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Thursday, 14 November 2024

The Crying Room

È forse strano che, con tutto quello che è successo negli ultimi due anni e passa, io sia andato in completo silenzio stampa qui sul blog. Beh, a parte i test musicali e qualche brandello qua e là.
Voglio dire, anche tralasciando le mie vicissitudini personali, già solo la situazione socio-politica internazionale era abbastanza succosa da darmi un mucchio di cose su cui sfogarmi.
Eppure, eccoci qui.

Forse, a una certa è semplicemente diventato troppo. Ricordo lo scoppio della guerra in Ucraina come il momento in cui, vedendo il cursore lampeggiare nell’editor, ho iniziato a non avere più nulla da scrivere. Un po’ perché è arrivata sulla scia di due anni già molto provanti e ha fatto traboccare il vaso; un po’ perché ho un coinvolgimento quasi diretto tramite amici ucraini, parenti bielorussi e le mie radici est-slave. Ma ricordo che non ho praticamente dormito per un mese dopo che è iniziato quel casino e, in generale, non ho più sentito il bisogno di elaborare i miei pensieri per iscritto.

Da lì c’è stata la necessità di uscire dalla bolla della pandemia e tornare alla vita reale, occuparmi di varie cose, alcuni alti inaspettati che però volevo tenere per me, e poi gli ultimi dodici mesi che sono stati piuttosto orribili a livello personale, ma di cui non era decisamente il caso di scrivere sull’internet.

Qualunque sia il caso, eccoci qui. Forse sono di nuovo al punto in cui sfogare le cose in maniera più articolata che sulle storie di Instagram potrebbe aiutarmi. Del resto, abbiamo appena subito un nuovo trauma collettivo e prevedo non sarà facile processare l’idea che, al momento, la maggior parte dell’umanità preferisce muoversi in direzione opposta rispetto alla mia – e una che rischia di rovinare la vita a tantissime persone se non distruggere proprio la nostra società.

Oh well, vedremo.

Friday, 31 March 2023

Classifica musicale generale, 51-100 – 2023

Nelle puntate precedenti:
2018;
2019;
2020;
2021;
2022.

Classifiche generali (1-50):
2016;
2017;
2018;
2019;
2020;
2021;
2022.

Classifiche annuali:
2017;
2018;
2019;
2020;
2021;
2022.

1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 80? (Noémie Wolfs)
• Diciamo che Sarah Brightman ha fatto anche cose buone. Ovvero coverizzare Eden degli Hooverphonic, di cui ho poi iniziato ad ascoltare l’originale, e quando ho ascoltato la versione live con l’orchestra mi sono innamorato della voce di Noémie.
2. Prima canzone ascoltata della numero 72? (Fever Ray)
• Siccome non guardo Vikings, è stata Keep The Streets Empty For Me su Dark.
3. Testo preferito della numero 83? (A Perfect Circle)
Judith non ha mai smesso di essere attuale.
4. Album preferito della numero 99? (Rose McGowan)
• Ugh. A mia discolpa, la ascoltavo prima che diventasse del tutto problematica.
5. Canzone preferita della numero 63? (Gåte)
• Scelta difficile tra Kjærleik (soprattutto la versione live) e Bruremarsj Frå Jämtland.
6. Album peggiore della numero 100? (Tactile Gemma)
• Se contiamo anche la raccolta di demo mai pubblicate, direi quelle. Ma semplicemente perché necessitavano di ancora un po’ di lavoro per essere finite. L’unico (purtroppo) album pubblicato invece è ottimo.
7. C’è una canzone della posizione numero 89 che senti molto tua? (Swallow The Sun)
Keep Your Heart Safe From Me.
8. Bei ricordi legati alla numero 65? (Anbey Park)
• Alcuni legati ai primi tempi con la Ciospa, prima che fosse Ciospa.
9. Quanti album possiedi della numero 55? (Alcest)
• Ho i primi tre più lo split EP con i Les Discrets.
10. C’è una canzone della numero 95 che ti rende felice? (The Sins Of Thy Beloved)
• Ahah, bella battuta!
11. Canzone preferita della numero 90? (Morning Parade)
Under The Stars. Certa gente ha fatto anche cose buone (madonna, quanta gente la cui permanenza nella mia vita avevo del tutto rimosso).
12. Canzone della numero 60 che ti piace di meno? (Beyoncé)
• Negli ultimi due album c’è da fare il tiro al bersaglio. Direi Don’t Hurt Yourself (ascoltandola) e Sorry (per averla pubblicata).
13. Bei ricordi evocati dalla numero 56? (Roniit)
• Ne creerò di nuovi quando avrò finito di scrivere il capitolo attuale de La Cosa Che Sto Scrivendo.
14. Canzone della numero 88 che associ a un momento o persona? (Oceans Of Slumber)
• Avevo The Shipbuilder’s Son in testa tutta la mattina quando sono andato a fare foto ed esplorare la Venezia Giulia immersa nella nebbia con Marko.
15. Quale canzone della numero 69 ti emoziona di più? (Rose Chronicles)
Awaiting Eternity.
16. Quante volte hai visto la numero 85 live? (Carice Van Houten)
• Quante Lagne devo sacrificare a R’hllor perché Carice pubblichi un nuovo album e lo porti in tour?
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 73? (Elusive)
Gemini. Lo so, sono banale e autoreferenziale.
18. Album preferito della numero 61? (Blanche)
Empire. Spero che presto abbia concorrenza, ma resterà sempre ottimo!
19. Prima canzone ascoltata della numero 64? (Sugababes)
• Per farsi un’idea di quanto ubiqua fosse Round Round nel 2002, la conosce perfino Marko!
20. Canzone preferita della numero 77? (The Birthday Massacre)
Red Stars? Forse?
21. Album preferito della numero 66? (Pure Season Revolution)
Amor Vincit Omnia.
22. Prima canzone ascoltata della numero 97? (Billie Eilish)
Ocean Eyes, anche se non le diedi molto peso.
23. C’è una canzone della 68 che trovi catartica? (M.I.A.)
• Sempre Exodus e Sexodus, sempre ascoltate insieme.
24. Come hai scoperto la numero 71? (Sharon Den Adel)
• Come cantante dei Within Temptation, ovviamente.
25. Canzone della numero 76 che ti rende felice? (Soap&Skin)
• Mentre esploravo la sua discografia, a una certa mi sono chiesto ad alta voce: “Caspita, come sono stato depresso tutti questi anni senza Soap&Skin?”. Scherzi a parte (ma nemmeno tanto), la cover di What’s Up? è piuttosto uplifting.
26. Canzone preferita della numero 53? (Woodkid)
I Love You.
27. Album preferito della numero 52? (Amaranthe)
Massive Addictive, il cui titolo è estremamente appropriato.
28. Prima canzone ascoltata della numero 82? (Depeche Mode)
Dream On, che mi fu passata dal padre di un mio amico nel lontano 2002 su un CDr contenente centinaia di mp3 a casaccio.
29. Testo preferito della numero 58? (Leandra)
Wake Up Call. Che dovrei ascoltare pià spesso.
30. Quante volte hai visto la numero 67 live? (The Crest)
• Una! Al compleanno di Kristian.
31. Prima canzone ascoltata della numero 94? (Charlotte Wessels)
• Siccome ho il vizio di ignorare i singoli e le canzoni buttate fuori a casaccio, è stata Superhuman, l’opener del primo album.
32. Album della 62 che ritieni sottovalutato? (Loreen)
• Penso che Ride ce lo siamo filato io, lei e i suoi genitori. Ed è un gran peccato, perché è letteralmente tutto ciò che Laña del Rey ha tentato (fallendo) di essere da Ultraviolence in poi.
33. Canzone peggiore della numero 79? (Hearts Of Black Science)
• Ribadisco che Something Better mi provoca fastidio per com’è cantata.
34. Prima canzone ascoltata della numero 84? (Tori Amos)
• Qualcosa da Unrepentant Geraldines, ma non ricordo cosa di preciso.
35. Album preferito della numero 78? (Ala.ni)
• Per quanto Acca meriti molto più ammoreh, You & I resta insuperato.
36. Quante volte hai visto la numero 92 live? (Versailles)
• Nessuna. Vivrò anche senza veder il movimento della gambina di Kamijo dal vivo.
37. C’è qualche canzone della 86 che consideri un guilty pleasure? (Amanda Somerville)
• No, la ascolto sempre volentieri. Lo farei ancora di più se si muovesse a pubblicare nuova musica solista, mannaggia a lei.
38. Come hai scoperto la numero 98? (Paolo Buonvino)
• Grazie a Daniel Sharman nudo. Cioè, voglio dire, grazie a I Medici. Che ho iniziato a guardare per le gif di Daniel Sharman nudo.
39. Album preferito della numero 57? (Anette Olzon)
• Anche contando tutti i side project vari ed eventuali, resta l’ottimo Shine.
40. C’è qualche canzone della numero 81 che ti mette nostalgia? (Leprous)
• Non particolarmente: li ascolto da troppo poco.
41. Canzone della 91 che non ti piaceva ma adesso ami? (Trillium)
• Dovrei riascoltarli per vedere se rivalutare qualcosa.
42. Testo preferito della posizione numero 74? (Loïc Nottet)
• Uhm. Million Eyes, forse?
43. Canzone più emozionante della numero 96? (Victoria)
Phantom Pain.
44. Canzone della numero 75 che ti rende felice? (We Are The Fallen)
• Uh… ahem… la cover di Like A Prayer?
45. Canzone preferita della numero 59? (Brooke Fraser)
Je Suis Pret e Magical Machine.
46. Primo album ascoltato della numero 87? (The Romanovs)
…And The Moon Was Hungry…, la versione definitiva (è complicato).
47. Membro preferito della numero 54? (Les Discrets)
• Ammiro molto Fursy anche per la sua arte visiva, nonostante le tirate vegane.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 93? (After Forever)
• Ma sai che potrebbe essere stata Cry With A Smile?
49. Album che possiedi della numero 70? (Octavia Sperati)
• Entrambi.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 51? (Rag’n’Bone Man)
• Una giornata soleggiata in cui stavo andando a mettermi nella palestra di Stadtstein (su Pokémon Go) ad Alghero.

Sunday, 26 June 2022

Deadlocked (o il punto di rottura)

This world,
Its evil ways,
The pain that I hide:
Let’s make this happen!
 
Che poi, a pensarci bene, è un ciclo: inizio ad accumulare negatività perché non sono bravo a processarla in maniera costruttiva, passano mesi e magari nemmeno me ne rendo conto finché, d’estate, inizia ad approssimarsi il mio punto di rottura, i miei comportamenti o atteggiamenti sfuggono al controllo e diventano sempre più autodistruttivi, Katia se ne accorge, mi fa sedere, me lo fa notare e, finalmente, riesco a scuotermi un po’ e tirarmi fuori dalla crisi.
Per questa volta. Perché la cosa che mi ha davvero fatto sorridere, ieri notte, è stato rendermi conto che è un pattern che tende a ripetersi spesso proprio d’estate. Di solito più verso luglio-agosto, ma non è sorprendente che a ‘sto giro sia successo a giugno, visto lo stress di quest’anno.
A questo giro è stata una domanda piuttosto diretta che ha ricevuto una risposta altrettanto diretta.
“Senti, potrebbe essere solo una mia impressione per questo o quel motivo, ma: stai diventando più cattivo ultimamente?”
“Sì”, ho risposto subito, senza esitazione. “Sì, è vero. È una cosa che ho notato anch’io in più episodi, in queste ultime settimane. E ha iniziato a preoccuparmi.”
 
Volendola buttare sulle analogie, nel momento in cui ho sentito di non avere più le forze e la pazienza per essere una Margaery, l’idea era di lasciar libera l’Olenna e dare un po’ di pan per focaccia a chi se lo meritava. Solo che, sempre più spesso, mi sono ritrovato a pensare: “I choose violence”. E non mi stancherò mai di dirlo: essere una Cersei è mai una buona idea. Sentirsi costretti in un angolo e rispondere facendo quanto più male possibile agli altri non è una soluzione sostenibile, tanto meno lo è farne in maniera indiscriminata partendo da un vago senso di sentirsi nel giusto.
La buona notizia è che, appunto, me ne stavo già rendendo conto da solo: c’erano momenti in cui mi sentivo davvero tossico. Un po’ mi sentivo giustificato, date le circostanze; un po’ pensavo che, tutto sommato, fosse dovertente. Per lo più, era pura e semplice dipendenza da Schadenfreude. Ma sentirmi dire che la tossicità si nota così tanto e non è divertente è stata la spintarella di cui avevo bisogno per decidere che è davvero il caso di darmi una regolata, perché tentare di avvelenare la vita agli altri finisce per avvelenare anche me a piccole dosi.

Per dovere di completezza, visto che indagare a fondo le cause del mio comportamento è necessario per migliorarlo, è il caso che lo annoti: mi sento esasperato da tutto. Letteralmente tutto: ovunque mi giri c’è un motivo di rabbia. Il mondo intero, l’atteggiamento generale dell’umanità, il senso di impotenza e stagnazione, se non direttamente l’impressione che, come società, stiamo addirittura tornando indietro. Anni e anni di lotte che sembrano aver fallito completamente. I diritti civili stanno sparendo dappertutto, siamo in piena guerra, i progressi sul fronte climatico sono trascurabili... non c’è una cosa, una, che non vada male.
Così, da qualche parte lungo la strada, ho gettato la spugna.

So anche identificare il momento in cui è partita questa mia spirale verso l’incattivimento: nel 2020, quando Trump si è preso il covid e mi sono fiondato su Twitter per leggere le reazioni. E poi per aggiungere le mie.
E poi ci sono state le elezioni americane, in un momento in cui sentivo che anche le nostre destre erano in difficoltà, e allora mi sono detto: “È tempo di bullizzare i bulli”. Dare loro una dose della loro medicina, farli sentire come hanno fatto sentire gli altri per tutto questo tempo, caricare su di loro tutto il peso sociale di essere persone orribili con idee orribili.
Solo che, lungo la strada, ho iniziato a ritenere lo sforzo sociale dietro quest’idea sempre più vano. Invece che argomentare il mio sdegno, se non per far cambiare idea almeno per piantare quella vocina che rovina il “divertimento” quando la gente si comporta in un certo modo, ho iniziato a ricorrere a semplici, generici, sciocchi insulti che, in effetti, lasciano il tempo che trovano. Spiegare al fascista medio perché il suo fascismo deriva semplicemente dalla paura gli rovina la giornata molto più che sentirsi dare del povero cretino.

E tutto questo, lo ribadisco, è un semplice coping mechanism per il malessere che sento dentro. Uno che non solo non lo risolve, ma finisce per far stare peggio anche me: non mi rende poi tanto distinguibile dalla gente che ha ridotto il mondo a un posto che è una completa e costante fonte di disagio.
E io non voglio essere questo.

Qualche misura per invertire la tendenza l’avevo già presa nelle scorse settimane: ad esempio, ho evitato di infilarmi in baruffe digitali che sarebbero finite in gara di insulti, lasciato cadere discorsi che mi avrebbero irritato, scorso oltre notizie che avrei potuto commentare in maniera caustica, eccetera, limitandomi solo ai casi più eclatanti. Dovrei impegnarmi a farlo ancora di più, lasciando correre anche i casi eclatanti: alla fin fine, è uno spreco di energie che non porta a nulla. Non riuscirò a isolarmi ed evitare di occuparmi di attualità, ma non sono obbligato a dire la mia a tutti i costi alimentando la caciara che si forma intorno: posso anche solo prendere atto della cosa e andare avanti con la mia vita.
Ho anche notato che non ho praticamente bloggato quest’anno. Pensavo dipendesse dal fatto che la mia vita è piuttosto piatta (a questo punto per scelta, ma quello è un altro paio di maniche), ma la verità è che non avevo voglia di dialogare con me stesso su ciò che sta succedendo in generale. Scrivere uno stato tagliente su Facebook o cercare gente da insultare sotto i meme altrui è molto più semplice che analizzare come un avvenimento mi fa sentire e tirarne fuori un post coerente.
È però una cosa che dovrei riprendere a fare perché, appunto, non sono bravo a processare i miei stati emotivi e questa è una valvola di sfogo che mi aiuta molto. Anche per questo ho scritto questo post: ieri sera Katia mi ha aiutato a dare forma e voce alla consapevolezza che già stavo sviluppando, e qui ho deciso di cristallizzarla in forma scritta per non perderla di vista.
Ho spesso il vizio di ignorare la mia voce interiore e cercare segni esterni che me la sbattano in faccia. A volte mi faccio i tarocchi (ho smesso dal 2020, sempre perché non ho molta voglia di chiacchierare con me stesso). A volte presto attenzione alle piccole coincidenze, come la scena in The Umbrella Academy che abbiamo visto subito dopo aver parlato, in cui Allison e Diego vanno in cerca di risse con i suprematisti bianchi, o la citazione di Deadlocked dei Tristania con cui ho aperto il post, che ho trovato fra i ricordi di Facebook – entrambe descrivono bene lo stato d’animo che ha causato il mio incattivirmi e mostrano quanto sbagliato sia continuare su questa china.
Molto più spesso, è la migliore amica che sono fortunato ad avere, che quando inizio ad andare troppo alla deriva mi prende per i capelli e mi aiuta a tirarmi fuori dall’acqua alta.
Katia mi ha consigliato di scrivere una lettera a me stesso, a questo riguardo. La lettera è questa, ma non sarebbe completa se non fosse un po’ anche una lettera a lei e non si concludesse con:
Grazie, Katia.

Thursday, 31 March 2022

Classifica musicale generale, 51-100 – 2022

Nelle puntate precedenti:
2018;
2019;
2020;
2021.

Classifiche generali (1-50):
2016;
2017;
2018;
2019;
2020;
2021.

Classifiche annuali:
2017;
2018;
2019;
2020;
2021.

1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 80? (The Birthday Massacre)
• Li ho sentiti quando ancora facevano buona musica durante la tappa in Germania prima di andare in Norvegia per il concerto dei Theatre of Tragedy.
2. Prima canzone ascoltata della numero 72? (We Are The Fallen)
• La ben poco interessante Bury Me Alive; ho continuato a tenerli d’occhio per pura ripicca verso Pescy.
3. Testo preferito della numero 83? (Trillium)
• Ammetto di non ricordarne nemmeno uno.
4. Album preferito della numero 99? (Björk)
Homogenic. Sono una Basic Björkian Bitch.
5. Canzone preferita della numero 63? (Beyoncé)
Save The Hero o Pretty Hurts.
6. Album peggiore della numero 100? (Freddie Dickson)
Panic Town, per i motivi che ho sviscerato in questa recensione su Armonie Universali. Questo mi ricorda che devo ancora sentire il full length e gli EP che sono usciti dopo…
7. C’è una canzone della posizione numero 89 che senti molto tua? (Rose McGowan)
• Avrei detto Green Gold, se Rose non avesse preso un’orribile china filo-repubblicana che me l’ha fatta disconoscere senza se e senza ma.
8. Bei ricordi legati alla numero 65? (The Crest)
• Il concerto per il quarantesimo compleanno di Kristian, ovvio!
9. Quanti album possiedi della numero 55? (Roniit)
• Bella domanda: con me ho il debutto e i due EP; da qualche parte a Trieste dovrei avere anche XIXI, che è arrivato quando ero sceso in Sardegna per le vacanze natalizie del 2019, ma ancora non sono tornato e non ho idea di che fine abbia fatto!
10. C’è una canzone della numero 95 che ti rende felice? (The Bryan Ferry Orchestra)
Young & Beautiful.
11. Canzone preferita della numero 90? (After Forever)
Cry With A Smile.
12. Canzone della numero 60 che ti piace di meno? (Loreen)
Jungle.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 56? (Placebo)
• La volta che ascoltavo Sleeping With Ghosts viaggiando in pullman verso Olbia per prendere il traghetto. È un bel ricordo, anche se stavo andando a trovare Quella Luana.
14. Canzone della numero 88 che associ a un momento o persona? (The Sins Of Thy Beloved)
• Nessuna in particolare.
15. Quale canzone della numero 69 ti emoziona di più? (Octavia Sperati)
• La magnifica Dead End Poem.
16. Quante volte hai visto la numero 85 live? (Sugababes)
• Nessuna, ma c’è la possibilità che accada perché finalmente le VERE Sugababes sono di nuovo attive e si stanno dando una mossa!
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 73? (Ala.ni)
Darkness At Noon.
18. Album preferito della numero 61? (Gåte)
Jygri.
19. Prima canzone ascoltata della numero 64? (Pure Reason Revolution)
• Credo Deus Ex Machina, durante lo stesso viaggio in Germania in cui ho conosciuto i The Birthday Massacre.
20. Canzone preferita della numero 77? (The Romanovs)
Mr. Okada. Maremma, quanto mi mancano i The Romanovs!
21. Album preferito della numero 66? (Rose Chronicles)
Shiver.
22. Prima canzone ascoltata della numero 97? (Nero)
Into The Past, grazie alla colonna sonora di The Great Gatsby.
23. C’è una canzone della 68 che trovi catartica? (M.I.A.)
Exodus e Sexodus, specie se ascoltate insieme.
24. Come hai scoperto la numero 71? (Loïc Nottet)
• Mi vergogno di ammettere che nel 2015 ancora non seguivo l’Eurovision, quindi l’ho scoperto più tardi grazie a Michele.
25. Canzone della numero 76 che ti rende felice? (Amanda Somerville)
Angel Of Mine mi mette non ironicamente di buon umore. Ah, i tempi in cui avevamo scambiato l’Amanda per Pescy.
26. Canzone preferita della numero 53? (Les Discrets)
• Non so decidere tra L’Echappée e Après L’Ombre.
27. Album preferito della numero 52? (Ramin Djawadi)
• La colonna sonora della prima, perfetta, immacolata stagione di Westworld.
28. Prima canzone ascoltata della numero 82? (Morning Parade)
Under The Stars.
29. Testo preferito della numero 58? (Brooke Fraser)
• “I love your projection, but I don’t love you; your perceived perfection though it’s just not true.Psychosocial mi fa sentire attaccato e validato allo stesso tempo.
30. Quante volte hai visto la numero 67 live? (Sharon Den Adel)
• Da solista nessuna, con i Within Temptation due volte.
31. Prima canzone ascoltata della numero 94? (:LOR3L3I:)
• Penso Wolfheart.
32. Album della 62 che ritieni sottovalutato? (Abney Park)
• Essendo precedente al loro periodo steampunk, The Death Of Tragedy è ovviamente semi-dimenticato.
33. Canzone peggiore della numero 79? (Hearts Of Black Science)
• Allora, sono sicuro che su The Ghost You Left Behind ci sia qualcosa di peggio, ma la prima che mi viene in mente è Something Better perché mi dà estremamente fastidio come Daniel la canta.
34. Prima canzone ascoltata della numero 84? (Versailles)
• Onestamente non ricordo: di quel week end mi è rimasto impresso ben altro.
35. Album preferito della numero 78? (Blanche)
• Hey, Blanche, tesoro: Empire ha bisogno di un fratellino al più presto!
36. Quante volte hai visto la numero 92 live? (Tactile Gemma)
• Onestamente non penso siano nemmeno mai andati in tour. Purtroppo. Qualcuno riporti indietro le sorelle Edvardsen dal loro esilio!
37. C’è qualche canzone della 86 che consideri un guilty pleasure? (Carice Van Houten)
• Non è propriamente un guilty pleasure, ma Iedereen Was Zo mi fa sghignazzare più del dovuto per il verso in cui dice: “E quindi sospetto che gli eterosessuali non siano capaci di suonare il piano – o almeno non bene”.
38. Come hai scoperto la numero 98? (The xx)
• Come i Nero, grazie a The Great Gatsby, che, Laña a parte, ha riassunto il meglio degli Anni Dieci.
39. Album preferito della numero 57? (Leandra)
• No. Mi rifiuto di scegliere tra Metamorphine e Isomorphine.
40. C’è qualche canzone della numero 81 che ti mette nostalgia? (Fever Ray)
• Opinione impopolare: l’eponimo mi fa venire non ironicamente nostalgia nostalgia del 2020.
41. Canzone della 91 che non ti piaceva ma adesso ami? (Swallow The Sun)
• No, non direi.
42. Testo preferito della posizione numero 74? (A Perfect Circle)
• Seriamente, ma quanto è ancora attuale Judith da uno a “America, devi finire sepolta sotto la cenere di Yellowstone”?
43. Canzone più emozionante della numero 96? (Paolo Buonvino)
• Emozionante? EMOZIONANTE? Volete EMOZIONANTE?! Vi do EMOZIONANTE, dannazione! (Truth, comunque, anche a prescindere da quella scena).
44. Canzone della numero 75 che ti rende felice? (Tori Amos)
Wildwood.
45. Canzone preferita della numero 59? (Anette Olzon)
Invincible.
46. Primo album ascoltato della numero 87? (Soap&Skin)
Lovetune For Vacuum: sono andato in ordine.
47. Membro preferito della numero 54? (Alcest)
• Neige, duh.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 93? (ISON)
• La demo di Atlas.
49. Album che possiedi della numero 70? (Elusive)
• Tutti e tre e pure il singolo.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 51? (Lucia)
• Quando ho scattato Turn To Gold con Elle e Giulia.

Friday, 24 December 2021

E come da tradizione…

Ero convinto che la terapia d’urto dell’anno scorso avesse curato la Mater, che essersi trovata a doverselo fare lei, l’albero, gliene avesse fatto passare la voglia. Non ha parlato di farlo fino a tre giorni fa e, anche avendomi fatto portare giù le scatole, non si era mossa.
Invece ieri, emergendo dalla mia tana per barcollare verso il bagno, avevo visto i rami in salotto – l’albero era montato ma ancora non aperto né decorato; e oggi, mentre io giravo per questioni di Pokémon Go da parte di entrambi, lei l’ha addobbato imperterrita. Però ha barato: ha messo solo le luci e le ghirlande senza palline o cianfrusaglie varie.
“Perché ora che tocca farlo a te, lo trovi incredibilmente tedioso.”
“No, non è vero! È che da sola non ho il tuo occhio.”
Certo. Chissà che l’anno prossimo finalmente si arrenda. L’importante è che continui a non coinvolgermi, così anche la mia Melania interiore resta sopita.

Parlando d’altro, stasera sembro la hotline per disperati in ansia per il cenone / pranzo con il parentame, e la cosa ha confermato le riflessioni che ho diligentemente fatto anche quest’anno sulla mia antipatia nei confronti del Natale. In realtà si tratta di un’espansione di quelle del 2017, ma ho isolato la parola che mi urta di più quest’anno, ed è “famiglia”.
Più ancora che per la gente che arriva e ti punta una pistola alla testa per farti essere felice or else, il Natale mi urta per la pressione sociale che pretende la (temporanea) disgregazione delle nostre famiglie elettive per costringerci a tornare a relazionarci con i nostri consanguinei, che ci piaccia o no. L’idea pervasiva è che, in questo periodo di grande gioia e bontà, i legami che ci siamo creati, le comunità che abbiamo scelto, gli spazi sicuri che ci siamo ritagliati non valgano nulla in confronto alla semplice linea di sangue che ci è capitata.
Nel caso peggiore ci ritroviamo seduti a tavola tra l’anziana zia bigotta che traccia i solchi intorno all’altare in ginocchio e il cugino prete che è finito sui giornali per un attacco transfobo a una certa personalità pubblica, di fronte allo zio complottista che è il più sveglio di tutti e l’altro cugino, che, a trent’anni suonati, tentava di strapparti i secchielli di lego di mano durante il trasloco e che rimpiangi di non spinto giù dalle scale fingendo che ti fosse sfuggito il secchiello di mano. Tutta gente, vuoi per questioni personali, vuoi per l’archetipo che rappresenta, normalmente eviteresti come la peste – in effetti, tutto il resto dell’anno lo fai – ma che la Magia del Natale ti costringe a sopportare solo perché ci condividi parte del corredo genetico.
Nel caso migliore, se riusciamo a sfangarci il parentame, rischiamo di ritrovarci soli perché il nostro sistema di sostegno e il piccolo mondo che ci siamo creati al di fuori dei consanguinei è incastrato coi propri parenti serpenti, e a me personalmente la cosa irrita.

Poi non nego che esista anche gente fortunata in cui le due sfere coincidono o sono quantomeno compatibili, eh! Se la vostra famiglia non è problematica, vi volete genuinamente bene e vi incontrate con piacere, by any means go for it!
Ma sto sentendo tanti di quegli amici o conoscenti stressati perché hanno problemi con i parenti, perché soffrono di nevrosi e questi incontri affollati pesano su quel lato, o che hanno legittime preoccupazioni di natura sanitaria per via del covid che sono ignorate per una stupida tradizione, e le loro voci sono silenziate perché “fa brutto” non passare il Natale con i parenti.
A questa mia impressione si aggiunge che l’emergenza globale e il precedente inasprimento dei contrasti politici hanno reso i grandi raduni di gente randomica se non per la parentela ancora più infiammabili, e stanno comparendo molti post, ad esempio rivolti a persone LGBTQ+, che danno consigli su come affrontare il periodo festivo mantenendo intatta la propria salute mentale.
Evidentemente il problema è reale e colpisce diverse persone. Se esistono post su come affrontare le feste, evidentemente si parte dal presupposto che siano un impegno che non si può ignorare, ed è una cosa assurda!

Ripeto: sono felice per le famiglie davvero armoniose, auguro loro tanti Natali da trascorrere gioiosamente insieme tra lucine, cenoni e regali. Ma ritengo sia fondamentale che nella sensibilità pubblica inizi ad esserci spazio anche per chi queste cose non le ha, o non se ne interessa. Normalizziamo non voler fare nulla a Natale. Normalizziamo dire: “Guarda, non ho molta voglia di venire al cenone, non me la sento”. Normalizziamo incontrare i parenti che ci vanno a genio, dire: “Mi farebbe molto piacere vederti, ma la presenza dello zio omfobo e del cugino prete renderebbe la serata spiacevole; ti va di prenderci un caffè in settimana?”. Normalizziamo che, se davvero vogliamo vedere qualcuno dopo tanto tempo perché gli vogliamo bene, esistono anche altri giorni.
Normalizziamo scegliere con chi condividere la gioia delle feste.

Per onestà intellettuale, aggiungo che, ovviamente, la mia visione delle feste è pesantemente influenzata dal rancore che nutro verso buona parte dei miei parenti. Sono nella posizione privilegiata di avere scuse plausibili per non incontrarli (i.e.: vivo lontano, passo il Natale con la Mater invece che col ramo paterno della famiglia), ma sentire la pressione sociale di farlo mi urta. Vedere miei amici sotto quella stessa pressione sociale – per quanto la loro situazione sia diversa, nel bene o nel male – mi fa arrabbiare. Magari c’è anche un pizzico d’invidia per chi invece ha una famiglia normale.
Però davvero, spostiamo la priorità dal concetto di famiglia al benessere delle persone che la compongono. E se qualcuno si offende, iniziamo a spostare il peso del giudizio sociale su di loro e sulle pretese che si arrogano sul tempo e la salute mentale altrui.

Wednesday, 22 December 2021

Ritorno ad Asburgo?

Martedì 21 dicembre, ore 2:15 circa.
Vado a controllare come sta la Mater: sta bene, non ha la febbre, non ha mal di testa, non ha crampi da disidratazione, so far so good. Si alza anche da sola per andare in bagno senza problemi, perdita di equilibrio o simili. Sono passate circa dodici ore dall’inoculazione della terza dose di Moderna e sembra che il richiamo non sia poi così apocalittico rispetto alla seconda dose.
Rassicurato che non sembri avere bisogno di nulla e io possa quindi dedicarmi alla mia oretta e mezza di musica immersiva senza il rischio di essere interrotto, le porto un bicchiere d’acqua e torno in camera mia, speranzoso che la mia terza dose, che mi inoculeranno mercoledì 22, non mi faccia stare male come la seconda.

Ore 12:45 circa.
La Mater mi sveglia chiedendomi se posso preparare io il pranzo a entrambi: a metà mattinata le è salita la febbre quasi a 38 e, anche con una Tachipirina, si sente uno straccio. Mi prendo i miei venti minuti d’ordinanza per smaltire il trauma di essermi svegliato vivo anche oggi, dopo di che mi metto ai fornelli.
Le speranze di cavarmela a buon mercato l’indomani sono bellamente sparite.

Ore 17:50.
La Mater ha dormito profondamente tutto il pomeriggio. La sveglio perché vuole farsi l’ora di spotlight di Snover con doppia exp da cattura per fare punteggio su Pokémon Go. Sta meglio ma è disidratata e le viene un crampo al piede. Ha ancora un certo mal di testa.
Il dopodomani mi sorride sempre di più. In compenso, faccio il livello 48 su PoGo e poi aiuto lei a salire un po’ di punteggio facendo i tiri eccellenti.

Ore 20:30.
La Mater ha una nausea tale che la sola vista della carne che mi sto cucinando le fa venire un conato. Tenta di farsi un kisiel per cena e non riesce nemmeno a terminarne una tazza. Ha costanti capogiri, non riesce a mantenere l’equilibrio e anche solo alzarsi dal divano al tavolo le sembra una fatica insormontabile.

Mercoledì 22 dicembre, ore 01:30 circa.
La Mater è ancora in piedi al computer; apparentemente le è passato tutto – come da prassi in uno schiocco di dita, all’improvviso. Tanto meglio.

Ore 11:55.
La Mater ha di nuovo pero il senso del gusto: tutto ciò che mangia le sembra erba o cartone. Alla meglio (o peggio?) ha un retrogusto amaro. Andiamo bene. Io sto mangiando più presto del solito in modo da recarmi allo hub e sperare di non fare sera in attesa del mio boost.
 
Ore 13:39.
La disorganizzazione allo hub è stata minore del previsto (o della scorsa estate), in circa un’oretta ho sbrigato scartoffie, fila, inoculazione e periodo d'attesa in caso di. Non mi resta che tornare a casa.

Ore 17:09.
Inizio ad accusare i primi sintomi: spossatezza, difficoltà di concentrazione, antipatia generale per la vita – voglio dire, più del solito. È piuttosto presto, speravo di mantenere un po’ più di autonomia e non so bene cosa aspettarmi.
Visto che le altre volte la Mater ed io abbiamo avuto sintomi molto simili e lei si è presa un’altra mazzata, mi preparo a passare un’altra notte di delirio febbrile convinto che il mio cuscino sia il Castello di Asburgo. L’unica consolazione è, ancora una volta, che durerà massimo quarantott’ore e poi sparirà, a differenza del virus che può durare settimane e lasciare danni permanenti. Su quello continuano a non esserci dubbi.

Tuesday, 23 November 2021

Riflessioni su Kate Moss

Mentre scorrevo Tumblr, in uno dei vari blog di fotografia di moda che seguo è spuntata una foto di Kate Moss. Quella Kate Moss.
Sempre perché in “2007, when size zero was the rage” io ero, come per Britney, troppo cool per la cultura pop mainstream, degli scandali e della conversazione pubblica su Kate Moss mi arrivò ben poco. Eppure a tutt’oggi, quando vedo una sua foto la mia prima reazione è clutch my pearls e inorridire perché OMG, che pessima influenza ha sui giovani.
Ecco, pensate a quanto pervasivo dev’essere stato lo sfruttamento mediatico di questa donna se perfino in me, che non ho calcolato di striscia il mondo della moda fino al 2011, si è talmente sedimentata l’idea che Kate Moss sia problematica che ancora oggi, nell’anno del Signore 2021, la prima immagine che leggere il suo nome o vedere la sua faccia mi evoca sono giovani ragazze che, solo trovandosi nelle vicinanze di una sua fotografia, precipitano in una spirale di droga e anoressia da cui usciranno solo coi piedi avanti.

Ora, lungi dal voler santificare Kate Moss o affermare che non fosse un personaggio da prendere con le pinze, però questo senso di allarme, questo volerla droppare come una patata bollente ogni volta che un’opera che la contiene mi capita per le mani è un filo esagerato e vorrei analizzarlo per liberarmene.
Anche perché, un po’ come Britney, era figlio della sua epoca. Gli Anni Duemila sono stati un periodo davvero orribile e violento.
Perché chi era, alla fine, Kate Moss? Era solo una ragazza con un disturbo alimentare e un problema con la droga che sono stati sfruttati e fetishizzati da una parte, e gonfiati e demonizzati dall’altra. Non era il carnefice dell’innocenza delle adolescenti della mia generazione: era una vittima dello showbiz e degli standard di bellezza come chiunque altro. (Per la cronaca, lei ha sempre negato di aver avuto disturbi alimentari, era solo che “Nel B&B non c’era cibo”, o “Nessuno mi portava a cena”; certo, Kate.)
Poi per carità, è giustissimo che abbia pagato lo scotto dello scandalo della cocaina, o di aver commentato con leggerezza che “Nothing tastes as good as skinny feels” (anni dopo si è pubblicamente pentita di quell’affermazione), ma la stampa si è accanita su di lei come se fosse l’origine del problema, non un sintomo e una vittima (fermo restando che bisogna sfatare il mito dei “role model” dei giovani e smettere di usarli come capro espiatorio per la propria inadeguatezza genitoriale).
Oltre a lei, c’è stata molta altra gente che si è arricchita con l’estetica “heroin chic” che le è stata cucita addosso. C’è chi ha pascolato intorno alla sua immagine da hard-drinking bad party girl per anni, salvo poi cadere dal pero e disconoscerla quando è saltato fuori che un problema di uso di sostanze ce l’aveva davvero. Il problema è stato, anche qui, che invece che mostrare compassione verso un essere umano in difficoltà, si è proceduto a glamourizzare e sfruttare la cosa.
E anche per quanto riguarda i problemi alimentari, ammettiamo pure che sia naturalmente magra e non abbia un problema di, ahem, “non trovare cibo nel B&B”: è Kate Moss, presa, vestita, fotografata e messa in copertina o in una campagna di moda il problema, o piuttosto il fatto che, accanto a una Kate magra non si siano messi anche altri tipi di fisico fino a praticamente l’altro ieri? Kate Moss aveva i suoi problemi di cui occuparsi, non le si può addossare alla sua magrezza la colpa di non mostrare alternative al pubblico.

E niente, questo è quanto avevo da dire su Kate Moss, ennesima vittima della mancanza di empatia degli Anni Duemila che nella celebrity culture ha raggiunto la sua apoteosi. Spero di aver demistificato i problemi che ho con lei, così da non fermarmi al viso o al nome nel giudicare una foto artisticamente valida, perché la cultura di massa mi ha instillato un’antipatia atavica per l’ennesima donna che ha vittimizzato.
Kate, probabilmente non mi starai mai simpatica (anche perché diciamocelo, si può essere una top model e subire pressioni e angherie senza diventare problematici, chiedi a Karen Elson), ma non meritavi di essere trasformata in una red flag ambulante.

Friday, 29 October 2021

Questioni di zucche

“È questo il mio costume: sono un maniaco omicida. Non si distinguono dagli altri.”
Ed è questa la mia battuta preferita da fare in questo periodo dell’anno, specie ora che, senza Lucca, non posso sfangarmela con la scusa di essere distrutto dalla fiera / il lavoro la sera del trentun ottobre.
Una o due volte ho provato a fare il pioniere di Halloween da piccolo, ispirato principalmente da Piccoli Brividi e, in particolare, Le Zucche della Vendetta. Mi sono mascherato, ho fatto un giro di trick or treating nei palazzi vicini, qualcuno è anche stato al gioco e mi ha dato dei dolciumi, ma la cosa è più o meno finita lì. Semplicemente, Halloween non appartiene alla mia identità nella maniera viscerale e istintiva in cui, ad esempio, Carnevale o il Natale ne facevano parte, e il tentativo di trapiantarlo non ha attecchito alla lunga. Cioè, se verso i dieci o undici anni mi ero già stufato di inventarmi un costume per Carnevale, figurarsi se avevo (o ho) voglia di inventarne anche uno per Halloween. (Su come sia finito il mio rapporto col Natale penso sia superfluo aggiungere qualcosa ora, avrò tempo a dicembre per trovare qualcosa di cui lamentarmi anche quest’anno).

D’altro canto, essendo Halloween un prodotto d’importazione (almeno nella mia vita e nella comunità in cui sono cresciuto, poi leggo che in Veneto invece ne esiste una variante come residuo della cultura celtica di sostrato), non mi suscita nemmeno la forte reazione avversa che l’onnipresenza di altre feste mi causa.
Per ora.
Perché ragazzi, seriamente, a me sta benissimo che voi vi ci divertiate, che abbracciate i costumi, i dolci, le decorazioni e tutto, li facciate vostri e li trasformiate in uno spunto di divertimento. Solo, magari evitiamo di trasformarla nell’ennesima festa comandata per non partecipare alla quale serve trovare una scusa socialmente accettabile?
Certo, sarà sempre meno urticante dei buoni sentimenti preconfezionati che si respirano in altri periodi dell’anno, e ha in più l’aspetto creativo dei costumi e quello iconoclastico di esporre i benpensanti a tutto un immaginario macabro; ma il calendario festivo italiano è già abbastanza fitto di occasioni da schivare, non me ne serve un’altra.
Quindi non iniziamo a chiedere: “Cosa fai a Halloween?” o “Da cosa ti mascheri?”, perché se no quello da maniaco omicida non sarà più solo un non-costume e una citazione a Mercoledì Addams, mhkay?

Tuesday, 12 October 2021

Stacked Smoke

La cosa più vicina a un incendio che io abbia mai vissuto è stata la Notte dei Lunghi Allarmi nella casa dello studente a Trieste. Ovvero, un prolungato quanto falso allarme dovuto a cause non meglio precisate che con gli incendi veri e propri non aveva nulla a che fare.
Almeno fino a stasera. Ieri sera, tecnicamente. Insomma, poche ore fa.
 


Sono le undici meno spicci di sera. Vado in bagno, sento odore di bruciato e, contrariamente al solito, scrollo le spalle e me ne frego. Dico “contrariamente al solito” perché al secondo piano abbiamo un tossicodipendente che vive da solo e io, essendo ansioso, ho sempre paura che metta la roba sui fornelli, si faccia di qualcosa e lasci che tutto bruci, quindi di solito mi affaccio a vedere se c’è fumo da lui.
Oggi, dicevo, decido di fregarmene e, tempo le undici, qualcuno ci suona il campanello: sono le vicine del piano di sopra che ci avvisano che c’è un incendio e dobbiamo scappare.
No, sul serio: c’è un incendio e dobbiamo scappare. Il pianerottolo è pieno di fumo, ci entra pure in casa.

Onestamente, non so tutt’ora come mi sia sentito in quel momento. Ho afferrato il telefono e chiamato il 118, dicendo con una voce incerta e incredula che c’era un incendio al mio indirizzo. E sottolineo, incredulo, perché queste cose di solito capitano o nei film, o agli altri.
Onestamente, mi fa strano ritrovarmi ora sotto shock perché, lì per lì, non credo di aver avuto paura. Non c’erano fiamme in vista e non penso che il cretino fosse riuscito a dar fuoco a chissà cosa – stupidamente non mi passa per la testa che le fiamme potrebbero raggiungere la bombola del gas, ma dettagli. Mi infilo un paio di pantaloni con le tasche, ci butto dentro l’iPod perché col cavolo che lo lascio bruciare se qualcosa va storto, poi il telefono e il borsellino con carte e documenti; infilo il computer nella borsa e prendo quello, la fotocamera e il teleobiettivo; la Mater nel frattempo ha afferrato un borsone e ci ha buttato dentro tutte le cartelle di documenti nostri, della casa e di chi più ne ha più ne metta.
Le vicine di sopra hanno già raccattato la loro roba, infilato il gatto nel trasportino e stanno scendendo. Noi ci accodiamo – rigorosamente per le scale, mai ascensore in queste situazioni – facendo il secondo giro di scampanellate a tutti.
Il grosso del fumo è nel terzo piano, il che significa che sta salendo, indovinate un po’, dal secondo, dalla casa del tossico. What a surprise. Dirimpetto a lui, la vedova (del tutto sola) è già da qualche mese che dà i numeri e mostra segni di senilità, e si rifiuta di uscire e mettersi in salvo. Io e la Mater la incoraggiamo, e quella chiude il portone. Ok.
Al piano di sotto, aiutiamo l’altra vedova, quella pluri-novantenne e super acciaccata (e anche lei del tutto sola), a scendere le scale. Ci troviamo sul marciapiede con i vigili del fuoco già sul posto e iniziamo a fare la conta: manca solo quella del secondo piano. Dal pian terreno portano un paio di sedie per far accomodare le più anziane. La Mater resta con la vedova del primo piano, tenendole le mani sulle spalle per tranquillizzarla; io afferro il telefono e chiamo Katia per avvisarla che potrei tardare un po’ al nostro appuntamento serale di visione di serie tv e roba su YouTube. La prima cosa che mi esce è una risata isterica che fa agghiacciare anche me. Giro l’angolo mentre le racconto in breve cosa succede perché improvvisamente sono fuori dalla grazia del Signore. Con tutto che non ho avuto paura sul momento e non sembra esserci nulla di davvero pericoloso.
Riattacco, mi assicuro che la Mater e la vedova stiano bene, mi avvicino ai canadesi del terzo piano perché, in tutto quel casino, col cavolo che mi lascio sfuggire l’occasione di parlare (e snarkare) in inglese. E perché, essendo i penultimi arrivati, si trovano in disparte e la cosa mi dispiace. Gli ultimi arrivati del palazzo sono quelli del pianterreno e hanno fornito le sedie, quindi almeno non sono esclusi.

Il nostro tossico ovviamente importuna i passanti curiosi che casualmente hanno da portare a spasso i cani proprio qui, chiedendo loro se hanno sigarette. Quando quello del terzo piano commenta che sente di nuovo odore di bruciato, io ribatto: “Yeah, well, somebody’s smoking. The irony. And the nerve.” facendo ridacchiare la moglie. Mi becco volentieri i complimenti per il mio inglese, ripercorriamo la mia carriera scolastica, scopro che lei aveva considerato di studiare a Trieste alla mia stessa facoltà, e intanto chiedo conferma ai pompieri che quella del secondo piano stia bene. Sì, per fortuna.
Ogni tanto mi avvicino anche alla Mater e alla vedova per vedere come stanno. La vedova ha freddo. Io poggio le borse, mi levo la giacca e gliela poggio sulle gambe, un po’ già pregustandomi i complimenti.
Si fa circa mezzanotte quando ci danno il via libera per tornare a casa; per fortuna la Mater si è fermata a fare pipì prima di uscire, e onestamente non l’ho nemmeno sgridata per quello perché immaginavo ne avremmo avuto per un po’.
 
Ringraziamo i pompieri, riaccompagniamo la vedova al primo piano, disseminiamo “buonanotte” ai vicini intorno a noi, torniamo a casa, spalanchiamo tutte le finestre, la vedova chiama e ringrazia tantissimo sia la Mater sia me: ecco i tanto agognati complimenti. Mi sento generoso e mando un WhatsApp al Guasto per dargli io la notizia e rassicurarlo sul fatto che noi stiamo tutti bene e la casa non ha subito danni, non si sa mai che finiamo sulla Nuova e lui legga. Chiamo Katia, le racconto e mi accorgo che inizio a tremare e sentirmi esausto: l’adrenalina è calata e sta subentrando lo shock.
Shock per cosa non lo so, visto che non ho visto le fiamme ed ero sempre consapevole che il pericolo fosse relativamente basso. Ma mi guardo intorno, vedo i miei pupazzi, i CD, i libri, l’armadio con i vestiti, tutte le cose che avrei perso se l’incendio si fosse propagato. Forse è la puzza pervasiva di bruciato, che si attacca a tutto e non lascia tregua anche ora che l’aria è tornata tecnicamente respirabile.
Forse, concludo, anche se è stato piccolo, è pur sempre stato un incendio, e gli incendi sono eventi intrinsecamente traumatici. E poi io sono un Tyrell: sono piuttosto suscettibile alle fiamme.
La battuta migliore, però, l’ha fatta Katia quando le ho detto che tutto è partito dal tossico che cucinava.
 
Ma stava cucinando cibo o crack?

Ha poi concluso che, visto che come inspiravo i fumi scoppiavo a ridere, probabilmente era la seconda. E, in tutto ciò, io rosicavo perché l’unica volta che avrei avuto ragione a insospettirmi per la puzza di bruciato non l’ho fatto. Mannaggia.
 
In questo momento sono esausto. Fisicamente esausto. Anche mentalmente: non ho avuto problemi a guardare Midnight Mass, ma ora non riuscirei, ad esempio, ad ascoltare musica o leggere o giocare a The Sims 4. Sto scrivendo più che altro per buttare fuori questo groppo di emozioni la cui natura non ho nemmeno compreso io stesso, e che si sono affastellate rapidamente quanto in sordina per tutta la sera.
Però adesso posso dire di essere sopravvissuto a un incendio. Non male, per un Tyrell.

Friday, 10 September 2021

Evanescence, dieci anni dopo

Sono passati dieci anni e credo sia il caso di parlare di Evanescence.
Non la band, non l’EP del 1998, ma l’album che porta questo titolo perché – lo sostengo ancora – Pescy & co. non avevano idea di cosa inventarsi.
Del resto, ho postato per il decennale del mio primo ascolto di Fallen, per quello dell’uscita di The Open Door, quindi perché rompere la tradizione? Dieci anni fa ad oggi Evanescence veniva diffuso illegalmente su internet (con un mesetto buono di anticipo rispetto alla pubblicazione, cosa che mi fece sghignazzare non poco) e sento di aver qualcosa da dire a riguardo.
 
Ovvero, col senno di poi ammetto che potrei essere stato eccessivamente duro con quell’album. Almeno un pochino.
Con questo no, Stefano, non sto dicendo che Evanescence fosse segretamente un bell’album fin dall’inizio: resto fondamentalmente dello stesso parere che espressi ai tempi (qui rifinito e approfondito come recensione vera e propria per Armonie Universali), al massimo alleggerirei un po’ il giudizio su un paio di brani. Però sarei sleale a non ammettere che lo espressi in maniera molto più dura del necessario e misi fin troppa enfasi sui lati negativi delle canzoni per pura Schadenfreude e pettiness.
Evanescence non è un buon album, ma non è la macchia indelebile sulla cultura musicale occidentale che cercai di farne all’epoca. A volte, vuoi per le circostanze, vuoi per stanchezza artistica, vuoi per la fretta, una band pubblica un album brutto: pace, ce ne si fa una ragione e si spera in quello successivo. Perché, quindi, tutta quell’acredine?

Beh, con dieci anni di maturità in più posso ammettere che il mio principale problema con Evanescence è che detesto non avere ragione. La sua stessa esistenza, a prescindere dal contenuto, mi urta perché ha smentito le mie teorie secondo le quali Pescy volesse lasciar morire gli Evanescence di incuria per dedicarsi al progetto solista, che ero pronto a sbattere in faccia con somma soddisfazione alla gentaglia del fanclub.
Che poi l’album fosse oggettivamente carente è stata una fortunata (quanto prevedibile) coincidenza, un bonus che mi ha permesso di ammantare di validità e critica musicale seria un’antipatia viscerale e personale. Per questo ho spolpato e rosicchiato la critica a quel disco con lo stesso gusto che riservavo alle alette di pollo dei Mastri d’Arme: perché avevo la scusa perfetta per farlo a pezzi a ragion veduta senza essere tacciato di parzialità. Ma sì, il vero motivo per cui criticare quella produzione opaca e cacofonica, quel songwriting insipido, quel sound generico e quegli arrangiamenti superficiali mi portava così tanto piacere è che rosicavo perché non avevo avuto ragione sul futuro della band. Quello, più il desiderio segreto di convincere quanta più gente possibile che quel disco non fosse necessario, così da sentirmi dire: “Cavolo, Alessandro, quanto sarebbe stato meglio se avessi avuto ragione e si fossero sciolti davvero!”. O che l’evidente mediocrità del prodotto fosse il colpo di grazia e la band si sciogliesse subito dopo.
Beh, a riguardarla dopo tutti questi anni, l’intera situazione era piuttosto ridicola. Me l’ero presa a morte per una futilità incredibile – se anche Pescy avesse messo la band in pausa a tempo indeterminato per fare le cose da solista, anche cinque, sei anni di silenzio non ne avrebbero necessariamente decretato la fine. E comunque, non fu poi molto tempo dopo che i miei gusti musicali maturarono e io stesso giunsi alla conclusione che un suo album solista synthpop sulla Luna (sempre per citare Stefano) sarebbe stato molto interessante.
 
Comunque sia andata con il non-split della band, ci tengo a sottolineare che in retrospettiva ho avuto ragione su praticamente tutto il resto circa il disco, come le interviste di Pescy hanno man mano rivelato esplicitamente o tra le righe: lei voleva dedicarsi al progetto solista, è stata la label a richiamarla (verosimilmente per via dei We Are The Fallen), le ha tirato dietro il materiale solista che aveva riconvertito di corsa ad album degli Evanescence, e poi hanno dovuto riscrivere tutto in fretta e furia – e da qui il disco è uscito com’è uscito.
 
Volendo dare un giudizio meno caustico, avrei comunque fatto fuori Siccoviroll Siccoviroll e The Other Side perché sono indegne, Made Of Stone continua a non potersi sentire (e non capisco perché i fan la adorino tanto), e Erase This avrebbe avuto bisogno di un vero ritornello.
Per il resto, se spengo il cervello e faccio finta forte forte che sia un’altra band, quasi quasi perfino Du Uocciuocciuon non è così insopportabile; buttata in radio ci sta, e forse non mi farebbe più perdere l’erezione per poterci alzare senza dare nell’occhio dalla panchina di Parco Sempione su cui stavamo limonando quella volta.
Sono anche abbastanza deciso a salvare Say You Will: non è un granché, ma nemmeno attivamente offensiva (perlomeno finché Pescy non tenta di cantarla live).
Droppate quelle tre canzonacce e incluse invece le quattro bonus track, avrebbe potuto essere un album decente degli Evanescence: non il loro migliore, sempre prodotto malissimo, ma ben sopra la sufficienza risicatissima che gli diedi ai tempi.
 
Quanto alla band, col senno di poi, sono tutto sommato contento di non aver avuto ragione: una volta fatta pace con Pescy, non mi sarei privato per nulla al mondo né di Synthesis, specie per come ha riportato in vita le canzoni di Evanescence, né tantomeno di The Bitter Truth.
Comunque, ritengo che l’intera epopea de La Pescivendola e dell’album peggiore di una delle mie band preferite sia una delle esperienze che più mi ha fatto crescere come fan e ascoltatore di musica: ho imparato che gli artisti hanno diritto a un loro arbitrio e una loro vita privata, che le loro creature possono anche sparire, ma i ricordi rimarranno sempre, che evolversi e cambiare idea è positivo, e che l’industria musicale è più complessa di “Ommioddio, se gli Evanescence non fanno un altro album entro tot tempo non avranno più i soldi per fare dei bei videclip e dovranno rassegnarsi a Pescy che fa jogging sul Brooklyn Bridge la sera per smaltire il matrimonio” (perché un rancore è per sempre, DeBeers™).

Ps, lo ribadisco per Stefano e Lukas: io sono stato perfido, ma Evanescence continua a essere un album brutto.
E per controbilanciare a questo mio momento di sincerità, ricordiamoci di quella volta che Pescy è cascata come una pera cotta sul palco.
DU UOCCIUOCCI– SBAM!


Tuesday, 17 August 2021

The Millennial War

Ho seri dubbi che qualcuno di noi avesse mai pensato che la guerra in Afghanistan avrebbe mai risolto qualcosa.
Non ricordo quali fossero i sentimenti iniziali a riguardo, visto che è stata poi eclissata dalla ben più famosa e controversa guerra in Iraq: di quella sono sicuro, era stata percepita fin da subito come inutile, pretestuosa e imperialistica da questa parte dell’Atlantico, ma l’invasione dell’Afghanistan era arrivata proprio sulla scia dell’11 settembre che, per un motivo o per l’altro, era stato il più grosso trauma collettivo della mia generazione in tutto l’Occidente. L’opinione pubblica americana era sicuramente interventista, ma in Europa non ricordo proprio: something something Al-Qaeda, talebani brutti e cattivi, povere donne in burka – tutto questo sicuramente, ma dell’intervento militare in sé non ricordo cosa si pensasse dalle mie parti.
Dicevo, quindi: dubito che qualcuno si fosse illuso che questa guerra avrebbe portato benefici né a noi, né tanto meno agli Afghani. Però vederla concludersi nel modo in cui si è conclusa è davvero deprimente, e noto che molti dei miei coetanei stanno esprimendo un simile senso di scoramento e impotenza.

Forse è proprio per il perverso Ouroboros che ne è uscito: vent’anni fa siamo partiti con uno Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo, e oggi, nel momento in cui gli Occidentali hanno levato le tende, ci siamo ritrovati con quello stesso Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo.
Cosa abbiamo fatto in queste due decadi? Qual è stato il senso di tutta questa violenza, della devastazione, delle morti a centinaia, della carneficina di un intero popolo? A cosa è servito?
Credo che sia così demoralizzante perché questa guerra è una metafora perfettamente calzante della vita di tutti noi, che nello stesso lasso di tempo siamo cresciuti e diventati adulti: appena abbiamo iniziato ad avere coscienza di come sia il mondo dopo l’infanzia, ce lo siamo visto stravolgere da eventi internazionali la cui portata era difficile da capire. Abbiamo lottato con unghie e denti per cercare di strappare un po’ di decenza, rispetto, empatia e calore dalla società intorno a noi. Abbiamo protestato contro governo dopo governo che erodeva la nostra base scolastica e distruggeva la nostra stabilità lavorativa. Abbiamo stretto i denti attraverso una serie infinita di crisi e difficoltà economiche. Abbiamo iniziato ad alzare davvero la voce sull’imminente crisi climatica. Siamo sopravvissuti allo stillicidio che, dagli Stati Uniti, il trumpismo ha avuto anche da noi. Pride dopo Pride, sciopero dopo sciopero, manifestazione dopo manifestazione, dibattito dopo dibattito. Abbiamo iniziato a vedere i risultati, a guardare la generazione dopo la nostra che finalmente poteva essere un po’ più libera, un po’ più se stessa, che cresceva non già più liberandosi di certi bigottismi e paraocchi, ma senza averli mai davvero indossati. Abbiamo sperato che la coscienza collettiva fosse maturata, che gli estremisti fossero solo una frangia che continuava a fare una guerriglia senza futuro con i suoi Family Day e i suoi slogan sui porti chiusi e i suoi Patti Lateranensi.
Ed eccoci qui, vent’anni dopo, ancora nella miseria più nera, ancora senza un futuro, ancora con crimini d’odio nelle strade senza che si facciano leggi per arginarli, con quell’accozzaglia di neofascisti, filonazisti, integralisti cristiani, ipocriti e terroristi domestici che sono praticamente alle porte di Montecitorio e Palazzo Madama, pronti ad aspettare il ricambio del Governo per impossessarsene perché la maggioranza del nostro popolo probabilmente vorrà quello. Il tutto mentre l’ambiente intorno a noi è sull’orlo della devastazione più totale.

Ora, lungi dal voler affermare che da noi le cose vanno male come in Afghanistan. Non abbiamo le bombe, le sparatorie le abbiamo in casi estremamente eccezionali (a parte gli Stati Uniti), non seppelliamo un caro ogni settimana e mezzo, i nostri estremisti devono sgusciare entro i limiti della legge invece che imporli loro, non abbiamo vissuto la guerra in quanto tale. Non voglio paragonare la svolta autoritaristica e nazionalista dei Paesi occidentali con la devastazione di vent’anni di conflitto miltiare.
Ma questo sentimento di aver combattuto per decenni solo per trovarci punto e accapo ce l’abbiamo anche noi. Forse è per questo che il triste, per quanto prevedibile, epilogo della guerra in Afghanistan ha toccato qualcosa in molti dei miei coetanei. È il senso d’impotenza di fronte a decenni di lotte e sofferenze solo per trovarci, se possibile, a un punto ancora peggiore, con la fine completa di qualunque speranza per il futuro. È pensare che questo stesso malessere esistenziale che anche noi proviamo, i nostri coetanei in Afghanistan ce l’avranno decuplicato, e in una maniera molto più concreta e devastante di quanto, si spera, noi potremo mai conoscere.
 
Siamo cresciuti nell’arco di tempo della guerra in Afghanistan, e la guerra in Afghanistan ha finito col trasformarsi nella triste metafora di tutti i Millennial del mondo.

Saturday, 14 August 2021

Protectio memoriae

In un esercizio di assoluta futilità e pettiness, ho iniziato da un paio di giorni a togliere i tag della Ciospa a tutti i vecchi post su Facebook che li contenevano.
A dirla tutta, il vero motivo per cui non l’avevo fatto già gli anni scorsi è il ridottissimo tempo che dedicavo a quell’incubo di social network, figurarsi se avevo voglia di scavare tra i post passati. Ma dato che quest’anno Zuckerberg ha deciso di spammarmi i ricordi sotto forma di notifica quotidiana, probabilmente in un disperato tentativo di farmi trascorrere più tempo sulla sua piattaforma, ho ricominciato a scorrerli anche solo per levarmi la notifica, provando fastidio ogni volta che vedevo la Ciospa taggata.
Così ho deciso di intervenire caso per caso: basta uno schiocco di dita e voila, damnatio memoriae.
A volte lo faccio subito dopo mezzanotte, così che, se apre la pagina, dei suoi ricordi, non li troverà sicuramente. A volte me ne dimentico, e mi chiedo se l’anno prossimo si accorgerà che manca qualcosa.

Che poi mi chiedo: è davvero pettiness, la mia?
A muovermi è una specie di pudore. Si tratta dei miei ricordi, in fondo, e non voglio che una persona che si è dimostrata immeritevole del mio affetto e della mia considerazione vi abbia accesso.
È diverso rispetto alle foto: quelle, per quanto cariche di ricordi, hanno un valore primariamente artistico ed espressivo; c’è stato del lavoro da parte sua (per quanto, spesso, riluttante) ed è una cosa che rispetto.
Ma i post di cazzeggio su Facebook… quelli no. Non ha diritto di riviverli con me. Mi sono trovato spesso a sorridere per la nostalgia o perché dicevamo e facevamo cose genuinamente divertenti, e subito ho pensato che no, non si merita di sorridere e ricordare anche lei: ha perso quel diritto quando ha deciso di ignorare ciò che avevo da dirle per cercare di uscirne pulita.

Alla fine, forse non è nemmeno davvero una damnatio, quanto piuttosto una protectio memoriae. Lei ha fatto la sua scelta quando ha deciso di darmi per scontato pensando che non ci sarebbero state conseguenze. Ebbene, anche queste lo sono: mi riprendo l’esclusiva sui momenti di amicizia, visto che ormai posso essere certo della loro genuinità solo da parte mia.

Monday, 9 August 2021

Lucciole

A volte mi capita di ascoltare – o anche solo ripensare a – una canzone dell’inizio dello scorso decennio e sentire un dolore al cuore. Fisicamente, proprio un secondo in cui sembra che si sia fermato all’improvviso o sia scoppiato. Mi manca il respiro e devo lottare per espandere i polmoni, inalare l’ossigeno e sopravviere a quel momento. Il più delle volte passa subito, ma altre, come oggi, anche se il malessere fisico si dissipa rimane quello interiore, quello che ne è la reale causa.

Fra l’altro, è stato un rabbit hole a scatenarmelo: ho appena finito l’ascolto approfondito del nuovo album di Rag’n’Bone Man, quello in cui controllo e correggo i testi per inserirli nei file iTunes, e sulle prime non è nemmeno stato il tema ricorrente del Millennial che si accorge improvvisamente di aver superato i trenta e si chiede che fine abbia fatto la giovinezza a colpirmi. È che mi sono accorto che c’erano delle imprecisioni o veri e propri errori nei testi, così ho cercato un’altra fonte e sono andato a ritroso leggendoli parallelamente e correggendoli fino a tornare alla prima canzone, Fireflies. Da lì ho fatto l’associazione mentale a Baltimore’s Fireflies di Woodkid, e poi alla sua compagna di EP, Brooklyn. E Brooklyn, che stando a iTunes non ascolto da sei anni, la associo a un certo photoshoot di Kwannam Chu con una certa persona che si è ritirata dal mondo della fotografia, e niente, improvvisamente mi ha travolto tutto il peso degli anni che sono passati, delle occasioni che non ho inseguito, delle foto che non farò mai perché non visiterò mai quei luoghi e non incontrerò mai quelle persone.

La cosa più strana è che non ero per niente felice, all’inizio degli Anni Dieci. Era il periodo in cui la mia carriera universitaria e, con essa, le certezze che avevo sulla mia vita stavano cadendo a pezzi. Ero perso, confuso, perennemente in fuga da me stesso e dalla mia vita. Eppure, ora ci ripenso con nostalgia. Ora ricordo i week end a Milano, la pop culture su internet, le serate in discoteca, lo shopping, le foto che ho fatto, le persone che incontravo.
Non so se sia il tempo che erode sempre i momenti brutti e lascia i ricordi migliori, o se sia un oggettivo peggioramento del mio stato mentale, tanto che perfino quel periodo risulta felice rispetto a come sto ora. O forse, tutto sommato, quegli anni davvero non erano poi così male: ad esempio, tolta la musica e pochi specifici ricordi sparsi qua e là, gli Anni Duemila sono un enorme vuoto nella mia vita e non ho la minima nostalgia per la mia adolescenza.

In ogni caso, oggi mi ero già svegliato malmostoso, e ora questo momento di nostalgia, di dolore fisico per qualcosa che ormai è scivolato irrimediabilmente nel passato mi ha dato il colpo di grazia. Dovrei riprendere ad ascoltare Brooklyn in modo da stemperare l’associazione con quel periodo e diluirne l’impatto emotivo. È un po’ lo stesso motivo per cui rivedere certe foto dei primi tempi del mio Tumblr mi emoziona e ferisce a tempo stesso.

Saturday, 17 July 2021

Una notte con Miss Rona

Alla fine, gli Hunger Games di ieri mattina sono stati miracolosamente resi sopportabili da un’inaspettata copertura nuvolosa che ha portato un gestibile fresco sulla città. Allo hub del Mariotti la disorganizzazione regnava sovrana e ho impiegato oltre un’ora per entrare – parte della quale ho trascorso seduto sotto il tendone, parte sotto quello che, in un’altra giornata, sarebbe stato il sole cocente perché a una certa il personale non si è coordinato bene e c’era più gente pronta a entrare di quanta potesse stare dentro la palestra e ci hanno tenuti in standby sugli spalti di cemento.
Oh, e in tutto questo mi era anche venuta una colite dal nervoso e quindi stavo scoppiando; quello sicuramente non era colpa della disorganizzazione, ma i rallentamenti non hanno sicuramente aiutato.
 
Il peggio, comunque, è arrivato molto, molto dopo. Se il pomeriggio me la sono cavata relativamente a buon mercato, dormicchiando un po’ e leggiucchiando su Wikipedia per il resto del tempo. Ho fatto giusto in tempo a terminare l’articolo sul Castello di Asburgo in cui ero finito seguendo il rabbit hole, che verso mezzanotte, puntuale come un orologio, è arrivato il malessere. Ma roba che letteralmente tremavo per i brividi e sono dovuto andare a ripescare il pigiama pesante e il plaid dall’armadio nonostante le temperature estive tipiche del Merilend.
La tachipirina che ho preso è durata sì e no un’oretta, il tempo di fare qualche storia su Instagram, che il tremore è subito ricominciato.
Della notte in sé ricordo poco se non il carosello di freddo che nemmeno Snowpiercer e caldo infernale, brividi fortissimi e sudori incontrollati. Ma, soprattutto, il mio cuscino: a una certa, la febbre mi è salita oltre i trentotto e ho iniziato a delirare, convinto che il mio spostarmi da un punto all’altro del cuscino in cerca di fresco fossi io che andavo da una torre all’altra del Castello di Asburgo, con tanto di mappa che avevo visto su Wikipedia.
Giuro, ho questo ricordo distinto, della mappa e di me che spostavo la testa da una torre all’altra.
 
E da qui, ho avuto con orrore la conferma di ciò che avevo già pensato: se già solo il vaccino mi fa stare così male, non oso immaginare la malattia in sé. Almeno ho la speranza che massimo domani sarà tutto passato, mentre stare settimane e settimane peggio di così sarebbe orribile. E su questo che, raccontando i sintomi, ho martellato nelle storie di Instagram: stare così male per qualche ora è un piccolo prezzo da pagare per non prolungare quest’agonia chissà per quanto.

Oggi sono per lo più spossato e nauseato; ho mangiato poco e a fatica, e ora, dopo un pomeriggio piuttosto vegetativo, ho abbastanza presenza intellettuale da buttare giù questo resoconto della mia notte di passione folle con Miss Rona fra le stanze del Castello di Asburgo.
Delirare è stranissimo.
Speriamo che passi entro breve.

Thursday, 15 July 2021

Abbandonato

Parliamoci chiaro: la pandemia è stressante già di suo. È inevitabile, è un evento traumatico per tutta la collettività, non c’è modo di evitarlo. Puntare il dito e cercare colpe, prendersela col Governo o con questa o quella istituzione, è un tentativo comprensibile di razionalizzare qualcosa che sfugge a ogni controllo ma resta, alla fin fine, un esercizio di futilità. Le cose stanno succedendo, nessuno ne ha colpa, al massimo si può tentare di metterci una pezza.

Però.

Come la si mette, ‘sta pezza, è un altro discorso: lì colpe e colpevoli si possono trovare eccome, e molto di quello stress da pandemia sarebbe perfettamente evitabile.
Ad esempio, con delle istituzioni efficienti potrei risparmiarmi almeno lo stress da vaccino. L’altra volta c’era il dubbio su cosa mi avrebbero inoculato, che mi sarei potuto risparmiare se l’assessore regionale alla sanità non se ne fosse fregato, di cosa fosse consigliato o sconsigliato per chi. A questo giro per forza mi rifaranno Pfizer, ma c’è il dubbio su quando, come e se riuscirò a rientrare nell’appuntamento.
Perché giustamente gli operatori sanitari, che sono esausti dopo un anno e mezzo di lavoro serrato, sono potuti andare in vacanza, e la risposta dell’amministrazione locale non è stata assumere dei sostituti, ma dimezzare le ore di attività dello hub. Con tutte le seconde dosi già prenotate e, in più, quelli che stanno capitolando e si stanno facendo la prima.
Il risultato sono file chilometriche, tutte assembrate sotto un miserrimo tendone nel bel mezzo del campo da calcio dello stadio locale, in attesa di entrare e aspettare l’iniezione. Appuntamenti che, dal pomeriggio, sono slittati alla mattina a chi prima arriva, con i numerini distribuiti tipo salumeria. E, da quel che si sente, il personale rimasto che è allo stremo delle forze.

E in tutto ciò ci sono io, privato cittadino, che fra poco più di ventiquattr’ore dovrò andare ad affrontare tutto quello, mi sento completamente abbandonato dalle mie istituzioni locali. In un momento di stress già enorme, ecco che vanno ad aggiungerne dell’altro per mancanza di organizzazione e soldi, ma intanto marciano in tv e sui giornali locali a raccontare di come, dopo un “fisiologico” periodo di adattamento, le cose ora siano supercalifragilistichespiralidose.
Ma finché la faccia è salva, chissenefrega di quello che le persone passano realmente, chissenefrega che il sistema non sia più efficiente come era prima, o che buttando tutti assieme così come in fila dal macellaio il rischio di immunizzarsi non col vaccino ms beccandosi il virus in mezzo agli Hunger Games cresca esponenzialmente.

Friday, 18 June 2021

R.I.P. Geco

Not me che sto per piangere per il piccolo geco morto che ho appena trovato sotto il letto.
Stavo passando il mocio e ho visto quello che mi era sembrato uno strano batuffolo di polvere impigliato; invece era un piccolissimo geco stecchito, già praticamente mummificato, con le orbite vuote e tutte le ditina ragomitolate.
E niente, poveretto, mi ha fatto una tenerezza infinita. Stavo per mettermi a piangere ma fortunatamente è arrivata Katia (chi altro?) in mio soccorso con la cosa più wholesome e tenera che potesse scrivermi:
“Nuuu, non piangere! Magari è venuto a morire sotto il tuo lettino perché era la sua ora e sapeva di essere al sicuro. :* È venuto lì per portarti fortuna! Seppelliscilo, così torna alla terra :*”

E niente, da lì mi è venuto davvero l’occhietto lucido, ma per la commozione. Ho deciso che ha ragione: domani, quando ci sarà più luce, lo metterò su un foglio bianco e gli farò qualche foto professionale, in modo da poterlo poi includere in qualche lavoro. Insomma, in modo che non sia dimenticato ma resti qualche traccia di lui.

In tutto questo, per qualche motivo mi è tornato un bruttissimo episodio di un paio d’anni fa: era sera, stava diluviando fortissimo e, tornando di corsa a casa con la Mater, avevamo visto un gatto che era stato investito ed era rimasto in agonia sull’asfalto. Quella volta mi ero sentito tremendamente impotente, perché non c’era nulla, nulla che potessi fare: non potevo guarirlo, ovvio, ma nemmeno lenire le sue sofferenze; non potevo tenere l’ombrello o qualcosa di simile per ripararlo dalla pioggia (le macchine continuavano a passare), non potevo nemmeno rimanere lì con lui fino all’ultimo come avevo con Murka e non lasciarlo da solo, al freddo e bagnato nei suoi ultimi momenti. Non era giusto.
Forse è per questo che l’immagine che ha evocato Katia mi ha aiutato subito, perché ha ribaltato quelle circostanze: non è stato, che so, il geco che è rimasto impigliato lì ed è lentamente morto di fame senza che me ne accorgessi e potessi salvarlo. E sto anche cercando di convincermene razionalmente dicendo che, se così fosse stato, l’avrei notato, visto che di recente avevo spostato letto e materasso per fare le pulizie.
E quindi niente. Per ora il geco rimane qui, domani tornerà alla natura ma rimarrà nel regno della creatività. Un piccolo pianto me lo sono fatto, ma forse ne avevo bisogno per stare un po’ meglio in generale.
R.I.P. Geco. Spero che i tuoi ultimi momenti siano stati sereni.

Tuesday, 18 May 2021

Idraulicidio 2 – il ritorno

Chi è il povero deficiente che, la notte tra giovedì e venerdì, è rimasto in piedi fino alle quattro e mezza del mattino a guardare il live streaming degli Evanescence perché, tanto, la mattina dopo non aveva nulla da fare e poteva recuperare il sonno?
Naturalmente io.
E chi è che invece è stato balzato giù dal letto perché il termoidraulico ha nuovamente deciso di presentarsi di testa sua a fare i lavori la mattina stessa senza il minimo preavviso?
Ovviamente sempre io.
Francamente, mi sembra che, tra i due, l’unico che si sta impegnando perché non avvenga un idraulicidio sia io.
 
E così, è iniziata la cinque giorni (perché c’era di mezzo il week end) di lavori più esasperante della storia per installare i termosifoni e i relativi tubi dell’acqua calda. Perché il vecchio bacucco e i suoi anziani amici di merenda sono la crew più disorganizzata che ci potesse essere, e invece che partire da una stanza (sempre svuotata in fretta e furia), fare tutto quello che c’era da fare e poi passare alla successiva permettendoci di pulire e rimettere a posto, sono andati in ordine sparso, facendo un po’ qui, un po’ lì, andando avanti e indietro, sporcando una stanza, impolverando l’altra, rompendo lo sgabellino per salire a frugare sui pensili e pure il mio caricabatterie perché maremma impestata, se ti dico di aspettare che il comodino lo sposto io ci sarà un motivo.
La cosa più frustrante di questo loro approccio caotico è che, una volta pulito dietro loro in una stanza, il giorno dopo saremmo stati punto e accapo, perché prima hanno riempito di polvere e calcinacci facendo i buchi, poi hanno smosso quello che era rimasto infilando i tubi, poi hanno trapanato ancora per fissare le staffe, e noi, per tre giorni di seguito, abbiamo dovuto pulire sempre le stesse stanze, perché mica potevamo stare in mezzo alla polvere in tutto l’appartamento, e pure con la domenica di mezzo! Per non parlare poi che, con tutta la grazia elefantesca che hanno, il bel lavoro di imbiancatura che avevo fatto solo l’anno scorso è bello che andato.
 
Oh, e, fra l’altro, parlando di buchi nel muro, mica ‘sti tre imbecilli mi sbagliano di dieci centimetri buoni l’altezza dei tubi che dallo sgabuzzino entrano in camera mia? Nonostante si potessero regolare con l’altezza del tubo del gas che avevano installato la volta prima?! Sul serio, mi hanno trapanato un cratere nel muro per nulla, poi l’hanno dovuto richiudere a sputo e rifarlo nel posto giusto perché, oltre a essere orribili, i tubi a quell’altezza si sarebbero sovrapposti al cassettone dell’avvolgibile! Ma si può essere più imbecilli?
 
Di buono, in tutto ciò, c’è solo che ho avuto i miei momenti in cui sentirmi super intelligente.
Il primo perché sui tubi bianchi in PVC c’era un’orribile stampa in nero con vari dettagli tecnici, che i tre babbioni ovviamente non si sono premurati di mettere rivolta verso il muro. La Mater si stava già disperando per quanto brutte fossero le scritte, ma io mi sono ricordato di tutti i video che ho visto su PoppenAtelier e mi sono detto che se l’acetone va bene per togliere le facce stampate sulla plastica delle bambole, probabilmente avrebbe funzionato anche con le scritte sul PVC, e così è stato. Parte delle pulizie ha compreso quindi passare il cotone debitamente imbevuto sui tubi, lasciando le scritte solo su quelli dello sgabuzzino in caso servano un domani.
Il secondo perché l’aspirapolvere aveva improvvisamente iniziato a malfunzionare. Non si faceva in tempo ad accenderlo che subito si illuminava la spia del flusso d’aria insufficiente, nonostante avessimo cambiato il sacchetto due settimane prima dopo i lavori precedenti.
Col terrore che qualche calcinaccio aspirato avesse rotto qualcosa, mentre la Mater non c’era mi sono messo a fare diversi testi, scoprendo che la spia si accendeva solo quando tutto era chiuso e installato correttamente. Senza tubo, si accendeva dopo un po’; con lo sportellino del sacchetto aperto non si accendeva; senza sacchetto, che pure era mezzo vuoto, nemmeno. Sono così giusto con acume alla conclusione che il problema fosse che la polvere della muratura fosse più densa di quella normale (infatti l’aspirapolvere pesava uno sproposito) e che quindi ne bastasse molto meno per ostruire il passaggio dell’aria e far credere ai sensori che fosse troppo pieno per operare. Voilà, problema risolto.
Altro che questi imbecilli che non fanno altro che crearne di nuovi.

In ogni caso, mancano solo l’installazione della caldaia (in balcone, e per la quale non dovrò essere svegliato nuovamente la mattina), il collaudo e messa in funzione dell’impianto, e la sistemazione dei tubi dell’acqua calda, che non si capisce come avverrà. Fortunatamente, per nulla di ciò dovremo più svuotare l’intera casa senza preavviso. E francamente, quando avremo finito suggerirò caldamente alla Mater di cercare un’altra ditta per la manutenzione; non che serva molto convincimento, pure lei in ‘sti giorni è stata a tanto così da un bell’idraulicidio.