Tuesday 17 August 2021

The Millennial War

Ho seri dubbi che qualcuno di noi avesse mai pensato che la guerra in Afghanistan avrebbe mai risolto qualcosa.
Non ricordo quali fossero i sentimenti iniziali a riguardo, visto che è stata poi eclissata dalla ben più famosa e controversa guerra in Iraq: di quella sono sicuro, era stata percepita fin da subito come inutile, pretestuosa e imperialistica da questa parte dell’Atlantico, ma l’invasione dell’Afghanistan era arrivata proprio sulla scia dell’11 settembre che, per un motivo o per l’altro, era stato il più grosso trauma collettivo della mia generazione in tutto l’Occidente. L’opinione pubblica americana era sicuramente interventista, ma in Europa non ricordo proprio: something something Al-Qaeda, talebani brutti e cattivi, povere donne in burka – tutto questo sicuramente, ma dell’intervento militare in sé non ricordo cosa si pensasse dalle mie parti.
Dicevo, quindi: dubito che qualcuno si fosse illuso che questa guerra avrebbe portato benefici né a noi, né tanto meno agli Afghani. Però vederla concludersi nel modo in cui si è conclusa è davvero deprimente, e noto che molti dei miei coetanei stanno esprimendo un simile senso di scoramento e impotenza.

Forse è proprio per il perverso Ouroboros che ne è uscito: vent’anni fa siamo partiti con uno Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo, e oggi, nel momento in cui gli Occidentali hanno levato le tende, ci siamo ritrovati con quello stesso Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo.
Cosa abbiamo fatto in queste due decadi? Qual è stato il senso di tutta questa violenza, della devastazione, delle morti a centinaia, della carneficina di un intero popolo? A cosa è servito?
Credo che sia così demoralizzante perché questa guerra è una metafora perfettamente calzante della vita di tutti noi, che nello stesso lasso di tempo siamo cresciuti e diventati adulti: appena abbiamo iniziato ad avere coscienza di come sia il mondo dopo l’infanzia, ce lo siamo visto stravolgere da eventi internazionali la cui portata era difficile da capire. Abbiamo lottato con unghie e denti per cercare di strappare un po’ di decenza, rispetto, empatia e calore dalla società intorno a noi. Abbiamo protestato contro governo dopo governo che erodeva la nostra base scolastica e distruggeva la nostra stabilità lavorativa. Abbiamo stretto i denti attraverso una serie infinita di crisi e difficoltà economiche. Abbiamo iniziato ad alzare davvero la voce sull’imminente crisi climatica. Siamo sopravvissuti allo stillicidio che, dagli Stati Uniti, il trumpismo ha avuto anche da noi. Pride dopo Pride, sciopero dopo sciopero, manifestazione dopo manifestazione, dibattito dopo dibattito. Abbiamo iniziato a vedere i risultati, a guardare la generazione dopo la nostra che finalmente poteva essere un po’ più libera, un po’ più se stessa, che cresceva non già più liberandosi di certi bigottismi e paraocchi, ma senza averli mai davvero indossati. Abbiamo sperato che la coscienza collettiva fosse maturata, che gli estremisti fossero solo una frangia che continuava a fare una guerriglia senza futuro con i suoi Family Day e i suoi slogan sui porti chiusi e i suoi Patti Lateranensi.
Ed eccoci qui, vent’anni dopo, ancora nella miseria più nera, ancora senza un futuro, ancora con crimini d’odio nelle strade senza che si facciano leggi per arginarli, con quell’accozzaglia di neofascisti, filonazisti, integralisti cristiani, ipocriti e terroristi domestici che sono praticamente alle porte di Montecitorio e Palazzo Madama, pronti ad aspettare il ricambio del Governo per impossessarsene perché la maggioranza del nostro popolo probabilmente vorrà quello. Il tutto mentre l’ambiente intorno a noi è sull’orlo della devastazione più totale.

Ora, lungi dal voler affermare che da noi le cose vanno male come in Afghanistan. Non abbiamo le bombe, le sparatorie le abbiamo in casi estremamente eccezionali (a parte gli Stati Uniti), non seppelliamo un caro ogni settimana e mezzo, i nostri estremisti devono sgusciare entro i limiti della legge invece che imporli loro, non abbiamo vissuto la guerra in quanto tale. Non voglio paragonare la svolta autoritaristica e nazionalista dei Paesi occidentali con la devastazione di vent’anni di conflitto miltiare.
Ma questo sentimento di aver combattuto per decenni solo per trovarci punto e accapo ce l’abbiamo anche noi. Forse è per questo che il triste, per quanto prevedibile, epilogo della guerra in Afghanistan ha toccato qualcosa in molti dei miei coetanei. È il senso d’impotenza di fronte a decenni di lotte e sofferenze solo per trovarci, se possibile, a un punto ancora peggiore, con la fine completa di qualunque speranza per il futuro. È pensare che questo stesso malessere esistenziale che anche noi proviamo, i nostri coetanei in Afghanistan ce l’avranno decuplicato, e in una maniera molto più concreta e devastante di quanto, si spera, noi potremo mai conoscere.
 
Siamo cresciuti nell’arco di tempo della guerra in Afghanistan, e la guerra in Afghanistan ha finito col trasformarsi nella triste metafora di tutti i Millennial del mondo.

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