama, fanno un genere paragonabile ad artisti americani o dell’Europa centro-settentrionale. Fra l’altro, sono sotto contratto con l’anglo-tedesca-americana Century Media, non con la Sugar o il branch italiano di qualche major internazionale. Eppure, sono gli unici artisti italiani che mi vengono in mente se penso di approfondire sistematicamente la discografia. E degli italiani veri? Mmh… Non seguo Sanremo, né i talent, puntualmente non ho idea di chi manderemo all’Eurovision (mentre mi informo abbastanza sugli altri paesi e scopro spesso delle perle) e, quando mi si nomina qualcuno, Google è il mio migliore amico. Per cui… meh?

Ok, la verità è un po’ più complessa. Non snobbo la musica italiana perchè penso che (tutti) gli artisti siano privi di talento: il problema è l’industria discografica che li sostiene e, spesso, piega. L’industria musicale italiana è incapace di correre rischi, punta sul sicuro, sul solito genere trito e ritrito. Certo, abbiamo perfetti incapaci che durano da secoli e si sono costruiti il successo nutrendosi dell’ignoranza del pubblico, e altri che durano una o due stagioni perché il mercato dell’incapacità è sovrasaturo. Ma poi abbiamo ottime voci sprecate con i soliti autori di fiducia che non riescono a guardare oltre il loro orticello e fanno le canzoni con lo stampino. Va’, al massimo le condiscono scimmiottando qualche tendenza d’Oltralpe o Oltreoceano perché la musica nazionale non ha un’identità abbastanza forte da non subire la dominanza del gusto internazionale, ma la sostanza resta quella. E quando il talento c’è ma viene sfruttato male – anzi, proprio sprecato su musica banale – la cosa è ancora più triste.
Di sicuro anche la musica italiana avrà il suo underground che riesce a proporre qualcosa di non stereotipato, ma è talmente mal distribuito che non saprei proprio chi andare a cercare (per non parlare del fatto che, spesso, si prende troppo sul serio e si atteggia da intellighenzia dei poracci). E sì, anche nel resto d’Europa l’underground resta, beh, underground; ma ci sono realtà che gli permettono di affermarsi perfino su scala internazionale: pensiamo agli Epica, che nella Billboard Top 100 non ci entreranno mai, ma che partendo dai Paesi Bassi si sono ritagliati una nicchia (nemmeno tanto picola) di pubblico in tutto il mondo, dall’Est Europa al Sudamerica e perfino negli Stati Uniti. O artisti norvegesi tutto sommato underground che riescono a crearsi un seguito nonostante propongano un genere più ricercato, come Susanne Sundfør o, in particolare, Aurora: lei sta mietendo un successo enorme e la ritrovo nelle bacheche di gente che non sospetterei mai. Il suo album è sicuramente pop, ma si prende dei rischi, sperimenta, fonde varie influenze, ha una sua personalità, eppure l’industria discografica norvegese le sta dando la possibilità di emergere a livello internazionale con un debutto pubblicato a diciannove anni.

Per cui non è per pregiudizio che schifo gli artisti italiani: semplicemente, con i gusti che ho, so che se soddisfano i criteri per essere resi popolari dalla nostra industria discografica, le probabilità che finisca a sbadigliare a metà della prima canzone sono molto alte. Poi ovvio, è una questione di miei gusti personali, ma se l’unico cantante italiano con più di settantacinque milioni di dischi venduti internazionalmente e che non sia in attività dagli Anni Sessanta è Andrea Bocelli, con la sua versione per ignoranti di canto lirico, forse un paio di domande sull’efficacia delle scelte dell’industria musicale italiana me le porrei.

Sunday 17 April 2016

Parodia di democrazia

Di solito, quando c’è da votare faccio sempre il diavolo in quattro per il fatto che in Italia non esiste il voto postale e, da fuori sede, non posso esercitare il mio diritto/dovere se non a costo di forti disagi logistici ed economici. A questo giro, però, una parte di me è segretamente grata ai legislatori italiani per avermi infilato in questo buco normativo: il fatto di vivere a più di settecento chilometri e un mar Tirreno dal mio seggio elettorale mi dà una giustificazione moralmente inoppugnabile per starmene a casa a sorseggiare tè, ascoltare musica e, stasera, andare a cena dal cinese come qualsiasi altra domenica. Perché, caso A, me lo paghi tu il volo Alitalia da Trieste ad Alghero e ritorno per andare a votare al mio seggio? O, caso B, me le postproduci tu le foto a cui sto lavorando questo week end mentre io sto a fare lo scrutatore in seggio per avere la possibilità di votare a Trieste? Insomma, mi è concretamente impossibile prendere parte al referendum e nessuno può tacciarmi di menefreghismo.
Il vero problema è che le informazioni che ho raccolto su questa pagliacciata sollevano una domanda perniciosa: ma siamo sicuri che, in questo caso specifico, non sia moralmente doveroso, addirittura, dare il dito medio al seggio e andarsene a fare altro?

Sia chiaro: normalmente, io a votare ci vado sempre, pur con tutti i disagi del caso. Anche quando non voglio votare per nessuno: in quel caso invalido la scheda, ma il mio diritto/dovere lo esercito. Il disaccordo lo si esprime esprimendolo: non andare dà l’idea che non me ne freghi nulla, andare e invalidare dà l’idea che me ne frega, eccome, ma non mi sento rappresentato da nessuno. Ma più ho letto su questo referendum, più mi sono convinto che andare a votare, non importa se sì o no, sia un insulto all’intelligenza dell’elettore.

Non entro nel merito delle campagne del sì e del no: c’è almeno un migliaio di altri blog, là fuori, che si sperticano in analisi e argomentazioni per convincerci su dove puntare la matita. Il problema è che il 99% di queste ragioni (e sono ottimista) è pura fuffa: o deliberatamente, o per incompetenza, fatti magari anche veritieri sono stati esagerati, gonfiati, ritoccati, minimizzati o ribaltati per attirare acqua al proprio mulino facendo leva su sentimentalismo ambientalista, senso di colpa da Primo Mondo, spauracchi economici e disoccupazionali, promesse di crescita dell’energia verde, scandali di corruzione e inciuci… roba che, dai, per favore. Certo, da qualche parte fra i due estremi di delirio, fra la gente che abbocca alla lettera-confessione scritta a mano da “un petroliere” e l’illusione che quelle quattro scorreggette di metano che abbiamo sotto il mare ci rendano energeticamente indipendenti, un 1% di verità, e pure quello ripartito fra i due schieramenti, c’è. Ma ha davvero senso andare a votare a un referendum che è interamente basato sulla disinformazione fatta da chiunque, incluse le istituzioni?
E poi basta analizzare il testo stesso del referendum, che propone di abrogare una singola frase della norma in questione: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale”. Semplicemente, il rinnovo non sarà automatico. Non si parla di incentivi alle energie rinnovabili, né di divieto di stipulare una nuova concessione, né di chiusura degli impianti, né di altro che non sia il metodo di rinnovo del contratto.

Che vinca il no, quelle concessioni saranno rinnovate automaticamente fino a esaurimento scorte; che vinca il sì, potranno essere essere riaperte con un nuovo iter contrattuale, sempre fino a esaurimento scorte. Che vinca il sì, perderemmo una percentuale irrisoria del fabbisogno energetico nazionale; che vinca il no, manterremmo una percentuale irrisoria del fabbisogno energetico nazionale. Che vinca il sì, fra vent’anni perderemmo svariati posti di lavoro con la chiusura degli impianti, e poi ne creeremmo di nuovi con lo smantellamento; che vinca il no, perderemmo svariati posti di lavoro con la chiusura degli impianti, e poi ne creeremmo di nuovi con lo smantellamento, fra trentacinque, massimo quarant’anni. Che vinca il no, avremmo tutti i rischi ambientali legati all’estrazione; che vinca il sì, avremmo comunque dei rubinetti tappati su giacimenti mezzi vuoti da monitorare.
Anzi, un corno! Cancelliamo tutto e fermiamoci al primo punto: una volta scadute, nulla, nulla nella normativa vieta che le concessioni possano essere rinegoziate con un contratto ex-novo. E francamente, perché non dovrebbero esserlo? Gli impianti funzionano, non ci sono stati incidenti dagli Anni Sessanta, i rischi geologici non sono considerevoli, e comunque un 1% di autosufficienza energetica in più è pur sempre qualcosa. Greenpeace potrà sbraitare quanto vuole, ma se qualche commissione dà il via libera, le attività continueranno comunque.
E allora, cosa risolviamo con questa consultazione?

A questo punto, l’unico motivo per andare a votare è quello puramente ideologico: per una volta che la ka$ta ci dà in mano il potere decisionale, sarebbe assurdo rifiutarlo. Far affondare un referendum astenendosi è sbagliato perché il confronto civile mantiene vivo il paese. Promuovere l’astensionismo “informato” come alternativa più efficace al no, pur essendo legale, è moralmente riprovevole perché si elimina il confronto e si invita l’elettorato a rinunciare a un suo diritto/dovere. Non è per il referendum in sé, ma per difendere il diritto di voto.
Sì, in linea di principio tutto ciò è vero e sacrosanto; ma nel caso specifico, è estremamente ingenuo. Sfrondato di tutta la propaganda e ideologia, il potere decisionale che, all’atto pratico, ci mettono in mano con questo referendum è assolutamente nullo. Non stiamo decidendo niente: che vinca il sì, che vinca il no, che si raggiunga o meno il quorum, non cambierà assolutamente nulla. Quindi, in primo luogo, non accetto l’argomentazione che questo referendum ci è costato soldi quindi tanto vale votare già solo per quello, dato che in qualsiasi caso quei soldi sono sprecati. E mi dispiace, non posso nemmeno prenderlo come un esercizio teorico di democrazia: il fatto che “lascino decidere laggente” con un quesito inefficace in partenza è francamente una presa in giro. È darci il contentino, puro e semplice. È farci credere che il nostro voto conti mentre dimostrano palesemente che ci chiedono un’opinione solo nei casi in cui non c’è il rischio di cambiare nulla all’atto pratico. Gli abbocconi, qui, non sono solo quelli che decidono per il sì, o per il no: sono quelli che pensano che, votando a questo referendum, stanno davvero esercitando un potere di qualche tipo quando è solo un voto vuoto, un pro forma. Ci illudono di averci fatti partecipare, di averci lasciato decidere, che se non cambia nulla è perché il referendum naufraga sul quorum ed è quindi colpa nostra, quando è stato tutto fumo negli occhi sin dall’inizio.
Votando oggi, oltre a non cambiare una beneamata mazza, non si difende nemmeno la democrazia: anzi, si prende parte alla sua parodia. Si torna a casa convinti di aver fatto qualcosa, di aver dato un segnale, di aver indicato la strada al governo, quando l’unica cosa che potremmo indicare è che siamo pronti a berci qualsiasi scemenza, che è possibile e addirittura facile illuderci di contare qualcosa quando in realtà è tutta fuffa. Forse, stavolta, il dissenso è davvero il caso di manifestarlo voltando le spalle al seggio e andando a prendere un tè, piuttosto. Dire: “Io non vado a farmi prendere in giro, ho qualcosa da dire ma lo farò con strumenti efficaci, non con una pagliacciata”.

Ma, appunto, anche volendo non avrei avuto modo di votare oggi; mi limito a osservare come un po’ tutti, chi vota sì e chi no, chi va e chi si astiene, consapevolmente o inconsapevolmente, abbiamo perso.

Friday 15 April 2016

Salsomaggiore, Lolite e lettori CD blu metallizzato

Ho iniziato ad ascoltare musica da adolescente a Salsomaggiore Terme.
In realtà, ascoltavo musica sin da prima di nascere: la Mater aveva la scuola di ballo e quando insegnava da incinta, racconta, io battevo il piede durante il paso doble. Quando ero piccolo avevamo l’impianto stereo in salotto con giradisci e mangianastri, e io passavo le ore in poltrona ad ascoltare musica classica, da ballo o pop russo; poi arrivarono le musicassette di Fivelandia con tutte le sigle dei cartoni animati. Però vivevamo in una terra desolata dove MTV non prendeva, così ho saltato in tronco le Spice Girls, i Backstreet Boys e tutta la follia delle boyband / girlband Anni Novanta: il primo videoclip che ricordo è quello di Moi Lolita… di Alizée che vidi, appunto, a Salsomaggiore, dove il Procreatore mi portava in vacanza mentre lui andava alle terme per curare la sinusite cronica, courtesy dell’INPS. Wow, carina, ‘sta Alizée in discoteca col suo vestitino da campagnola, pensai subito.
Finalmente, nel 2001, MTV attraccò su frequenze captabili perfino in Giudecca e subito la Mater mi incoraggiò a farmi una cultura del pop contemporaneo. Era il periodo di Festival di Paola & Chiara e, quell’estate, tornai a Salsomaggiore; una sera, col Procreatore, la signora Maria dell’hotel e alcuni altri ospiti, andammo al bingo di Fidenza: con un paio di puntate vinsi 15 euro per una cinquina e 87 per un bingo completo. Il giorno dopo, con quei soldi comprai il mio primo (e unico) lettore CD portatile e il mio primo CD, Festival delle sorelle Iezzi. La quantità di conversazioni inconcludenti col Procreatore calò vertiginosamente perché avevo trovato l’ammoreh della mia vita: la musica in cuffia.

Il fedelissimo Sony D-E351 Personal CD Player blu metallizzato col cosino olografico.
Il resto è storia e quel lettore CD mi ha accompagnato in Inghilterra, Spagna, Irlanda e chi si ricorda dove altro, riproducendo Fallen degli Evanescence fino probabilmente a non poterne più, finché la Apple non mise fine alla vita dei CD con l’iPod. E quando il primo iPod mi si ruppe, e il secondo fu reso temporaneamente inutilizzabile da un errore del mio computer che non mi faceva accedere a iTunes per caricarci la musica, fu di nuovo il lettore CD a farmi compagnia nel mio pendolare tre volte la settimana da Alghero a Sassari in pullman (stavolta riproducendo fino alla nausea The Heart Of Everything dei Within Temptation). Ce l’ho ancora in un cassetto giù ad Alghero e, nonostante la vernice graffiata, l’attacco per le cuffie che ogni tanto isola la traccia vocale e lo sportellino delle batterie che si regge su a scotch, funziona ancora.

Insomma, se ripenso ai primi momenti in cui ho ascoltato musica con mentalità semi-adulta, mi vengono in mente Alizée, Salsomaggiore Terme, l’Hotel Azzurra, la villetta creepy che si vedeva di fronte, il profumo degli ippocastani e delle foglie che iniziavano a cadere, la città invasa da aspiranti Miss Italia (ché si andava in quel periodo), le terme Berzieri, la piscina termale pubblica e un lettore CD blu metallizzato.
Perché mi vengono in mente proprio ora? Perché la mia nostalgia per quegli anni sta sfuggendo di mano e mi sono scaricato tutta la discografia di Alizée. Side note: il primo album, quello con Moi Lolita… è abbastanza imbarazzante, ma col passare degli anni la ragazza ha tirato fuori delle cose davvero lodevoli. Datele una possibilità, anche se siete ex-adolescenti imbarazzati dalla cotta per il suo reggiseno imbottito.

Wednesday 13 April 2016

Cani e gatti

Una coppia coraggiosa che abita nel palazzo di fronte al mio ha pensato bene di adottare assieme un bambino, un gatto e un cane. Tralasciando il marmocchio, qualche sera fa mi è capitato di buttare un occhio alla loro finestra e vedere come il cane e il gatto abbiano reagito alle coccole: il gatto si è strusciato alle caviglie del tipo ed è andato per conto suo; il cane invece l’ha subito seguito come un’ombra. Ed è lì che ho avuto l’ennesima conferma: sono decisamente un tipo da gatti.
I cani alla meglio mi lasciano indifferente, alla peggio li trovo un po’ ridicoli o addirittura fastidiosi. Vogliamo partire dal modo in cui ti guardano, come se fossi il centro dell’universo, con quello sguardo a metà fra l’estasiato per la tua presenza e il nostalgico preventivo per quando dovrai assentarti cinque minuti? O il fatto che siano così dannatamente trasparenti nel mostrare il loro entusiasmo per qualsiasi cosa tu faccia? E il modo in cui vivono in tua funzione, cercano di compiacerti continuamente, di ostentare quanto obbediscono, di rassicurarti che sono lì, seguendo ogni tuo passo? Di come vogliano fare tutto, ma proprio tutto, in simbiosi con te? E la loro continua esuberanza? Per non parlare di come prendano qualsiasi briciola di affetto, anche buttato lì mentre stai facendo altro, per oro colato. Cristo, ma vatti a fare una vita! Ad averne uno 24/7 non-stop mi sentirei soffocare.
Dall’altra parte ci sono i gatti. Amo che siano indipendenti e facciano le loro cose, ma sotto sotto non disdegnino la tua presenza: loro stanno da una parte della stanza dandoti le spalle, tu stai dall’altra a fare le tue cose, ma se te ne vai ti seguono discretamente e senza sbattertelo in faccia. Ti cercano quando hanno davvero bisogno e per cose serie. Quando vogliono affetto non si accontentano finché non dai loro tutta la tua attenzione senza mezze misure; ma, terminato il momento, tornano alle loro faccende e ti lasciano alle tue. E l’affetto te lo dimostrano con le piccole cose: aspettando che ti sia seduto anche tu quando dai loro da mangiare, restando a farti compagnia quando sei ammalato, cercando una carezza della buonanotte quando sanno che stai andando a dormire. Insomma, ti amano, ti danno affetto, ma alle loro condizioni e quando pare e piace a loro, difendendo i loro spazi e lasciandoti i tuoi – anzi, l’aria sarcastica, sassy e sofisticata che hanno di solito, serve solo a sorprenderti quando fanno i teneri. E sono una sfida continua: ti assecondano quando ne vale la pena e devi sempre guadagnarti il loro rispetto.
D’altra parte, la devozione continua dei cani non solo è soffocante, ma dopo un po’ smette di sorprenderti e diventa routine, qualcosa che puoi dare per scontato. All’affetto co-dipendente di un essere che cerca l’altra sua metà ne preferisco uno di due unità che da sole si bastano ma scelgono di stare insieme rispettando ciascuno gli spazi dell’altro.

Ed è qui che mi accorgo che, più che di animali domestici, questo post potrebbe benissimo parlare delle persone che mi vanno a genio. Dovessi trovarmi accanto un ragazzo-cane, lo abbandonerei sulla prima autostrada. Preferisco di gran lunga un ragazzo-gatto con cui fare i randagi assieme.

Saturday 9 April 2016

Stream of consciousness delle 5:05

Sono sempre stato un overachiever e un control freak.
È vero, crescendo ho avuto pressioni esterne più o meno volontarie ed esplicite a ottenere sempre il massimo, ma io per primo sono quello che pretende anche più del necessario, un po’ come se dovessi sempre dimostrare di avere il diritto di stare al mondo mantenendo un buon livello di produttività. Se riesco a fare qualcosa della mia vita, vuol dire che valgo qualcosa, no? E se valgo qualcosa, a gente non potrà essere così infastidita dall’avermi intorno.
Il fatto è questo: crescendo sotto il fuoco incrociato di un divorzio, ogni mio piccolo passo falso poteva scatenare l’avvocatessa del Procreatore, sempre a caccia di un pretesto per affermare che la Mater non mi seguiva abbastanza e non era degna dell’affido. Più o meno inconsciamente ho sempre sentito di dover proteggere la Mater, che già si faceva il mazzo per me, da questo genere di attacchi; per cui, a partire dai sei anni mi sono sempre imposto di essere uno Übermensch infallibile, perfetto in ogni circostanza, controllato nel parlare e, se proprio dovevo aprir bocca, o il più specifico possibile perché le mie parole non potessero essere rigirate, o il più vago possibile per poter ritrattare all’occorrenza. Alla fine, ho talmente interiorizzato questo comportamento che, per fare un esempio stupido, ogni tanto balbetto mentre cerco il sinonimo semanticamente più appropriato, o rispondo che la Mater è “fuori” quando telefonano e non la trovano, mentre di solito lei si spertica in un “è andato là, là e là e torna alla tal’ora”.
D’altra parte c’è stata la Mater che, in buona fede, ha sempre cercato di darmi il meglio, ma alle sue condizioni. Ho sempre goduto di piena fiducia e massima libertà, ma in cambio ho dovuto presentare una resa scolastica se non impeccabile, quasi. E mi sono stati sempre forniti i mezzi per accultirarmi, dalle lezioni di pianoforte a quelle di canto, passando per il karate, il nuoto e quant’altro… ma con “e io pago” in sottofondo.
Ora, facendo pianoforte, karate, nuoto per hobby, il mio approccio è sempre stato di trattarli come un piacere; se un dato giorno non avevo voglia di andarci, partiva subito la lamentela che “ma il mese è pagato”, “allora tanto valeva che non ti iscrivessi quest’anno”, e simili. Cristo santo, se un giovedì, uno, ho voglia di starmene svaccato sul divano a guardare i cartoni animati invece che andare a pianoforte, non significa che voglio mollare o non andare più a lezione per il resto dell’anno sprecando tutti i soldi dell’iscrizione. Sul serio, dovevo essere più creativo e scrupoloso quando volevo marinare palestra, nuoto o pianoforte che non scuola. Ma cose tipo riempire la vasca da bagno con dentro costume e cuffia, asciugarli con l’accappatoio perché fosse umido e fare finta così di essere andato a nuoto. Sono grato per ciò che la Mater mi ha offerto crescendo, ma accidenti, fare qualcosa perché devi, perché ormai hai pagato, piuttosto che perché ne hai voglia, inizia a non essere più un hobby: questo la Mater non l’ha mai considerato, e ha così contribuito al mio problema di overachievement.
E poi c’è la scuola: lascio che i sociologi dibattano su quanto il sistema scolastico occidentale uccida la voglia di apprendere sull’altare della produttività e del curriculum (cosa che trovo verissima), ma oggettivamente sono stato definito per anni in base alla mia rendita. Il secchione, lo sfigato, l’emarginato che faceva comodo tenere intorno il giorno del compito in classe. E io, cretino, che mi prestavo al gioco e mi lasciavo usare per poter godere di quell’ora e mezza di accettazione sociale. Beh, se non altro il liceo mi ha insegnato a mantenere un basso profitto: ho ancora il vizio di interrompere a metà frase gli altri quando conosco l’argomento di cui parlano, per dimostrare che non sto ripetendo appresso a loro ma sono fottutamente colto di mio, ma per la maggior parte del tempo cerco di passare per una stupida oca bionda in modo da essere sottovalutato. Sul serio, essere sottovalutato è una pacchia e dà un enorme margine di manovra: gli altri si aspettano meno da me e restano sorpresi quando supero le loro aspettative, e tengono la guardia abbassata diventando prede più facili alla manipolazione.
Insomma, il fatto è che ormai ho talmente interiorizzato questi comportamenti e modi di pensare che inconsciamente non riesco a convincermi che valgo più di quello che faccio. Per dire, il terapista mi ha chiesto perché cerco ancora di fare buona impressione sui parenti ora che sono maggiorenne e non possono più farmi nulla. Beh, in realtà ho assunto io stesso il ruolo di giudice dei miei sforzi e la pressione non arriva più dall’esterno, quanto dall’interno.
Certo, frequentare una facoltà “di prestigio” non aiuta: provo un misto di pietà, antipatia e disgusto per tutti quei poveri sfigati lì dentro che credono di avere già un piede nel Parlamento Europeo perché la facoltà ha un nome leggendario, che sono convinti che finire la traduzione per la settimana dopo un giorno prima dei colleghi dia loro una marcia in più per trovare lavoro fra tre anni, che sono diventati le vestali del Tempio della Sapienza e non fanno altro che vantarsi (fingendo di lamentarsene) di star sacrificando la loro vita sull’altare di Scuola Interpreti. E mi guardano con tanto d’occhi quando ammetto candidamente che dopo un certo punto me ne sbatto e quel dato week end sono andato a Milano a far foto. E da una parte so benissimo che sono dei poveracci che cercano approvazione fingendosi martiri, che tutto sta nell’organizzare il tempo e stare chino sui libri 24/7 è in ogni caso inutile, ma l’overachiever che è in me scalpita perché non sto facendo abbastanza e il control freak dà di matto perché non riesco a essere un Übermensch al loro confronto.
È che non ho mai imparato che non devo perdonarmi o giustificarmi perché voglio prendermi tempo per me stesso e passare una giornata a letto col computer sulle gambe a non fare un benemerito cazzo: devo semplicemente prendermi il mio fottuto tempo, punto. È un mio diritto in quanto persona vivente, in quanto being: il fatto che esisto significa che ho del tempo a mia disposizione, punto. Nessuno mi può giudicare per questo, men che meno io stesso.

Bon, in realtà iniziando questo post non sapevo nemmeno io dove volevo andare a parare di preciso: è diventato uno stream rant of consciousness su argomenti vagamente collegati che mi è sfuggito di mano e che non voglio nemmeno rileggere e rendere vagamente coerente. Prendiamolo come un post di puro sfogo, e un esercizio per zittire il control freak che pretende che ogni cosa che scrivo su internet sia un testo argomentativo fatto e finito con una premessa, uno svisceramento capillare delle argomentazioni e una conclusione. Tanto è me che devo convincere di cose che già so. O per lo meno buttarle fuori dalla testa per alleggerirla e riuscire a chiudere occhio.

Friday 8 April 2016

It’s hard to be me all the time

Ultimamente sono in pieno revival primi Anni Duemila: mentre postproduco il milione di foto che mi hanno commissionato nelle ultime settimane preferisco avere un sottofondo discreto e poco impegnativo che mi tenga compagnia senza distrarmi. Così, ecco che ho ripescato tutta la musica-nostalgia-dei-miei-dodici-e-tredici-anni: Paola & Chiara, Shakira, Anastacia, Alizée e Avril Lavigne. Festival, Laundry Service, Anastacia, Mes Courents Electriques…, Let Go e Under My Skin sono tutti album che posseggo in formato CD, ho importato su iTunes e ogni tanto ascolto.
E no, non me ne vergogno affatto. Per quanto di solito preferisca musica con più spessore, non li considero nemmeno dei guilty pleasure: è semplicemente musica che mi piace e che rappresenta un periodo ben preciso della mia vita.
Ma siccome non si può postprodurre tutto il giorno, a una certa mi sono semplicemente sdraiato a letto, le gambe sollevate contro il muro e il computer accanto a me con Let Go in riproduzione. E ho pensato che, dovessi trovarmi un ragazzo, vorrei che ascoltasse Avril Lavigne.
Beh, vorrei che ascoltasse anche Avril Lavigne; o che l’avesse ascoltata da ragazzino e ogni tanto ci tornasse con nostalgia come faccio io.

Il fatto è questo: per citare Pescy in un’intervista di qualche anno fa, “è difficile essere me tutto il tempo”. Sì, ho degli standard culturali e ci tengo a essere circondato da persone intellettualmente stimolanti; ma quando si prendono troppo sul serio, la cosa diventa tremendamente stressante. Essere all’altezza di qualcuno perennemente impegnato a dimostrare al mondo la sua erudizione alla lunga stanca: dovessi avere un ragazzo accanto, vorrei che potessimo prenderci delle pause e avere poche pretese, ogni tanto, senza preoccuparci di quel che penserebbe la gente.
Anche perché bisogna darle credito, ad Avril: per quanto musicalmente Let Go sia “basic” per fargli un complimento, c’è un’enorme genuinità dietro. Musicalmente e, soprattutto, testualmente, è un album adolescenziale fino al midollo: piccoli drammi quotidiani, ribellione, battibecchi fra sottoculture convinte che il modo di vestire sia fondamentale per definire una persona e duri per sempre… dai, ci siamo passati tutti per quella fase. Se riusciamo a goderci senza problemi cartoni animati, film, videogiochi della nostra infanzia, perché non possiamo anche sorridere e pensare che siamo stati adolescenti negli Anni Duemila assieme ad Avril Lavigne?


Non dico che il periodo delle medie sia stato il peggiore della mia vita, ma poco ci manca. Mi sono ritrovato catapultato da essere uno dei bambini popolari alle elementari a essere il secchione bullizzato, ed è da lì che è nata la mia social awkwardness. Poi però arrivò la musica e, durante la ricreazione, avevo i miei dieci minuti di gloria in cui me ne stavo appollaiato su uno dei banchi ad ascoltarla con le ragazze, a commentare il look di questa o quella cantante, a tentare di decifrare i testi con il nostro inglese maccheronico, a cantare tutti insieme e lanciarci occhiatine maliziose quando coglievamo qualche doppio senso che non c’era ma, foneticamente, ci sembrava. “You fall and you crawl and you break and you take what you get and you turn it into…” e giù a muovere testa e mani a ritmo mentre ci squarciavamo la gola. Riascoltare Avril Lavigne fa ricordare momenti molto piacevoli che avevo dimenticato nella massa indistinta di quello che è stato un periodo difficile, ed è qualcosa che apprezzo molto.
Per cui sì: se mai dovessi trovare un ragazzo, mi piacerebbe che fosse uno che sa prendersi alla leggera il tanto da starcene sdraiati sul letto in versi opposti, i piedi poggiati sul muro, ad ascoltare Avril Lavigne sul mio computer e ridere mentre ci raccontiamo com’eravamo da adolescenti, dei piccoli momenti piacevoli che abbiamo trascorso allora grazie alle nostre passioni, e di come sotto sotto non siamo cresciuti tanto da dover essere seri e colti tutto il tempo.

Sunday 3 April 2016

Warning’s fair, I don’t care very much

Ribadiamolo, ché non fa mai male: astrologia sì ma anche no. Adoro la simbologia che c’è dietro, mi piace giocarci, ma la prendo più come una pausa ricreativa in un percorso di autoanalisi più serio che non come la vera risposta a tutte le mie magagne.

Secondo il mio amico Stefano, ho una carenza di ossitocina che mi fa salire il bitch, please quando la gente inizia a fare la svenevole. Secondo il mio ingarbugliato tema natale, invece, non ho proprio un cuore. I Gemelli sono bipolari, cerebrali, facilmente distraibili e difficilmente impegnabili già di default, ma nel mio caso specifico ci sono tante di quelle posizioni e aspetti che suggeriscono che sono una persona sentimentalmente carente che, in pratica, secondo gli astri sono geneticamente programmato a essere l’Anticristo del romanticismo. Basti vedere come sono messe Venere e Lilith, che descrivono rispettivamente il lato sentimentale e quello sessuale delle persone.

Venere in Gemelli
Con Venere in Gemelli, il sentimento è curioso e in un certo senso intellettualizzato; si hanno modi di fare simpatici, gentili e accattivanti ma a volte si è volubili e si affrontano i sentimenti e le relazioni con disinvoltura. Alle origini di una storia d’amore deve esserci comunque una base intellettuale.

Lilith in Bilancia
Lilith in Bilancia caratterizza una persona molto attenta all’eleganza e al lato estetico della persona che gli sta a cuore. Non sempre però riuscite a conquistare e a legare a voi chi più ha colpito il vostro cuore a prima vista.
Siete inoltre molto passionali all’inizio, ma perdete questa intensità dei sentimenti abbastanza velocemente.

E già qui, fra Cerebral, Heartless Bitch Venus e Vain, Easily Bored Lilith, sono il poster child della superficialità sentimentale: sono cortese, mi piace dare corda, ma la cosa finisce lì. E il divertimento è solo all’inizio:

Venere in VI casa
L’amore viene associato con il lavoro, dove si svolgono attività piacevoli. Si seguono spontaneamente norme di vita equilibrate, fra affetti, lavoro e quotidiano, salute inclusa.
L’affetto si riversa anche verso il mondo della natura, con particolare attenzione verso gli animali domestici e le piante.

327 Congiunto Venere - Giove
Siete eccezionalmente generosi e amorevoli, ma richiedete in cambio molto affetto e molti stimoli a livello sociale. Spesso vi aspettate dal partner anche un sostegno materiale.
È un ottimo aspetto per quanto riguarda la vita affettiva e sociale. Vedete l’amore secondo i canoni tradizionali, ed il vostro matrimonio è fortunato, come, del resto, le vostre associazioni.

-129 Opposto Venere - Ascendente
Vi piace eccedere nella ricerca del piacere. Potete frequentare compagnie dubbie o comunque diverse. A volte mancate di buon gusto. Siete spendaccioni, e spendete in maniera superficiale. Cautela nelle amicizie: a volte sono più interessate che sinceri.

Fin qui ancora nulla di eccessivamente preoccupante: ecco il mio solito “voglio un ragazzo fotogenico per farci, come prima cosa, un mucchio di foto che non avrebbero profondità emotiva con un modello qualsiasi”, una certa esigenza in campo sentimentale e il fatto che non sono proprio capace di pormi dei limiti. Ma c’è dell’altro.

Marte in VII casa
Il temperamento può essere caratterizzato da una carica di tensione nei rapporti amorosi o con i collaboratori, poiché vi è la tendenza a voler dominare.
La vita di relazione è molto contrastata.

Saturno in I casa
Il carattere tende ad essere riservato, controllato, che non si scopre facilmente, molto sensibile alle responsabilità e al dovere.
Può essere indizio di una salute delicata soprattutto in età infantile.

 49 Congiunto Luna - Urano
Il vostro bisogno di libertà in campo sentimentale e familiare è così forte che resisterete a ogni legame e la cooperazione con il partner e i membri della vostra famiglia diventerà difficile. Avete bisogno di continui cambiamenti.
Il vostro modo di esprimere le emozioni è piuttosto superficiale e disinvolto, i veri sentimenti, troppo spesso da voi ignorati, finiscono con l’esplodere in un secondo momento. Avete molta vitalità e un grande dinamismo. Siete esuberanti e tenaci.

Insomma, l’unico aspetto che mi descrive come sentimentalmente abile è la congiunzione di Venere e Giove; a questa però si contrappongono praticamente tutti gli altri aspetti che influenzano il campo sentimentale. Per dire, Sugar Daddy Jupiter è ampiamente compensando da Control Freak Mars e Free Bitch Baby Uranus: non mi farei mai mantenere dal partner perché ciò mi metterebbe in una posizione di svantaggio nella coppia e andrebbe a limitare la mia libertà di prendere e farmi gli affari miei. Allo stesso modo, la generosità sentimentale è compensata (o, per lo meno, sepolta molto a fondo) da tutta quella massa di incapacità di vivere i sentimenti in profondità, carattere controllato e desiderio di indipendenza.
Riassumendo, al fatto che amo con la testa e scopo con gli occhi, che tendo a non moderarmi e ho un approccio molto superficiale ai sentimenti, si aggiunge che tengo sempre su la poker face, ho bisogno di mantenere il controllo, difendo ferocemente i miei spazi e la mia indipendenza e, quindi, come inizio a sentire puzza di gente troppo appicicaticcia, che corre troppo o non sa stare al suo posto, alzo i tacchi e tanti saluti proprio come regola.
In tutto ciò, buttiamoci dentro anche il mio Neurotic Wreck Neptune e non c’è da sorprendersi se a fare gli svenevoli con me non si arriva lontano.

So if you kiss me,
If we touch,
Warning’s fair:
I don’t care very much.

[ I Don’t Care Much – Emilie Autumn ]

Friday 1 April 2016

Rundown delle cotte adolescenziali

Devo confessare una cosa: mi secca parecchio che Mattia non abbia mai accettato la mia richiesta d’amicizia su Facebook. E che non l’abbia nemmeno rifiutata, fra l’altro, ma l’abbia lasciata a penzolare lì su Facebook già da probabilmente un paio d’anni.
Mattia, aka il mio primo ragazzo, quello del primo bacio, della storia uber-idealizzata dei miei diciassette anni, della rottura in circostanze misteriose e degli infiniti post di piagnisteo nei mesi successivi che ommioddio quanto ero una fottuta drama queen (fra l’altro l’avevo conosciuto proprio grazie al blog).
Non che mi ricordi di lui in altri termini che “btw, ottimo primo bacio, grazie mille” e mi aspettassi un ritorno di fiamma: mi sarebbe più che altro piaciuto fare due chiacchiere amichevoli, parlare di dove ci ha portati la vita negli ultimi otto (beh, ormai quasi dieci) anni, farci due risate ripensando alla nostra “storia”, a quanto fossimo cretini, a quanto fosse assurdo che io l’avessi presa così sul serio e me ne fossi lagnato per mesi, o a quanto io mi sia fatto bellino mentre lui ha iniziato a stempiare. Insomma, intrattenere rapporti neutro-civili in memoria di un bel pomeriggio di tanti anni fa senza prenderci troppo sul serio. But alas, evidentemente a lui non va (e non posso nemmeno dargli torto – a rileggere quei post me ne sarei fuggito pure io). La cosa che mi urta è il sospetto che sia così perché pensa che io ci stia ancora male, o di aver avuto un impatto sulla mia vita o chissà cosa, ma quella si chiama paranoia.

Il motivo per cui ho rispolverato la storia di Mattia è che, chiacchierando con un amico, abbiamo fatto un rundown delle nostre cotte, storielle e storie importanti con tanto di ricerca su Facebook. E mi sono reso conto improvvisamente che ricordo nei dettagli tutte le mie cotte fino a circa i vent’anni, mentre dopo è tutto sfuocato, a meno che non mi sforzi tanto.
Fino a un certo punto posso elencare tutti, partendo da Vanessa a sei anni; poi Veronica, che mi ha lasciato perché “sei troppo intelligente per me”; Manuela, che aveva già il seno alle elementari; Francesca, Daria e la loro amica col nome troppo sgamabile, più o meno intercambiabili alle medie; Mariapaola, che si vantava di darla via come se non fosse neanche sua; Federica per due anni buoni al liceo; Veronica (THE Veronica), l’ultima ragazza di cui mi sia innamorato; poi l’epopea di Dario; Mattia e i piagnistei; i nove mesi con Matteo, annessi e connessi; poi l’ultimo che ricordo distintamente, l’Uomo Lusingato, anche lui protagonista di post e post, così chiamato perché quando ci provai dopo che si era dato per single e aveva guardato il culo di tutti i ragazzi di Trieste mi rispose che era “lusingato ma impegnato”, salvo poi cornificare il ragazzo a ogni buona occasione (con chiunque non fossi io). Da una parte, il casino che era la loro situazione mi aiutò a farmi passare la cotta a suon di disgusto, dall’altra, fare da spettatore alla difunzionalità della loro relazione (visto che eravamo tutti nello stesso gruppo di amici) penso sia stato il momento in cui mi sono detto: “Ma seriamente, chi cazzo me lo fa fare?”. Ed è da allora che sguazzo nel reame delle amicizie con benefit: l’unica cosa vagamente assimilabile a una storia che ho avuto da allora è stata, appunto, un’amicizia con benefit di tre mesi e mezzo da cui non sono fuggito a gambe levate proprio perché il presupposto era che nessuno dei due voleva che diventasse una cosa seria.
E sì, in questi anni ho avuto le mie tre, forse quattro cottarelle, ma sono state delle cose molto fumose che ho vissuto per lo più nella mia testa e che non hanno lasciato un vero impatto. Non le ricordo né col sorriso da “ah, i bei tempi”, né col facepalm da “che cavolo stavo pensando?”. Anzi, se vado a rileggere i post di allora ho anche bisogno di concentrarmi un momento per ricordarmi di chi parlavo.

Ora, è vero che la causa recondita di tutto ciò ha radici molto più profonde, risale perfino a prima di Vanessa e sto facendo molta autoanalisi per sbrogliarla; ma a pensarci, è proprio triste che la causa occasionale della mia costipazione sentimentale sia stato assistere a una storia disfunzionale nemmeno mia. Ah, dannate Gemelle Olsen.