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Thursday, 10 June 2021

Imminentemente vaccinando

Sono le 3:27 del mattino. Ho appena finito di assistere la Mater che, disidratata, ha avuto un fortissimo crampo alla gamba che non riusciva a farsi passare. Vi è soggetta, purtroppo, specie quando non beve abbastanza; stanotte ha bevuto come un cammello, ma la febbre da coronavirus (beh, da vaccino) le ha riarso tutto e conseguentemente massacrato la gamba.
Che insomma, escludendo il crampo in sé, febbre, brividi, spossatezza, malessere e arsura sono una buona notizia: significa che il vaccino sta funzionando e il corpo sta reagendo come deve. Alla prima dose se l’era cavata relativamente a buon mercato, adesso è la seconda a farla penare; anche questo è normale, in molti raccontano che una delle due è una mazzata, l’altra più gestibile – c’è solo da vedere quale sarà quale.
 
Ora, si potrebbe pensare che vivere tutto questo la notte prima di fare il mio, di vaccino, mi abbia scoraggiato, ma no. Anzi, al contrario: questo minuscolo assaggio di come sia stare accanto a qualcuno col coronavirus è stato abbastanza spaventoso e mi ha convinto ancora di più che sia il caso di fare il vaccino ASAP.
Certo, non è che sono entusiasta all’idea di pupparmi tutti i sintomi. La mia stupida mente animale cova inevitabilmente l’istinto che la certezza di avere i sintomi domani sia peggio della possibilità di scamparmi il contagio e non averli affatto. Ma ho anche la razionalità per prendere le mie decisioni sulla base, per quanto controintuitiva, che la certezza che questi sintomi siano controllati e notevolmente ridotti è molto meglio della possibilità di prendermi la malattia vera e propria. L’importante è esserne consapevoli e sapere che in certe situazioni bisogna lottare contro l’istinto di conservazione per conservarsi davvero.

Per inciso, non sono sicuro di che area di questo spettro ricopra la decisione di aver spuntato solo Pfizer e Moderna sul modulo del consenso alla vaccinazione. Forse in questo caso è la certezza di essermi davvero rotto le palle della gente: è un anno e tre mesi che cerco di ridurre al minimo le uscite, che seguo le regole, che indosso sempre la mascherina in pubblico, che non vedo i miei amici di Trieste, che le uscite che ho fatto in ristoranti o bar si contano sulle dita di una sola mano. Io i sacrifici li ho fatti, molti altri no: a questo punto, direi che i vaccini più sicuri me li sono meritati, che se lo puppino i bambocci assembrati in Piazza dei Mercati, AstraZeneca.
Ho sempre un po’ paura di ritrovarmi al livello dei no vax ogni volta che, in privato, esprimo scetticismo su AstraZeneneca – pardon, VaxZevria, ché il rebranding fa meno paura. Ma esistono studi preliminari che sembrano indicare che non sia solo isteria di massa e il problema delle trombosi sia effettivamente dovuto a un difetto di formulazione dei vaccini con adenovirus. Sì, certo, è tutto ancora in aria e si aspetta una peer review ma, visto che l’alternativa c’è, vivo molto meglio senza quell’una possibilità sul cavolo di milioni che volete di avere la botta di sfortuna. Anche perché, lo ribadisco, i sacrifici per non peggiorare la situazione li sto facendo dallo scorso marzo, io. Mi fa sorridere che le regioni ora si stiano rimbalzando le dosi inutilizzate tra più e meno ricche, neanche fossero le brioscine scadute che si mandavano in Africa negli Anni Novanta, ma non è mia responsabilità risolvere questo problema. Preferisco essere fabulous con una dose di Beyontéc.

In tutto ciò, ho deciso di inaugurare un nuovo tag, Corona Chronicles, in cui ho retroattivamente infilato tutti i post relativi alla pandemia, così che, se fra qualche anno vorrò rimmergermi in questo macello, avrò una comoda antologia a portata di click. Ora è il caso che vada a dormire: mi sono prenotato per il turno pomeridiano apposta per non aggiungere l’ansia di dovermi svegliare presto a quella di fare il gran passo, ma ciò non significa che debba vanificare tutto con una notte in bianco.

Tuesday, 7 January 2020

Only human, after all

Con i roghi in Australia, è tornato puntualissimo il guilt-tripping nei confronti di quelli che, l’anno scorso, si sono preoccupati per Notre Dame, perché di quello tutti parlavano e tutti hanno cacciato i soldi, mentre della mia cena che si è bruciata al microonde, brutti ipocriti, a nessuno è fregato. Nulla di diverso, in sostanza, da ciò che è successo lo scorso agosto con l’Amazzonia (e con la Siberia, ma in misura minore… se vogliamo ripagare con la stessa moneta), ma aver scoperchiato di nuovo quella latta di vermi mi ha offerto diverse considerazioni da aggiungere al mio rant sulla “cultura dell’invidia” (l’atteggiamento per il quale se qualcuno ha più di me, la mia prima reazione non è cercare di migliorare me stesso ed elevarmi al suo livello, ma distruggere lui per portarlo al mio).
In ordine sparso, sono giunto alla conclusione che:

1) La partecipazione di chi sminuisce l’impatto di una tragedia per attirare l’attenzione su un’altra non è sincera.
Se non hai l’empatia necessaria per capire perché il rogo di Notre Dame abbia scatenato una simile risposta emotiva nell’opinione pubblica occidentale, ho seri dubbi sulla tua capacità di sentirti coinvolto in una qualsiasi altra tragedia, che sia l’Amazzonia, la Siberia o l’Australia. Per solidarizzare è necessaria la capacità di immedesimazione, che hai chiaramente mostrato di non possedere: l’unica conclusione logica è che vuoi cavalcare l’onda della tragedia più recente con un’opinione “controversa” per attirare l’attenzione su di te a discapito della tragedia stessa (a cui stai facendo un pessimo servizio). Di conseguenza, sei una persona orribile.

2) Il Tragediometro è inutile.
Non è una gara a quale tragedia abbia maggiore o minore impatto. L’empatia non è una torta, non ha una quantità finita: può essere estesa a più di una tragedia, senza che per farlo la si tolga alla precedente. Spesso non è nemmeno una questione di quantità, quanto di differenza: diversi eventi colpiscono diversamente, ma entrambi possono essere altrettanto tragici.
Fra l’altro, decidere retroattivamente che una tragedia meritava una reazione minore della successiva è intellettualmente disonesto e piuttosto stupido. È molto più dignitoso ammettere che di quell’altra non ti fregava nulla e per quello ti dà fastidio che

3) Criticare la generosità è meschino.
Sul serio la prima cosa che ti viene da criticare è che qualcuno abbia donato di tasca propria dei soldi per la collettività? Non le cause di quell’incendio, non le cause di questo, ma che ci sia stato qualcuno a cui fregava qualcosa di Notre Dame e ha sborsato soldi per il restauro. Che problemi hai? Ti rode che quei soldi non li abbiano dati a te? Fatti un esame di coscienza.

4) Siamo solo umani, dopo tutto.
Qui sarò io ad andare controcorrente, ma considerare una tragedia ambientale intrinsecamente peggiore di una culturale è stupido e dimostra una completa incomprensione del ruolo che noi, come specie, abbiamo sul pianeta. Sono cose diverse ma hanno lo stesso valore, e hanno valore unicamente perché noi esseri umani glielo diamo.
La “natura”, la biosfera, la vita terrestre in generale, andrà avanti a prescindere da noi: alla peggio, stiamo potando l’albero tassonomico come molte altre estinzioni hanno fatto. Qualunque ecosistema stiamo distruggendo (foreste, laghi, barriere coralline), se ne formerà uno nuovo al suo posto; qualunque specie facciamo estinguere, col tempo se ne evolverà una nuova che occuperà quella nicchia. Cioè, cavolo, perfino il sarcofago del reattore di Chernobyl è diventato un ecosistema! Ci vuole molto hybris da parte nostra per credere che stiamo avendo un impatto definitivo.
L’ambiente che dobbiamo proteggere è quello attuale, la fragile nicchia ecologica che permette alla nostra specie di prosperare: i cambiamenti che apportiamo renderanno difficile la nostra sopravvivenza, non quella della vita in generale.
Non solo: considerare ogni singolo ecosistema e ogni specie che contiene preziosi e da preservare a tutti i costi è un concetto puramente umano, perché all’evoluzione frega nulla della sopravvivenza delle singole specie. Non ci interessa preservare la Barriera Corallina per la natura, ma per appagare il nostro concetto, puramente teorico e artificiale, di biodiversità. A pensarci bene, non è poi così diverso da voler preservare un monumento artificiale: entrambe le cose rendono la nostra esistenza, la nostra esperienza del mondo quella che è.
Abbiamo bisogno di proteggere il nostro ecosistema, ma a che pro sopravvivere senza la nostra cultura, senza le cose belle, artificiali e naturali, che abbiamo intorno?
E comunque, una cosa non disturba l’altra.

Monday, 29 July 2019

Young & Beautiful reprise

Ok, se già la prospettiva della vecchiaia mi terrorizzava prima, dopo un pomeriggio da incubo come quello di oggi sono assolutamente determinato a morire prima di trasformarmi nell’ombra di me stesso.
All’improvviso, verso inizio pomeriggio, mi telefona la Mater, che è andata a dare il cambio a un’amica che aveva bisogno del pomeriggio libero dai genitori – entrambi ultranovantenni ed entrambi non autosufficienti – e mi chiede aiuto: mentre aiutava la madre dell’amica, un centinaio di chili di signora con l’Alzheimer, a spostarsi dal wc alla sedia a rotelle per tornare in salotto, quella si è seduta sul pavimento si è afflosciata come un sacco vuoto.
Corro a darle una mano a sollevare fisicamente la vecchia e ciò a cui assisto è allucinante.

Arrivo e trovo la donna che, semplicemente, non si alza più: beatamente ignara di essere seduta sulla dura ceramica, di essersi graffiata una gamba sul mobiletto di fronte, e di avere la faccia che penzola verso la tavoletta del cesso, sta lì con lo sguardo vacuo in una posizione scomoda senza nemmeno il minimo istinto di raddrizzarsi. Del riflesso di fare un briciolo di forza sulle gambe per tirarsi su, così che noi potessimo rimetterla sulla sedia a rotelle, nemmeno a parlarne.
Da lì segue un’ora e mezza di tentativi a vuoto perché non reagisce nemmeno al fastidio di sentirsi tirare e strattonare per le braccia, per sotto le ascelle, per la vita, per i vestiti: ci sarebbe bastato anche solo che avesse cercato di ritrarre le braccia dalla nostra presa, così avrebbe fatto leva e l’avremmo tenuta il tanto da sollevarla. Niente.
Alla fine, quando è rincasata la nipote e nemmeno in tre siamo riusciti a sollevarla, l’abbiamo avvolta bene in un  grande telo di spugna e abbiamo tirato i lembi per farla scivolare sul pavimento verso il salotto, dove la poltrona reclinabile era più bassa e dava maggiori speranze di sollevarla fin lì – o comunque, anche non fossimo riusciti a issarcela, avrebbe avuto la schiena poggiata a qualcosa. In tutto questo, lei non ha battuto ciglio: ha continuato a fissare il soffitto con sguardo vacuo, senza reagire minimamente al fatto che un perfetto sconosciuto, dopo averla strattonata e spremuta per un’ora, l’aveva avvolta in un asciugamano a mo’ di sudario e la stava trascinando chissà dove. Non ha notato nessuno dei miei tentativi di rassicurarla, di dirle che c’eravamo quasi, che mancava un ultimo sforzo, che eravamo lì per aiutarla. Che fosse il pavimento del bagno, l’asciugamano, il corridoio, che stesse seduta o sdraiata, non faceva la minima differenza per lei, rimaneva un sacco di carne inerte.
Alla fine, anche a issarla sulla poltrona reclinabile siamo riusciti solo perché ho avuto l’idea di passarle le braccia sotto le ascelle e appendermi dietro lo schienale per farle da contrappeso mentre la Mater e la nipote la sostenevano per le braccia. Lei non ha contribuito minimamente, non ha puntato le gambe per sollevarsi quando era scomodamente a metà strada, non si è mossa. Quando finalmente le abbiamo coperto le gambe col plaid e l’abbiamo girata verso la tv, ha continuato a fissare il vuoto come faceva in bagno, senza rispondere nemmeno quando le abbiamo chiesto se stesse bene.

La cosa che ho trovato pià allucinante è che non si è trattato nemmeno più del dibattito su cosa considerare “vita” o meno da un punto di vista umano, ormai si era al di là dell’affermare che, se non posso uscire, leggere, parlare, ragionare, guardare la TV, interagire con le persone, per me non è vita. Qui si scende a un livello ancora più basilare: tutti gli esseri viventi pluricellulari hanno per lo meno l’istinto di conservazione. Anche se non sono autosufficienti nel nutrirsi, anche se non hanno la forza effettiva per proteggersi, hanno almeno l’istinto di reagire a un disagio, di muoversi e spostarsi quando si sentono scomodi, di piegare gli arti e appallottolarsi se si sentono minacciati, di lamentarsi. Io ho visto quella che un tempo è stata una persona non avere più nemmeno questo – non dico la ragione o consapevolezza di sé e del mondo – nemmeno il puro e semplice istinto. Non era nemmeno un vegetale, ché le piante reagiscono agli stimoli esterni, specie al peticolo: quello che avevo davanti era un insieme di organi più o meno funzionanti, non un essere vivente.

Ora, posto che l’errore di allungare la vita umana fino a far sorgere queste possibilità è stato fatto e non si può tornare indietro, bisogna quantomeno mitigarlo. Davvero c’è qualcuno, là fuori, che sarebbe disposto a esistere in uno stato del genere, o a guardare un caro esistere così? Davvero lo stato dà ascolto a quelle voci, considera ok che questa sia una possibilità per il mio futuro?
Perché dopo ciò che ho visto, farò tutto ciò che è in mio potere, per quanto insignificante, mi batterò unghie e denti perché si arrivi ad avere un testamento biologico e approvare l’eutanasia. E se nulla cambierà, ammesso e non concesso che non ci saremo estinti per allora, tempo di vedere la Cometa di Halley nel 2061 e, a settantadue anni, andrò alla prima scogliera e mi butterò di testa prima ancora che anche solo la possibilità di non avere l’autosufficienza per farlo possa presentarsi. Questa non è vita.

Wednesday, 3 April 2019

Bigotta inquisizione

Oggi pomeriggio mi sono imbattutto in un articolo di Gay.it che riporta degli studi condotti dal professor Roberto Baiocco e colleghi, dai quali sarebbe emerso che, in soldoni, i figli di coppie omosessuali non sarebbero svantaggiati nella crescita a livello psicologico o affettivo, ma avrebbero addirittua una migliore qualità della vita legata ad alcuni fattori correlati (istruzione, stabilità della coppia, possibilità economiche, eccetera).
La seconda affermazione lascia un po’ il tempo che trova: ad esempio, le coppie composte da due uomini prese in esame hanno tutte avuto accesso alla maternità surrogata, il che implica che siano abbastanza facoltose e sia quello, più che l’omo o eterogenitorialità, a fornire benefici. Il dato emerso indica comunque che, a livello di sviluppo psico-emotivo, essere cresciuti da genitori dello stesso sesso non comporta svantaggi per il bambino: alla fine, è ciò che conta.

Sarebbe stata una lettura presa e lasciata lì, come se ne fanno molte, se non avessi avuto la pessima idea di andarmi a leggere i commenti. “Poi dopo non lamentatevi della ghettizzazione e della gente che va a Verona”, chiosa uno. “Volete tirarvi la zappa sui piedi? Perché con affermazioni simili capita”, se ne esce un altro. “Che cazzata”, riassume un terzo.
Ed è qui che sbatto la testa sulla scrivania.
Partiamo dalla “cazzata”, va’.
Per i tonti all’ultimo banco: nessuno si è svegliato una mattina e ha fatto una sparata a caso. Quelli riportati qui sono i dati emersi da una ricerca scientifica, né più, né meno. Lo studio di sicuro non è definitivo né assoluto (nessuna ricerca scientifica lo è mai, la scienza è corretta solo fino a prova contraria) e – la prima cosa che ho notato anch’io – può contenere bias statistici che hanno influenzato i risultati.
Detto ciò, prima di bollarla come una “cazzata” con qualche frase fatta, avete qualche dato che vi supporta? Avete fatto ricerche? Avete alle spalle studi di pedagogia e sociologia che vi permettono di analizzare la questione con la stessa cognizione di causa dei ricercatori che se ne sono occupati?

In secondo luogo, pretendere di non divulgare quelli che – ribadisco – sono i risultati di uno studio scientifico perché a qualcuno potrebbero non piacere è sbagliato a prescindere. Non va bene il risultato? Se ne verifica la verosimiglianza, si fanno controricerche, controstudi e si espongono i dati di quelle. Che, a loro volta, sono controvertibili da ulteriori studi. È così che funziona.
Uscirsene dicendo “Non parliamo di questi risultati perché poi quelli si arrabbiano e vanno a Verona” è ideologicamente sbagliatissimo: allora nessuno avrebbe dovuto pubblicare né gli studi che hanno dimostrato che l’omosessualità non è una devianza ma una semplice variazione del comportamento sessuale (umano e non), né quelli che hanno dimostrato che non esistono razze “superiori” o “inferiori”, né quelli che dimostrano che i vaccini non sono dannosi, né qualsiasi altra cosa che possa andare a urtare i preconcetti di qualcuno.
Ora, per fortuna non siamo più nel Diciassettesimo Secolo: non arriva l’Inquisizione a strillare che siamo eretici se le osservazioni empiriche dicono che è la Terra che gira intorno al Sole. Magari è il caso di non contribuire a tornare a quella mentalità?

In sostanza, non entro nel merito dei risultati della ricerca, anche perché non ho le competenze per farlo. Ciò che non condono è l’atteggiamento antiscientifico dietro questo genere di commenti. Sia di quelli che sono pronti a bollare il tutto come una cazzata senza averne le competenze, sia quelli che vorrebbero non si divulgassero i risultati perché vanno a urtare i pregiudizi altrui. Se la mettiamo così, non avremmo dovuto dar credito a nulla e ce ne saremmo rimasti comodi comodi a dar retta alla Bibbia e ucciderli a sassate, quei froci, perché “It’s Adam and Eve, not Adam and Steve.

Tuesday, 4 September 2018

Lasciarsi cose alle spalle

Mi mancano le stelle. Mi manca andare in bagno la notte, affacciarmi a osservare il cielo delle ore piccole e riconoscere le costellazioni – in questo periodo per lo più Perseo, l’Auriga, il Toro, e verso quest’ora sorgono i Gemelli. Quest’anno, poi, quasi tutte le lampade cittadine ai vapori di sodio sono state sostituite con i LED, che hanno ridotto notevolmente l’inquinamento luminoso, quindi avrei potuto vedere anche qualcosa in più.

Eppure, nonostante ciò e i piagnistei di due anni fa, il nuovo palazzo che hanno costruito accanto al mio non mi disturba più di tanto. Esteticamente è senza lode né infamia, la gente che ci vive non è chiassosa, l’unico vero cambiamento è che in bagno abbiamo messo una tenda meno trasparente. Per molti versi, invece, ha migliorato le cose: ha ridotto notevolmente il rumore proveniente dalle vie circostanti, para la luce dei lampioni in camera da letto della Mater e, bloccando quella del sole che sorge, la aiuta a dormire più a lungo la mattina; ripara dal vento d’inverno e, soprattutto, essendo dipinto di un giallo molto pallido, il pomeriggio riflette moltissimo la luce rendendo la casa incredibilmente luminosa.

Insomma, sotto quasi tutti gli aspetti pratici ci abbiamo guadagnato, sacrificando però la vista delle stelle e il panorama sull’ermo colle. Forse diventare adulti significa proprio rinunciare al lato sentimentale quando quello pratico incalza? O forse quello è invecchiare?
Magari finirò a dormire, la notte, invece che guardare le stelle.

Wednesday, 15 August 2018

Swooning at the edge of the world

Mentre passeggiavo in centro storico ad Alghero stasera, mi sono seduto per qualche minuto su una panchina del lungomare. Davanti a me, l’orizzonte al crepuscolo: il mare calmo e pieno di barche di pescatori con le loro luci, sotto il cielo che, tramontato il sole, iniziava ad accendersi di stelle. Impossibile non notare la falce di luna crescente contornata da altre luci piuttosto nitide: a ovest Venere, a sud Giove, entrambi luminosi come i fanali dei pescherecci.
Seguendo l’eclittica verso sud, ho poi trovato Saturno in cima e Marte, enorme per via della relativa vicinanza alla Terra, di un ruggine vivo a sud.
Ho aperto Sky Map giusto per essere sicuro di averli azzeccati tutti e ho scoperto che anche Plutone era lì, fra Saturno e Marte, troppo debole per l’occhio nudo ma sempre presente. Mercurio era vicino al Sole appena tramontato, e perfino Nettuno e Urano erano poco sotto l’orizzonte, a est.

Ed è in quel momento che ho “percepito” il Sistema Solare.
Non so come spiegarlo: mi è mancato il fiato di fronte alla consapevolezza che tutti i corpi celesti che avevo visto nelle foto fossero lì, davanti a me, più lontani o vicini, visibili o non visibili, ma là fuori. Tutta quella bellezza lì, davanti a me, indisturbata dalle brutture che gli esseri umani si lanciano addosso l’un l’altro su questo pianeta.
Mi sono sentito come se fossi sull’orlo del mondo e davanti a me ci fosse non il vuoto, ma qualcosa di bello e pieno di colori e particolarità. Che per quanto piccolo, anch’io fossi parte di tutto ciò.
Era da tanto che non sentivo un qualche senso di appartenenza, e questo è stato pressoché universale. È stata una sensazione bellissima.

On a side note, questo mese tutti e otto i pianeti più Plutone sono nella stessa metà del Sistema Solare. Non so quanto sia raro o statisticamente improbabile, ma capiterà di nuovo fra due anni, e poi a metà degli Anni Venti, quando saranno tutti più o meno nello stesso quarto del Sistema, come calcolato da The Planets Today.

15 agosto 2018; dimensioni e distanze non in scala, ma le posizioni sono quelle.

Friday, 15 September 2017

Silence Glaive Surprise

Edit 21/11/2017: la foto di addio della Cassini a Saturno e le sue lune. FEELS.

Ho letto che, mentre precipitava nell’atmosfera di Saturno, la sonda Cassini ha trasmesso per trenta secondi in più di quanto gli scienziati si aspettassero. Non l’ho scritto pour parler, che sarebbe stata una sorpresa proprio fino all’ultimo (le stime dicono che si sia disintegrata quarantacinque secondi dopo).

Riflettendoci, la fine della missione Cassini mi rattrista proprio perché la sonda non esiste più. Esaurita la loro missione, le due Voyager e la New Horizons continueranno a viaggiare in linea retta nello spazio, probabilmente per sempre (le distanze interstellari sono talmente vaste che le probabilità di trovare qualcosa e andarcisi a schiantare sono risibili). Perse per l’umanità, che non le riacchiapperà mai, ma pur sempre da qualche parte là fuori.
La Cassini lascia un’eredità immensa sotto forma di fotografie, dati, risposte e nuovi interrogativi – contributi scientifici inimmaginabili fino a un decennio fa – ma sono tutte cose che moriranno con la civiltà umana. Per quanto sia bello immaginare che abbia avuto un “funerale vichingo”, bruciando nell’atmosfera di Saturno come una piccolissima meteora mentre ancora lavorava, raccoglieva dati, faceva analisi e svelava misteri, non sarà qualcosa che rimane là fuori a testimoniare che siamo esistiti, da qualche parte, in qualche tempo.

Beh, non è del tutto vero: il modulo Huygens è ancora su Titano e lì rimarrà. Forse sepolto sotto ghiacciai di azoto, visto che Titano ha un suo clima e variazioni metereologiche, ma da qualche parte un pochino della sonda Cassini continuerà ad esserci anche dopo di noi.

Thursday, 14 September 2017

Silence Glaive

Non sono pronto a dire addio alla sonda Cassini. È sempre stata lì, fin da quando ho iniziato a imparare l’astronomia, un po’ come un parente con cui sono cresciuto, e pensare che domani si disintegrerà nell’atmosfera di Saturno mi riempie di tristezza.
Della Cassini si parlava già ne l’Universo: Grande Enciclopedia dell’Astronomia – quella della De Agostini a cura di Piero Angela, che usciva a fascicoli con le videocassette. Nonostante mancasse ancora un anno al lancio (avvenuto nel 1997), era un progetto talmente atteso per l’incredibile tecnologia che lo costituiva e l’ambiziosità degli obiettivi scientifici che ci si sfregava già le mani e si facevano previsioni in vista dell’arrivo nel Sistema Saturniano nonostante mancassero ancora sette anni.

Saturno era stato appena sfiorato dal Pioneer 11 e dalle Voyager durante i loro tour del Sistema Solare. La Pioneer ha scattato qualche immagine a bassa risoluzione, fatto alcune misurazioni e scoperto l’esistenza dell’anello F. La Voyager 1 ha mandato le prime immagini ad alta risoluzione del pianeta e alcuni satelliti; per studiare Titano, il satellite più grande di Saturno, e la sua misteriosa atmosfera, è stata addirittura deviata la sua traiettoria impedendole di raggiungere Urano e Nettuno. La Voyager 2 ha completato il lavoro con ulteriori misurazioni e nuove immagini: tante scoperte e innumerevoli interrogativi a cui rispondere con una sonda che orbitasse Saturno per diverso tempo.
Da qui è nato il progetto Cassini-Huygens.

Il doppio nome perché uno degli obiettivi più ambiziosi della missione era far atterrare un modulo, chiamato Huygens, sulla superficie di Titano. La sua atmosfera ricca di azoto, opaca, impedisce di vederne la superficie, da qui la necessità di studiarla direttamente in loco mentre il modulo-madre mappa il pianeta col sonar dall’orbita.
E mentre la Cassini è figlia della NASA, la Huygens è stata costruita dall’ESA, con l’ASI (l’Agenzia Spaziale Italiana) che ha fornito i sistemi di controllo: l’Europa ha parcheggiato una sonda sul più grande satellite di Saturno e l’Italia ne ha costruito componenti fondamentali!
E la superficie ghiacciata modellata dal clima, i laghi di metano, i fiumi di idrocarburi che variano secondo la stagione, come Piero Angela ipotizzava nelle videocassette del 1997 sono stati confermati.

Fra gli obiettivi importanti, c’è stata Phoebe, la più grande delle lune irregolari di Saturno, che si trovava in una posizione sfavorevole al passaggio delle sonde Voyager. La Cassini avrebbe fornito le prime e uniche immagini ad alta definizione della sua superficie, e avrebbe potuto farlo solo all’andata perché Phoebe orbita a enorme distanza, del tutto fuori portata dalla zona in cui il fulcro della missione si sarebbe svolto. Beh, nell’unica visita la Cassini ha mappato l’intera superficie del satellite, ne ha misurato le caratteristiche, saggiato la composizione e ha sollevato interessanti interrogativi sulla sua origine. Ha superato ogni aspettativa già in partenza.

Saturno nel 2016.

Ma oltre a queste commissioni uniche e irripetibili, per anni e anni ha studiato approfonditamente Saturno, la sua atmosfera, i suoi anelli, i maggiori satelliti, raccogliendo un’infinità di dati. Nel 2008, a undici anni dal lancio e dopo quattro di permanenza intorno a Saturno, la missione era considerata conclusa con successo e si parlava già di cosa fare della sonda. Niente affatto: la sonda funzionava ancora alla perfezione, c’era ancora tanto da scoprire, e il progetto è stato prolungato per ben due volte; dal 2008 si è arrivati al 2016.
Fra gli incredibili risultati riportati abbiamo uno studio approfondito e di tutte le lune maggiori, compresa la scoperta di attività idro-geologica e un possibile oceano sotterraneo d’acqua liquida su Encelado; la scoperta di decine e decine di satelliti minori, fra pastori degli anelli e irregolari esterni; lo studio degli anelli e della loro composizione, come vengono influenzati dai satelliti-pastore, come si evolvono le formazioni temporanee dovute agli impatti con meteoroidi; lo studio dell’interazione dell’anello di Phoebe con le altre lune – nello specifico, il mistero della doppia colorazione di Giapeto; uno studio approfondito dell’atmosfera di Saturno, compresi i vortici polari, uno dei quali è circondato dal famoso Esagono, mentre l’altro ha la prima struttura del tutto analoga a quella degli uragani terrestri confermata su un altro pianeta. E per la gioia dei meno esperti, abbiamo fotografie dettagliate e mozzafiato di ogni dettaglio di Saturno, dei suoi anelli e di tutte le sue lune, perfino piccoli sassi di un chilometro e mezzo come Methone!

Methone, un sassolino cosmico di cui abbiamo una foto perfetta!

Insomma, per tredici anni la Cassini ci ha abituati a un flusso giornaliero di nuovi, interessantissimi dati da Saturno. Nove anni oltre il progetto iniziale. Questa sonda ha superato qualsiasi aspettativa in fatto di longevità – una cosa che è essa stessa oggetto di studio per ottimizzare le future missioni – e l’unico motivo per cui si è deciso di terminare il suo operato è il combustibile che si sta esaurendo; tutti gli strumenti funzionano ancora perfettamente.
La ragione per cui si è deciso di terminare la missione ora piuttosto che, semplicemente, lasciar funzionare la sonda fino a che gli strumenti non si saranno guastati (probabilmente, di questo passo, quando il Sole sarà già una gigante rossa) è pragmatica: lasciarla in orbita intorno a Saturno senza carburante per correggere la traiettoria lascia aperta la possibilità che si schianti su una delle lune ghiacciate, sul cui potenziale di ospitare vita extraterrestre si vorrebbe indagare in futuro. Sulla Terra, ogni sonda è prodotta in un ambiente sterile e rimane tale fino al lancio compreso proprio per evitare rischi di contaminazione dalla Terra ad altri corpi celesti, ma non si può avere la certezza matematica che anche un solo batterio non sia sopravvissuto e la sonda non possa trasportarlo su Encelado, contaminandolo e falsando i risultati di una ricerca di vita autoctona.

La soluzione più pratica, per quanto triste, è stata quella di correggere la traiettoria della Cassini per metterla in rotta di collisione con Saturno – nel cui caso il rischio contaminazione è irrilevante, visto che è un gigante gassoso. Domani mattina, l’attrito con i gas e la crescente pressione disintegreranno la Cassini come se fosse un piccolo meteorite, preservando la potenziale esobiologia del Sistema Saturniano ma cancellando la prova fisica della sua esistenza.
A pensarci, mi vengono gli occhi un po’ lucidi e sono convinto che, quando annunceranno il momento preciso dell’impatto, un sospiro me lo lascerò sfuggire.
Conoscendola, però, la Cassini se ne andrà in un lampo di gloria raccogliendo e inviando quanti più dati possibile sugli strati superficiali dell’atmosfera di Saturno, svelando qualche altro mistero e aprendone di nuovi prima di scomparire. Non deluderà nemmeno in punto di morte.
Perché la Cassini è stata questo: una continua sorpresa. L’eredità che ci lascerà sotto forma di nuova conoscenza e nuove domande a cui rispondere è impressionante, forse unica fra tutte le missioni spaziali che abbiamo lanciato, e la sua impronta nell’astronomia planetaria sarà profonda e indelebile.
Un lungo viaggio per una sonda, un balzo incalcolabile per l’umanità.

Thursday, 23 February 2017

Trappist-1 spiegato ai deficienti

Nelle puntate precedenti:

Respiro profondo.
Ci risiamo.

Lo so, lo so, lo so che non mi devo incazzare ogni volta che una scoperta scientifica, specie in campo astronomico, viene accolta da un coro di “chissenefrega, i problemi sono ben altri”, “pensiamo al nostro pianeta” e “mio nonno in carriola se l’era già immaginato”. Mi ero ripromesso che a questo giro avrei ignorato l’analfabetismo funzionale e mi sarei solo goduto l’annuncio della NASA, ma è più forte di me: non capisci una ceppa umida e verdastra di astronomia? Non vuoi spendere nemmeno dieci minuti del tuo tempo su Wikipedia per capirci qualcosa? Non ti poni proprio la domanda del perché sia importante? Sta’ zitto. Sul serio, sta’ zitto: non ti costa nulla e ci fai più bella figura.

Detto ciò, ho già parlato nei post linkati sopra dell’importanza sociale, culturale e anche pratica che l’astronomia ha nella vita delle persone, quindi parliamo di ieri. La NASA ha annunciato che intorno a Trappist-1, una piccola stella situata a circa quaranta anni luce dal Sistema Solare nella costellazione dell’Aquario, ha scoperto sette pianeti rocciosi di dimensioni simili alla Terra, dei quali ben tre nella zona abitabile della stella. Da qui il coro di proteste: “Siete davvero sorpresi che esistano altri pianeti come la Terra nell’universo? Per la legge dei grandi numeri ce ne devono essere, e per la legge delle probabilità li si sarebbe scoperti prima o poi”. Complimenti, con questa osservazione hai appena dimostrato il livello intellettuale di un babbuino mongoplegico.

No, nessuno è sorpreso che, nella vastità della Via Lattea, esistano altri pianeti simili alla Terra nella zona abitabile della loro stella: molti candidati sono già stati scoperti. Si era già anche ipotizzato che la formazione di stelle del tipo di Trappist-1 potesse favorire quella di un sistema con numerosi pianeti terrestri, e oggi se n’è avuta la conferma. Ciò che rende la scoperta eccezionale è che questo sistema planetare ha delle particolarità (posizione, distanza dalla Terra, la stella in sé) di estremo interesse scientifico.
Cercherò di riassumere, nei limiti delle mie competenze scientifiche, i motivi in punti rapidi e semplici; so che molti di questi concetti richiedono almeno la quinta elementare, ma davvero, provate a seguirmi.


Trappist-1 è una stella vicina. Ho abbassato il mio livello di “inutile dirlo” al minimo, quindi diciamolo: la relativa vicinanza di Trappist-1, poco meno di quaranta anni luce dal Sistema Solare, rende l’osservazione del suo sistema particolarmente agevole: è infatti la prima volta che si è riusciti a misurare il diametro e la massa di questi pianeti con grande precisione. Ci sono sistemi planetari più vicini, come Proxima Centauri (quattro anni luce e spicci), ma Trappist-1 ha delle caratteristiche finora uniche, tra cui…

Trappist-1 è una stella fredda. In inglese è una ultra-cool dwarf, una nana ultra-fredda; è un tipo di stelle di piccola massa con una temperatura superficiale bassa (in questo caso metà di quella del Sole) e un’attività stellare moderata, senza grosse eruzioni di plasma. Da una parte, il fatto che sia poco luminosa agevola ulteriormente le osservazioni dei pianeti, che non sono oscurati dalla luminosità della stella; dall’altro, la relativa tranquillità, unita all’estrema longevità di questo genere di stelle (nell’ordine di centinaia di miliardi di anni) sono fattori propizi all’esobiologia. Inoltre…

Trappist-1 è una stella molto metallica. Per “stella metallica” si intende una stella che contiene elementi (anche non-metalli) più pesanti di idrogeno ed elio, tra cui carbonio, azoto e ossigeno. È estremamente raro che le stelle di questo tipo siano così metalliche perché, essendo molto vecchie, si sono formate in un’epoca in cui c’era scarsità di elementi pesanti. Questo rende Trappist-1 molto interessante: più elementi sono contenuti nella stella, più ne erano contenuti nella nebulosa che l’ha originata e, quindi, nei pianeti che si sono formati. Carbonio, azoto e ossigeno sono inoltre elementi indispensabili per la biochimica che conosciamo.

Ha molti pianeti rocciosi. Gli esopianeti più facili da individuare sono i giganti gassosi: sono più grandi e massicci, quindi producono effetti ottici sulle stelle (eclissi e librazioni) più evidenti. I giganti gassosi non hanno una vera e propria superficie, e la loro gravità e pressione sono estreme, il che li esclude come candidati per ospitare la vita a prescindere dalla loro posizione nel sistema. Trappist-1, d’altra parte, ha un sistema con ben sette pianeti, tutti rocciosi. È la prima volta che si individua un sistema stellare con tanti pianeti solidi.

I tre pianeti nella zona abitabile sono molto simili alla Terra. Per “simili” si intende non solo che le dimensioni stimate sono di poco maggiori o minori di quelle della Terra, e avranno quindi una forza gravitazionale paragonabile alla nostra, ma anche che le condizioni di insolazione (la quantità di luce e altre radiazioni che ricevono dalla stella) sono analoghe. Il pianeta E riceve la stessa quantità di luce e calore che riceviamo noi, F e G una quantità simile a quella di Marte. Un altro tassello per la possibile abitabilità dei pianeti.

I pianeti hanno atmosfere povere di idrogeno ed elio. Delle analisi hanno già escluso che alcuni dei pianeti abbiano atmosfere ricche di idrogeno ed elio (come i nostri Giove e Saturno). Ciò apre il campo alla possibilità di atmosfere ricche di acqua, azoto, carbonio o ossigeno; dall’analisi spettroscopiche delle atmosfere si potrà, in futuro, tentare di individuare eventuali tracce di composti tipicamente organici – cosa resa possibile per la prima volta dalla vicinanza e relativa freddezza della stella.

I pianeti sono in risonanza orbitale. Detta in breve, il tempo che questi pianeti impiegano a orbitare la stella è sincronizzato. Esempio: B compie un’orbita ogni orbita e mezza di C e ogni due di D (non sono i dati effettivi, li ho buttati lì per fare l’esempio). Essendo i pianeti molto vicini fra loro, ci si può basare sulle reciproche perturbazioni orbitali per determinare per la prima volta in maniera accurata la loro massa. Dal rapporto fra massa e diametro si può determinare la loro composizione: c’è, ad esempio, una concreta possibilità che su uno di questi pianeti ci sia molta acqua liquida. È la prima volta che stime così precise sono state possibili.

Potrebbero essere pianeti migrati verso l’interno. Per farla breve, l’acqua è un composto molto leggero, facilmente spazzato via dal vento stellare. La risonanza orbitale suggerisce che i pianeti potrebbero essersi formati nelle regioni più esterne della nebulosa stellare per poi spostarsi più vicini alla stella, e questo farebbe sì che possano davvero essere ricchi d’acqua. Di nuovo, si tratta di qualcosa difficilmente verificabile su altri sistemi stellari a causa della distanza e della luminosità delle rispettive stelle, che oscura la luce riflessa dai pianeti, ma qui, con gli strumenti attuali e quelli che diverranno operativi nei prossimi anni, sarà possibile.

Ricapitolando, quindi, Trappist-1 è il primo sistema stellare con tutte queste caratteristiche messe insieme a essere stato scoperto: caratteristiche sia intrinseche, sia di osservabilità da parte nostra. È la prima volta che si è riusciti a misurare il diametro e la massa di un gruppo si esopianeti con tanta precisione. È la prima volta che, con ulteriori studi, si potrà determinare con certezza l’esistenza o meno di gas serra che regolino la temperatura superficiale dei pianeti, la presenza di elementi e composti organici nelle loro atmosfere, e come dei pianeti così vicini fra loro interagiscono e si comportano orbitando una stella di piccola massa.
Il punto, quindi, non è la scoperta in sé di pianeti simili alla Terra, ma quante prime volte nella storia dell’astronomia ci stiano presentando; quante possibilità di comprendere meglio l’universo e lo stesso pianeta in cui viviamo ci stiano dando; quanto tutto ciò possa arricchire il patrimonio di conoscenze che condividiamo. Perché un conto è immaginare che, nella vastità dell’universo, ci siano pianeti che potrebbero ospitare la vita – quello è facile; un altro conto è verificarlo. Trappist-1 ci mette per la prima volta nelle condizioni di studiare degli esopianeti con tanta precisione da poterlo proprio verificare. Magari poi non troveremo nulla; magari troveremo tutto. Ma questa scoperta ci permetterà di rispondere a molte domande e porcene di nuove, e alcune di queste scoperte potrebbero trovare un’applicazione pratica sulla Terra.

Per cui, la prossima volta che sentite di una scoperta scientifica, non fermatevi al titolo del giornale prima di aprir bocca e lasciar fluire libera la deficienza. Provate ad aprire il link e leggere. Quello che leggerete magari non vi dirà nulla, ma provate a chiedervi perché la gente che ci capisce qualcosa è entusiasta. Potrebbe esserci un motivo, potreste addirittura scrivere a qualcuno, farvelo spiegare e imparare qualcosa anche voi. Invece che “Ma davvero siete sorpresi che X?”, chiedete “Perché siete sorpresi che X? Potreste spiegarmelo, per favore?”. Perché dai, alla fine non siete davvero minorati mentali: siete solo pigri e rifiutate ciò che non capite per non sentirvi stupidi.
Prendetevi questi dieci minuti, dicevo, poi potrete tornare a guardare Maria de Filippi alla TV, che funziona grazie alle onde radio che, assieme alle microonde del forno con cui vi siete scaldati la cena, sono state scoperte grazie agli studi sull’elettromagnetismo delle stelle prima di essere usate in oggetti che rendono meno difficile o noiosa la vostra vita quotidiana.
Ma tanto chissenefrega di studiare l’universo, ve’?

Sunday, 4 December 2016

La bellezza dei granelli di polvere

Se c’è una cosa che mi urta (sì, lo ammetto, ce ne sono molte) è quando la Terra viene definita un piccolo, insignificante, patetico granello di polvere nella vastità dell’universo. Un minuscolo sasso in orbita intorno a una minuscola stella, ridicoli non solo sulla scala delle distanze cosmiche, ma anche paragonati alle dimensioni di altri pianeti e stelle.

Da una parte capisco da dove questi discorsi provengono e la buona fede che c’è dietro: dopo secoli di mentalità antropocentrica, in cui ogni cosa era stata creata a nostro uso e consumo come da dottrina cristiana, è doveroso rimettere le cose nella giusta prospettiva e ricordare che siamo solo un piccolo frammento di un universo vastissimo.
La nostra esistenza non è frutto di un universo costruito a misura nostra, ma di tante piccole coincidenze che hanno, in buona parte, a che fare con la “mediocrità” di cui siamo circondati: un sole nella media, senza fenomeni stellari particolarmente interessanti, senza una vera compagna perché Giove è rimasto troppo piccolo per diventare una stella binaria, in un angolo semi-periferico e privo di oggetti interessanti che possano interferire con la nostra esistenza in una galassia nella media, su un pianeta piccolo, senza anelli, con un solo satellite, che si trova alla giusta distanza dalla sua stella per permetterci di esistere. Tutte condizioni temporanee ed estremamente variabili, in tempi astronomici, che ci danno qualche centinaio di migliaio di anni per esistere, un tempo minimo sulla scala dell’universo.

La Terra vista da Saturno: un piccolo punto luminoso nella vastità dello spazio.

Fin qua nulla da ridire, ma poi c’è l’altra faccia della medaglia. C’è quando l’argomentazione va troppo in là e, a “piccolo” e “in un vicinato cosmico relativamente pacifico”, si aggiunge la derogazione. “Insignificante”, “patetico”, “non importante”, “fragile”, “granello di polvere”: queste sono cose che mi irritano parecchio. Perché sulla scala dell’universo è vero, non siamo nulla… ma cosa non lo è? Perfino le stelle più grandi e spettacolari non sono nulla nella vastità del cosmo. E allora, se niente è nulla, vuol dire che tutto è qualcosa: tanto la nostra piccola Terra quanto un’intera galassia non importano nell’arco di qualche decina di miliardi di anni, ma essere piccoli non significa essere insignificanti.
Del resto, questo “granello di polvere”, questa stella nella media, questa galassia grande ma non troppo per noi sono tutto. In un certo senso, è proprio la brevità, la precarietà e la straordinarietà delle circostanze della nostra esistenza a renderla molto più preziosa di quanto non sarebbe se tutto fosse stato progettato in sua funzione. Esistere nonostante l’universo sia un posto ostile alla fragile biologia del carbonio, in un breve momento prima che il Sole diventi troppo potente e ci spazzi via l’atmosfera o la alteri chimicamente fino a renderla simile a quella di Venere, prima che l’orbita della Luna decada e smetta di stabilizzare l’inclinazione del nostro asse e, con essa, i cicli stagionali, prima che la rotazione rallenti al punto da far perdere ogni nozione di giorno e di notte (e, con essa, di insolazione bilanciata), e avere un intelletto che ci permette di esserne consapevoli è una grande fortuna che, come specie, non dovremmo sprecare. È qualcosa di prezioso che non dovremmo dare per scontato.


Ma se la Terra per noi è importante perché è tutto, è la nostra vita, non si può togliere nulla neanche ai piccoli corpi celesti che non hanno a che fare con noi. Ogni stella e pianeta, ogni asteroide e cometa, è unico e speciale a modo suo. Perfino qualcosa come l’asteroide Ida, un piccolo mondo lungo nemmeno sessanta chilometri, è speciale, con la sua piccola luna Dattilo, un sassolino di un chilometro di diametro. Un asteroide con un satellite. Speciale come Plutone con Caronte qualunque sia la sua designazione, o Cerere col suo cratere brillante, gli anelli di Saturno e l’atmosfera di Titano, le tempeste di Nettuno, le bizzarre stagioni di Urano…
Nulla è insignificante: ogni cosa può essere interessante. L’universo può non essere stato creato secondo i nostri bisogni, può non esserci una ragione perché esistono gli altri pianeti, gli asteroidi, la fascia di Kuiper, le comete, le stelle, ma questo non ci impedisce di poter apprezzare come ogni cosa sia bella e unica a modo suo, di essere curiosi, voler imparare di più, fare nuove scoperte e porci altre domande.
E anzi, è proprio perché l’universo non è un modellino assemblato da qualcuno e ogni cosa, in tempi astronomici, è effimera che non dobbiamo cadere nella trappola dell’insignificanza dei “granelli di polvere”: siamo fortunati a trovarci sul nostro e a poter scoprire, osservare e imparare da quelli che ci circondano in questo breve momento in cui esistiamo.

Tuesday, 14 July 2015

New Horizons

Ho aspettato questo momento letteralmente da tutta la vita. Da quando Plutone era ancora un pianeta e mi seccava che fosse l’unico a non avere le sue belle foto dettagliate sui libri di astronomia. Le nuovissime foto ad alta risoluzione di Urano e Nettuno erano, negli Anni Novanta, il vanto di tutti i libri di astronomia. Il massimo che si aveva di Plutone, invece, era questo:

Meh.

E sì, capivo benissimo che era troppo piccolo e lontano per i nostri telescopi – perfino per lo Hubble! Capivo che, viste le dinamiche orbitali, era in una brutta posizione affinché le sonde Voyager lo visitassero dopo Nettuno. Ma era un’ingiustizia! Che aspettavano a lanciare una sonda che svelasse il mistero e ci mostrasse com’era fatto l’unico pianeta che ancora mancava?
Ricordo quando la NASA annunciò trionfante di aver risolto per la prima volta la superficie di Plutone sempre grazie allo Hubble. Il risultato?

Meh.

Insomma, urgeva qualcosa di serio. Ai tempi de l’Universo: Grande Enciclopedia dell’Astronomia di Piero Angela si parlava di una possibile Pluto Express per il 2001 ma. per un motivo o per l’altro, non se ne fece nulla. Che delusione.
E poi, nel 2006, l’annuncio del lancio della New Horizons. All’epoca mi ero allontanato dall’astronomia dopo la cantonata che fu studiare algebra e fisica alle superiori, ma la notizia la sentii e mi riempì di entusiasmo: ora c’era solo da aspettare nove anni e mezzo e finalmente avrei avuto la mia foto di Plutone da coccolare.
Oggi siamo a luglio 2015 e finalmente è accaduto: abbiamo Plutone grande, nitido, a colori e con tutti i dettagli. Compreso il cuore!

FINALMENTE! Ecco Plutone in tutta la sua bellezza!

Ma il lancio della New Horizons non è stato l’unico avvenimento degno di nota del 2006: è stato anche l’anno in cui Plutone è stato riclassificato come pianeta nano facendo partire quella lunga e penosa diatriba. Una che ha anche rischiato di oscurare l’importanza della missione New Horizons.
Nonostante io per primo sia d’accordo con la riclassificazione, né la New Horizons, né Plutone stesso hanno perso alcuna importanza. Quella che vediamo sopra non è che la punta dell’iceberg delle scoperte che la sonda porterà a casa. Non solo farà luce su Plutone, Caronte e il loro sistema (ci sono altri quattro satelliti), ma aprirà uno spiraglio sull’intera fascia di Kuiper, una regione di mondi tanto diversi da ciò che abbiamo conosciuto finora quanto, probabilmente, lo sono i giganti gassosi dai pianeti terrestri.
Cosa c’è su Plutone, oltre a ghiaccio d’acqua e azoto? Come funziona la sua atmosfera, così distante dal Sole che ogni cosa diventa solida? Perché Caronte è così grande rispetto al suo pianeta-genitore? Plutone è un piccolo mondo ricco di misteri e scoperte che ci attendono, e quello che la New Horizons troverà andando oltre è altrettanto interessante: come si sono formati questi astri? Possono essere migrati verso l’interno del Sistema Solare portando con sé l’acqua che è arrivata sulla Terra?

Insomma, oggi si apre un intero nuovo capitolo dell’astronomia che ha aspettato anni prima di iniziare. L’esplorazione del Sistema Solare esterno è sempre un grande evento perché arrivare lì è lungo e difficile e, stavolta, io sono qui a osservare tutto in diretta. Nettuno era stato esplorato e aveva ricevuto il suo iconico ritratto proprio l’anno in cui ero nato io: con gli altri pianeti ho trovato la pappa pronta, le foto erano già lì quando sono arrivato (anche se tanti misteri attendevano ancora). Questa, invece, è una pietra miliare della scienza a cui sono felice di poter assistere. Quando racconteremo di quando Plutone è stato visitato da una sonda per la prima volta, io potrò dire che c’ero e ho seguito tutto. E che il mio sogno di bambino, di vedere com’è fatto questo piccolo mondo, si è finalmente avverato.

Wednesday, 17 June 2015

Je suis Selvaggia

Cara Selvaggia,
Dopo aver sentito la tua campana su Stanza Selvaggia sono davvero contento che tu sia riuscita a riaprire la tua pagina Facebook dopo i terribili episodi degli ultimi giorni. Perché devo ammetterlo: che delle cose del genere succedano oggi mi fa male. Mi fa davvero male. Trovo inaccettabile che nell’era telematica le persone si sentano in diritto di fare certe esternazioni così, senza fondamento o, alla meglio, con pochissima cognizione di causa di ciò di cui stanno parlando, e poi tolgano agli altri la possibilità di dire la loro. Ciò di cui invece non sono contento è scoprire che mi hai bloccato dopo che ti ho fatto notare – in modo tagliente ma educato – che il termine “astro” dovrebbe farti pensare prima alla scienza che alle cartomanti: stando così le cose, vedo se riesco a raggiungerti in altri modi, perché al dialogo con te ci tengo.

Il tuo intervento sulla faccenda Cristoforetti nell’ultimo episodio di Stanza Selvaggia, ad esempio, è stato per me un faro di speranza: tante volte ho pensato con rammarico a quante poche cose io sappia, a quanto la mia conoscenza del mondo sia superficiale, ma poi arrivi tu e mi rassicuri che c’è sempre qualcuno messo peggio di me.
“Sono state documentate molto di più le cose che accadono sulla Luna che quelle che accadono sulla Terra”, dici tu, ed è vero. Del resto, che la Stazione Spaziale orbiti a 400 km di distanza dalla Terra e la Luna sia solo 384.000 km più in là è un fatto marginale: il concetto generale è pur sempre quello, a chi interesserà mai approfondire un po’ la scienza quando è di Belen che c’è da essere invidiosi? Se poi ci tiriamo dentro un po’ di qualunquismo tipo la guerra in Siria (ché i bambini sofferenti si intonano con tutto, anche quando non c’entrano un tubo), ecco che formiamo un’argomentazione fondata e ragionata.
È disdicevole che ci si interessi più dello spazio che di casa nostra, hai perfettamente ragione! Del resto, il tuo programma radio lo diffondi via web, per cui non sei mica tenuta a ricordare che, tanto tempo fa, si usavano le onde radio, che sono state postulate e poi scoperte a partire dalle osservazioni sullo spettro elettromagnetico delle stelle (qui ti do un aiutino: le onde radio fanno parte della stessa “famiglia” di cui fa parte la luce, quella che fa luccicare i puntini nel cielo, e senza studiare quelle addio radio e tv; scusa non so come rentertelo più semplice). Sputare nel piatto da cui si mangia è maleducato: molto meglio sminuire direttamente l’invenzione della ceramica, non trovi?
Comunque sì, la scienza non dovrebbe far notizia. Men che meno l’astronomia. A cosa servirà mai? Insomma, vadano le onde radio, ma che ce ne frega di sapere come funziona l’universo? A che serve conoscere cose più lontane dell’ufficio dell’estetista di quartiere? Cosa importa se è la Terra che gira intorno al Sole o vice versa? Mica sono scoperte del genere, che mettono in discussione sistemi di pensiero dogmatici e assolutistici le cui ramificazioni vanno ben oltre il mondo accademico, arrivano nella vita quotidiana stessa, a contribuire all’evoluzione di tutta società fino ad arrivare a oggi, quando una donna come te può fare i soldi chiacchierando a un microfono invece che stare a casa a rammendare i calzini e strofinare le pentole. L’astronomia è inutile e tu non le devi assolutamente niente!
E hai ragione a definire stupide le immagini che sono state pubblicate sulla tua bacheca: anche io mi sentirei in imbarazzo a essere sbeffeggiato con un flash mob di cervelli, per cui ti capisco. Così come ammiro il tuo discorso anti-bullismo e la tua preoccupazione per le persone che non hanno quarant’anni di esperienza e tanti fan pronti a difenderle. È per questo che sono più che sicuro che non hai fornito tutti i dettagli legalmente possibili su uno in particolare dei ragazzi che ti ha insultata, tipo quali pagine gestisce e addirittura quanti anni ha, per scatenare i suddetti fan contro di lui. Sono felice che tu sia una persona matura.

Per cui, dicevo, sono contento che tu sia tornata sul web. Ho trovato difficile e frustrante sentire le cose che hai detto su M2O senza poterti venire a dire direttamente che sei una colossale ignorante e suggerirti che, dopo aver fatto la figuraccia, avresti fatto meglio a non scavare ulteriormente nella cacca. Mi dispiace, sono un Millennial e sono fatto così: faccio parte del 99% di internauti capaci di usare Google e avere almeno una conoscenza base delle cose. Ed essendo abituato ai social media, che mi permettono di rispondere per le rime alla gente che mi fa salire la mosca al naso, mi dà ovviamente fastidio quando un personaggio pubblico spara una scemenza e non solo si sottrae al dibattito, ma fa anche l’offeso senza lasciare diritto di replica. Perché non è l’internet che impedisce a te di lavorare – puoi semplicemente ignorare, da ignorante quale sei – ma sei tu che togli a noi la possibilità di farti notare che spari stronzate. Se non volevi sollevare un vespaio, avresti potuto limitarti a parlare di cose che conosci; non l’hai fatto, e queste sono le conseguenze.
Però su una cosa ti do ragione: è davvero brutto che la gente ti abbia dato della puttana e della troia, che ti abbia insultato su cose non pertinenti all’argomento di base. La tua ignoranza, evidentemente volontaria e recidiva, basta e avanza a mostrarti per la persona piccola che sei ed è molto più insultante di qualunque giudizio sulla tua ipotetica condotta sessuale (che onestamente non mi interessa). Per cui, cara Selvaggia, passa meno tempo ad arruffare le penne, lascia stare l’importanza storica e culturale di Belen, e prova a capire perché le tue dichiarazioni abbiano fatto tanto scalpore. Perché l’impresa di Samantha Cristoforetti è importante e ha avuto risalto mediatico. Perché sono le sue ricerche, abbinate ad altre, a creare o migliorare le condizioni di lavoro dei professionisti “comuni” che hai menzionato.
Fino a quando non avrai capito di cosa stai parlando e perché ciò che hai detto è fuori luogo, per favore, conserva quel poco di dignità che ti resta e chiudi qui il discorso. Vedrai che andrà meglio.

Un abbraccio (o anche no).
Alessandro

Ps: la mia gatta ti saluta.

Saturday, 15 November 2014

Apologia della sonda Rosetta

No, non ce la faccio proprio a mantenere la bocca chiusa sul “caso” del lander Philae che è atterrato sulla cometa 67P – o meglio, il caso di come i media italiani (dico a te, TG4) l’hanno presentato. È più forte di me, sono stato appassionato di queste cose sin da quando ero bambino, ho aspettato per anni questo momento, così come aspetto con trepidazione il fliby di Plutone della New Horizons, e vederlo vilipeso da quelli che dovrebbero fare informazione nel paese in cui vivo mi ha davvero fatto male. Altro che sapere che la scavatrice che ha perforato la superficie è stata fatta in Italia.
Per chi se lo fosse perso, il TG4 (vedi link sopra) ha commentato la notizia mettendo l’accento su quanto le scoperte scientifiche sulla natura delle comete ne rovinino la popolare immagine romantica. Su quanto le immagini di questi sassi polverosi tolgano fascino all’“astro” della Natività. Ovvio, perché anche i lander delle missioni Apollo sulla Luna a 384,400 km sono un pugno nell’occhio quando alzi lo sguardo a guardarla prima di una sana pomiciata. Ma qui è peggio, perché, appunto, la cometa è un simbolo della Natività, e guai a toccarla. Quasi quasi direi, fortuna che questa gente non ha più il potere politico di una volta, perché tutto ciò mi ricorda vagamente il processo a Galileo: guai a toccare la visione dell’universo quando c’è di mezzo la religione!
Ci sono tante di quelle cose che vorrei sbattere in faccia all’autore di quel servizio, farneticazione per farneticazione, perché quell’articolo è davvero l’apologia dell’ignoranza volontaria. Vedere le comete “con sorpresa e stupore” significa solo essere dei gran coglioni, perché al giorno d’oggi siamo in grado di calcolarne le orbite e prevederne quindi le apparizioni con anni di anticipo; “non lo sapeva quasi nessuno” della missione, quando bastava aprire Wikipedia per informarsi; e che i nuclei cometari fossero grossi pezzi di roccia e ghiaccio che sublimano in prossimità del perielio è noto da decenni, basta la licenza media. L’asteroide di Armageddon glielo romperei in testa, perché si sa che l’astronomia è buona solo come materiale per blockbuster scientificamente inaccurati. Ciliegina sulla torta, “gli scienziati sono gli unici o quasi ad eccitarsi” per la missione, mentre è evidente che il grande pubblico, di cui lui vuole farsi portavoce, è decisamente infastidito, anzi, offeso dall’essersi ritrovato queste scomode nozioni scientifiche infilate nel sedere. Era meglio non sapere, continuare a crogiolarsi nell’immagine della palla di luce fuffosa con la coda: non posso nemmeno chiamarlo sottotesto, perché è praticamente il punto focale del servizio.

Ok, mi rendo perfettamente conto che arrabbiarmi è stupido. L’atteggiamento antiscientifico è un po’ una costante della società italiana, basti pensare a quanti si scagliano contro quella stessa ricerca che permette loro di riacchiappare i loro animaletti per la coda quando hanno una zampetta nella fossa. Figurarsi quindi il giudizio che si può avere su una scienza che, apparentemente, non ha un riscontro concreto nella vita quotidiana (dico “apparentemente” perché capire il funzionamento su larga scala dell’universo in realtà serve a controllare e applicare quelle stesse forze sulla piccola scala, ovvero la base della tecnologia moderna; radio e tv, forno a microonde e radiografie in primis). Ma c’è ben altro, un motivo molto più radicato per cui in una società retriva come quella italiana queste scoperte sono considerate un male, come l’apologia della beata ignoranza del TG4 ha chiaramente mostrato.
La verità è che l’astronomia è il motore che propelle l’avanzamento della società. È la scienza che per prima ha spinto l’uomo a mettere in discussione il divino, a studiare il cielo non come qualcosa di remoto e irraggiungibile, non come un reame separato e immutabile, ma come parte integrante della realtà in cui viviamo. È stata una scienza piena di errori, che ha dato per assodati anche per secoli modelli che poi si sono rivelati incorretti ma li ha poi superati, che si mette costantemente in discussione ed è alla continua ricerca di correzioni e nuove sfide a quanto già sa. Ci mostra quanto piccoli e umili siamo, quanto la nostra conoscenza sia fallace e quanto la “verità” non esista e sia costantemente conrovertibile. Ci insegna ad avere il coraggio di superare le nostre teorie quando si rivelano sbagliate, che non esistono dogmi, che nessuno può proclamarsi detentore della saggezza suprema perché la percezione umana è limitata. Per secoli abbiamo pensato che il cielo fosse un reame divino, che costituisse un mondo a parte, perfetto, la residenza di Dio; e che ogni cosa fosse stata creata in un meccanismo perfetto affinché noi potessimo essere qui. Oggi sappiamo che l’universo è fatto della stessa materia di cui siamo fatti noi, che fuori dal nostro cielo c’è uno spazio uguale a quello in cui ci muoviamo noi, che i meccanismi su cui si basa la nostra esistenza sono imperfetti e soggetti al declino – basti pensare al decadimento orbitale che farà sì che nel giro di milioni di anni non possano più avvenire eclissi totali sulla Terra – solo in tempi talmente grandi da non essere nemmeno concepibili dalla nostra mente. Noi siamo qui, approfittiamo di un breve istante per esistere, e col tempo le cose cambieranno. Nulla è a nostro uso e consumo, siamo solo stati fortunati e dobbiamo prendere la nostra esistenza come il dono che è, non darla per scontato perché ci è dovuta.
Se non fosse stato per la scuola aristotelica, per la Rivoluzione Copernicana, per il telescopio, per i primi uomini nello spazio, saremmo ancora schiavi dell’irrazionale e della superstizione, senza la possibilità di pensare con la nostra testa e prendere in mano la nostra esistenza. Ascolteremmo ancora chi dice di aver ricevuto una rivelazione e lasceremmo che fossero loro a decidere della nostra vita. E vivremmo ancora nel terrore ogni volta che una cometa, questo misterioso oggetto luminoso che trascende l’immutabilità delle Stelle Fisse a intervalli imprevedibili, compare in cielo come presagio di chissà quale sventura.

Saturday, 4 October 2014

Meteorite di Plutone – Azione!


Non ci posso credere, siamo punto e accapo.
La scorsa settimana si è tenuto nel Harvard-Smithsonian Center for Astrophysics un dibattito circa la definizione di “pianeta” e, ovviamente, se sia applicabile o meno a Plutone. Il tutto con lunghi discorsi di tre esperti, di cui uno contro e due a favore di riammetterlo nel club dei pianeti perché, sostanzialmente… feels, presumo. Non lo so, non mi vengono in mente altri motivi plausibili.
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, c’erano una volta i sette pianeti del Sistema Solare: la Luna, Mercurio, Venere, il Sole, Marte, Giove e Saturno. In sostanza, se brillavi e ti muovevi in cielo per conto tuo, eri un pianeta. Dopo un paio di millenni, si scoprì che il Sole faceva categoria a parte, la Luna era l’unica a girare intorno alla Terra, la quale orbitava intorno al Sole assieme agli altri cinque; similmente alla Luna, c’erano quattro pianetini che ruotavano intorno a Giove. A questo punto, eri un pianeta solo se ruotavi intorno al Sole. La scoperta di Urano nel 1781 non pose grossi problemi alla nomenclatura, ma nel 1801 arrivò il pianeta di cui di sicuro non avete sentito parlare: Cerere, il quinto (in ordine di distanza) pianeta del Sistema Solare, scoperto fra Marte e Giove. Sorprendentemente, nelle sue immediate vicinanze poco dopo spuntarono fuori anche Pallade (1802), Giunone (1804) e Vesta (1807), e per svariati anni il Sistema Solare ebbe ben undici pianeti. Man mano che saltavano fuori nuovi oggetti, più simili fra loro che a qualsiasi altro pianeta, e il vicinato iniziava a diventare fin troppo affollato, tutti questi piccoli mondi furono riclassificati come asteroidi, e come tali sono conosciuti tutt’oggi. Il Sistema Solare aveva di nuovo sette pianeti fino alla scoperta di Nettuno (1846).
Plutone fu scoperto nel 1930 e ritenuto inizialmente di dimensioni simili a Nettuno. Ma, mentre successive osservazioni facevano diminuire la stima sempre più fino a far diventare Plutone più piccolo della Luna (e di altri otto satelliti naturali sparsi per il Sistema Solare), non solo si scoprì che, a differenza di qualsiasi altro pianeta, Plutone era fatto di ghiaccio, ma nuovi, piccoli mondi ghiacciati iniziarono a saltar fuori nelle sue vicinanze. Mmh, dove l’abbiamo già visto? Oltretutto, Plutone aveva già svariate peculiarità che lo rendevano parecchio diverso dal resto dei pianeti: è in risonanza orbitale con un altro di essi (Nettuno) e ne interseca l’orbita in due punti; la sua, di orbita, è molto più inclinata rispetto all’equatore solare di quella degli altri otto; non solo, è anche l’unico pianeta ad essere un sistema binario, visto che il suo satellite, Caronte, è grande quasi la sua metà ed entrambi ruotano intorno a un centro di gravità comune che si trova al di sopra della superficie di Plutone. Insomma, le anomalie erano già troppe, e si è potuto far finta di nulla solo fino a che, nel 2006, si è scoperto Eris, un corpo celeste più grande di Plutone. A quel punto, la definizione di pianeta è stata nuovamente aggiornata e Plutone è diventato un pianeta nano, nonché l’oggetto più grande della fascia di Kuiper, che raggruppa tutti i pianetini ghiacciati della zona (Eris fa parte di un’altra zona ancora del Sistema Solare, il disco diffuso). Fino alla settimana scorsa, quando si è sentita la necessità di buttare tutto all’aria e ricominciare daccapo.
 

Alla luce di ciò, la diatriba sulla classificazione di Plutone è un po’ la cosa più stupida che sia mai capitata all’astronomia. Ok, mettiamo il caso che Plutone torni ad essere un pianeta. Fantastico, e ora? Includiamo anche Eris? E cosa facciamo di Cerere, che storicamente vanta ancora più diritti di Plutone, visto che è venuta prima lei? E di Pallade, Giunone e Vesta?
Tralasciando, poi, che qualsiasi classificazione si dia loro, quei corpi celesti continuano a esistere e orbitare nello stesso modo, le persone dovrebbero capire che i concetti scientifici – in questo caso, la classificazione di pianeta – non sono immutabili. Anzi, cambiano costantemente man mano che arrivano nuove conoscenze. E la classificazione degli oggetti celesti è una questione di pura comodità.
Perché è così importante avere nove pianeti nel Sistema Solare? O che Plutone sia il più piccolo di essi piuttosto che il più grande degli oggetti di Kuiper? Non possiamo avere otto pianeti secondo la definizione tradizionale, e svariate altre categorie di oggetti fra loro simili, come gli asteroidi, la fascia di Kuiper, il disco diffuso, i centauri, le comete eccetera? Oltretutto, sarebbe anche più facile per il pubblico, compresi gli studenti, comprendere un modello del genere piuttosto che “Abbiamo nove pianeti, eccetto che l’ultimo è più piccolo della nostra Luna, ha un milione di differenze dagli altri e un fottio di corpi simili nelle vicinanze che però, attenzione, non sono anche loro pianeti perché ci piace così”. Nel Sistema Solare come lo conosciamo adesso, un discorso simile non ha più molto senso.
Così come non ne ha l’intera diatriba. Certo, anche io sono cresciuto con i nove pianeti del Sistema Solare, e anche io ho guardato Sailor Moon, e Sailor Pluto è anche una delle mie Senshi preferite. Nonostante tutto, sono affezionato al modello con nove pianeti. Ma non capisco questo genere di sentimentalismo nel mondo scientifico. L’uncia ragione per cui uno scienziato potrebbe attaccarsi unghie e denti a questa classificazione è la tradizione. E la tradizione serve solo a rallentare la scienza.

Thursday, 20 February 2014

Doomsday

In caso vi fosse sfuggita la notizia, questo week end moriremo tutti. Pare infatti che alcuni studiosi della cultura vichinga abbiano interpretato dei segni assolutamente non circostanziali (fra cui, presumo, la chiusura per ferie della Grande Shanghai a Trieste) e calcolato che, secondo i nostri nerboruti metallari ante-litteram, il Ragnarøk, il crepuscolo degli dei, sia fissato per sabato 22 febbraio 2014. Già immagino celebrazioni in costumi storicamente accurati a casa Espenæs-Krull in vista dell’evento. Ma mentre aspettiamo che Fernir si liberi e ammazzi Odino, ecco un breve excursus sulle apocalissi a cui sono sopravvissuto negli ultimi dieci anni, che preferisco postare ora perché non so se nell’Yggdrasil, in cui andremo a rifugiarci, c’è il wi-fi.

Tralasciando i giorni del giudizio customizzati per le piccole sette (che potete trovare qui) e limitandomi a quelli con una risonanza mediatica più globale, credo che il conteggio si mantenga attualmente intorno ai nove, con il prossimo come decimo. Nell’ordine:

• Luglio 1994, con la cometa Shoemaker-Levy 9 che si schiantava su Giove. Ho seguito la vicenda perché ero già appassionato di astronomia, riguardando la videocassetta di Piero Angela sull’evento a più riprese perché le animazioni computerizzate dello scontro erano proprio fighe. E ho disegnato un sacco di volte la cometa. Deve essermi sfuggito che un evento a circa cinque unità astronomiche da noi potesse avere ripescussioni catastrofiche, e probabilmente è sfuggito anche alla Terra.
• Il 1999, profetizzato nientemeno che da Michel de Notredame, aka Nostradamus, noto per la sua affidabilità, specialmente sulle date precise. Nessun re del male è arrivato, il livello di inquinamento dei fiumi è rimasto quello di sempre e il millennio non ha fatto finire nulla. Beh, fortuna: avevo un viaggio in Austria da fare per vedere l’eclisse di sole ed ero impegnatissimo a portare la mia squadra di Pokémon al livello 100!
• Sempre il 1999 con il Grand Cross, l’allineamento dei pianeti nello stesso quadrante del del Sistema Solare. Questo me l’ero perso del tutto, ma Kaori Yuki l’ha infilato nella trama di Angel Sanctuary, per cui si merita una menzione.
• Il 2000, con un altro allineamento, stavolta di Mercurio, Venere, Giove e Saturno, e ovviamente col Millennium Bug. Inutile dirlo, nessun segno dai pianeti, né dai computer. E dire che io e il mio amichetto del cuore Roberto avevamo passato l’anno precedente impegnati in accesi dibattiti sulle conseguenze del Millennium Bug.
• Il 2001 è in realtà la versione 2.0 del 2000. C’era chi sosteneva che lo 0 non fosse un anno, ma un momento nel tempo, e che il primo millennio fosse iniziato con l’anno 1 (il che, in effetti, ha senso). Quindi il 2000 era l’ultimo anno del Secondo Millennio e il Terzo sarebbe effettivamente iniziato col 2001. Apocalisse rimandata di un anno, quindi, ma di nuovo nulla di fatto.
• Il 10 settembre 2008 e l’accensione dell’acceleratore di particelle del CERN di Ginevra. I media nazionali hanno la brutta caratteristica di bagnarsi copiosamente le mutandine ogni volta che c’è da fare pseudo-scienza, per cui si sono buttati come ninfomani sulla notizia e hanno strombazzato ai quattro venti quanto il tutto fosse pericoloso. In quel periodo ero terribilmente depresso, quindi ammetto di averci sperato davvero, un po’. Che delusione, come tutte le volte.
• Nel 2011 ci sono state tante apocalissi che le si poteva mangiare col culo (colorita quanto efficace espressione russa), fra cui ricordo il 21 maggio. Quella burlona della Terra si è pure lasciata sfuggire una puzzetta sotto forma di eruzione vulcanica (cit.) in quel periodo, ma ha deciso che era troppo pigra per capovolgere i poli magnetici e poi esplodere.
• L’11/11/11, perché le date fighe sono il nuovo nero e si abbinano con qualsiasi apocalisse.
• Il 21 dicembre 2012, che ho trascorso facendo shopping natalizio con la Mater e riaprendo il blog, è stato una colossale delusione. Dai, con tutto il risalto mediatico che ha avuto, nemmeno un terremotino? Una meteorina che arriva a terra e sfonda una macchina? Un diluvietto? No, cavolo, era pure soleggiato e tiepido! Maya fail.

Per quanto riguarda l’imminente Ragnarøk, l’unica previsione che posso fare è che avrò i capelli sufficientemente sudici da potermi fare l’henné (mi hanno spiegato che devono essere sporchi perché così le scaglie sono tutte aperte e fa presa meglio). Per cui, se il mondo sopravvivrà avrò i capelli lucidi e splendenti (faccio quello neutro solo per rimpolparli un po’). In caso contrario, pazienza, ci spalmerò sopra la linfa dell’Yggdrasil sperando che abbia proprietà analoghe.

Oh, in tutto ciò sono più propenso a credere ai Nero, che indicano il 21 dicembre 2808 come Doomdsay. Dai, come può una canzone così figa non azzeccarci?

Wednesday, 8 January 2014

Per amore di una gatta

In questi giorni si fa un gran parlare di animalismo, diritti degli animali, crudeltà ed eticità o meno della ricerca, i botti di fine anno che sono un ever green, veganesimo ed eticità della dieta onnivora e quant’altro, trascinati probabilmente dall’esplosione del caso di Caterina Simonsen e del polverone mediatico che ne è derivato.
Finora ho partecipato in maniera un po’ marginale alla cosa, principalmente pubblicando stati pungenti o condividendo link sarcastici, ma credo sia arrivato il momento dire la mia in maniera seria e ragionata, per una volta.

Partiamo da un presupposto fondamentale: io odio buona parte dell’umanità. Parlando in astratto, la gente mi dà fastidio, non amo averci a che fare, quando qualcuno mi pesta i piedi faccio di tutto per rendergli la vita un inferno e in generale mi frega poco di chiunque non sia un mio amico stretto.
D’altra parte, amo gli animali. Adoro (a piccole dosi) stare in mezzo alla natura, scelgo di evitare i cosmetici testati sugli animali, sono a favore di una legiferazione che regoli il trattamento degli animali da allevamento e non considero la caccia un’attività ludica costruttiva.
Però accidenti, ciò non mi impedisce di usare il cervello.

Ora, come ho già scritto, ho una gatta di sedici anni malata di tumore. Io penso di aver raramente amato quanto ho amato lei, se devo elencare i miei affetti più profondi lei è una delle prime a venirmi in mente, davanti a buona part del mio parentado. Da quando ho saputo della sua malattia ho pianto più che per due delle mie zie che sono morte di cancro messe assieme (mentre è ancora viva, quando morirà sarò di sicuro devastato). La Mater sta esattamente come me, e non solo ci stiamo facendo in quattro per darle le migliori cure ai sintomi collaterali della malattia, ma la stiamo trattando da regina, le compriamo la carnetta buona, la viziamo e la coccoliamo per tutto il tempo che le rimane senza badare a spese (addirittura, la Mater trascorre con lei tutto il tempo in cui non lavora, io purtroppo sono tornato dall’altra parte d’Italia per l’università). Non esagero quando dico che, se potessi, venderei l’anima al diavolo pur di curarla, e porterei con me anche tutte quelle necessarie, di persone o di animali (ipoteticamente, dato che non credo nella mitologia cristiana).
Cosa significa questo? Che anche e soprattutto per amore della mia gatta, io ho il dovere di essere dalla parte della ricerca scientifica. In una situazione come la mia non posso non pensare che se la ricerca fosse andata avanti almeno un altro po’, magari si sarebbe trovata una cura meno invasiva o più efficace al male che affligge lei e tanti altri animali, o persone, che conosco. È anziana, le cure attuali sarebbero estenuanti e dolorosissime per lei, e non solo non potrebbero guarirla, ma sarebbero crudeli considerando i risultati incerti che avrebbero. Tutto ciò mi fa sentire terribilmente impotente, e so che questo senso di impotenza potrà, col tempo, lenirlo solo la scienza scoprendo cure migliori con tutti i mezzi che ha a disposizione. Ormai non farà in tempo a portare beneficio a lei, ma magari fra tot anni lo porterà a chi, per un motivo o per l’altro, si trova nella mia situazione.
E sì, cari animalisti, avete letto bene: il motivo per cui sacrificherei la vita anche di tutte le cavie al mondo non è la vita di una persona, che ritenete tanto poco importante, ma proprio quella di un animale, uno di quelli che idolatrate. Come la mettiamo ora?

A questo punto, parliamoci onestamente: cosa rende la vita della mia gatta più preziosa di quella delle cavie di laboratorio? Beh, proprio il fatto che sia la mia gatta. Che le voglio bene, che ho dei sentimenti per lei.
È bello nascondersi dietro la pretesa di alti ideali cosmici, ma la verità è che l’intera faccenda dell’animalismo non è guidata da una presa di coscienza etica, ma dal mero sentimentalismo. Un sentimentalismo cieco e becero che passa sopra qualsiasi senso della realtà e della morale (perché ciò che leggo da parte degli estremisti, di etico non ha nulla). Chi siamo noi per decidere cosa è giusto e cosa no in un sistema, la “natura” – o meglio, la biosfera, visto che “natura” la fa sembrare un essere senziente – che, come ho scritto, trascende totalmente il concetto prettamente umano di etica?
Nessuno. Non siamo proprio nessuno, e decidiamo in base ai nostri sentimenti ogni singola volta che ne parliamo. Tutto sta nell’avere l’onestà di ammetterlo.

La città in cui sono nato e cresciuto vive di turismo, e con la crisi sta morendo. Ci torno a distanza di mesi per le vacanze, e di volta in volta vedo negozi sempre diversi perché in mia assenza tantissimi hanno chiuso, e i nuovi che aprono durano a malapena qualche settimana. Ho descritto la desolazione della vigilia di natale, e durante il resto delle vacanze l’unico movimento di gente, l’unica fonte di introiti per gli esercizi commerciali, ristorativi e alberghieri, per le persone che ci lavorano e per le loro famiglie, è stata la notte di Capodanno e il tradizionale spettacolo con concerto in piazza e fuochi d’artificio. Partendo dal presupposto di cui sopra, ovvero che comunque amo la mia gatta più della gente in generale, a che titolo posso arrogarmi il diritto di togliere quest’unica fetta di pane ai miei (ex) concittadini perché lo spettacolo pirotecnico di mezzanotte spaventa la mia gatta? Semplicemente, amando lei più di loro, invece che scendere in piazza a bere e ballare ho deciso razionalmente di rimanere a casa con lei assieme alla Mater, tranquillizzandola con la nostra presenza e facendole vedere che eravamo calmi e non c’era pericolo. Il risultato? Lei è rimasta solo allarmata ma non spaventata, i turisti sono venuti a vedere i fuochi d’artificio e commercianti, ristoratori e albergatori hanno avuto qualche introito in una stagione di magra. Ho fatto una mia scelta, l’ho portata avanti coerentemente, l’ho applicata nella misura che il suo essere dettata da fattori emotivi e soggettivi la rende giusta, ovvero a casa mia. Ma senza la convinzione di essere nel giusto assoluto, senza imporla agli altri, senza tentare di togliere il pane di bocca ad altre persone perché sono convinto di avere la verità in tasca. (Che poi i botti randomici, ovvero i petardi, diano fastidio a me è un altro paio di maniche, ma non mi trincero dietro la protezione degli animali per dare un tocco radical-chic e idealista alla cosa).

Il pane di bocca, o anche la carne. Perché, oltretutto, sono una sola generazione lontano dalla tipica vita agreste con gli animali nel cortile. La Mater mi ha raccontato spesso della sua infanzia in un paesino rurale della Bielorussia sovietica dove i suoi genitori lavoratori avevano anche una mini-fattoria in casa. Mi ha raccontato di come il maiale adorasse farsi lavare e spazzolare, di come Rosa, la loro mucca, fosse obbediente, amasse farsi mungere e di come abbiano pianto tutti, la Mater, la zia, il nonno e la nonna, quando l’hanno portata al macello perché era troppo vecchia. Dubito che abbiano mangiato la sua carne, ma ciò non ha fatto della Mater una vegana talebana che rinuncia alla carne in linea di principio perché secondo lei è crudele.
Similmente, adoro giocare con il coniglietto di uno dei miei migliori amici e ci sono davvero affezionato. Ma ciò non mi impedisce di mangiare lo spezzatino fatto con la carne di un coniglio anonimo comprato al supermercato. Idem si sarebbe potuto dire se avessi avuto a che fare stabilmente con dei cavalli: la carne di cavallo mi piace, la mangio, e la mangerei comunque. Non quella del mio ipotetico cavallo, ma quella di altri cavalli sì.
Rispetto la scelta di chi magari ha animali considerati “mangiabili” e, essenso affezionato a loro, rinuncia a mangiarli tutti, ma torniamo sempre lì: è una scelta dettata dai sentimenti in cui il giusto e lo sbagliato, il bene e il male, l’etico e il non etico, non c’entrano assolutamente. Per cui non ci si può ergere su un piedistallo e andare in giro a fare proselitismo a colpi di insulti, vandalismo e post su Facebook perché qualcuno non la pensa come noi su un argomento la cui soggettività è così marcata.

E soprattutto, non si può amare tutto il mondo, non si può salvare tutti. A me non frega nulla se uno sconosciuto viene messo sotto da un autobus sotto casa, e dovrebbe fregarmi se animali sconosciuti vanno al macello e finiscono nel mio supermercato, o se grazie a loro si perfezionano le cure per me e per i miei cari, umani e non? Anche no: proprio perché non sono specista, proprio perché non faccio distinzione fra animali e persone, mi preoccupo per chi conosco, persone e animali, mentre gli sconosciuti mi lasciano indifferente se non nel momento in cui mi trovo a interagire con loro, vuoi che sia ringraziare col sorriso la cassiera della Coop o il cameriere del mio pub preferito perché non voglio essere l’ennesimo coglione che dà il loro lavoro per scontato, vuoi che sia il cavallo, o la mucca, o il gatto che mi fermo ad accarezzare per strada o in campagna e poi arrivederci e grazie. Dopo di che, si torna ad essere estranei, e sinceramente ho altro da fare che preoccuparmi per tutti loro. Non ho sentimenti verso di loro, non mi importa di che fine faranno.
Noi viviamo in un mondo la cui biologia è crudele. Prendere o prendere, perché non ci sono alternative. La nostra biosfera va avanti incurante della sopravvivenza delle singole specie, figurarsi dei singoli individui. Come esseri umani abbiamo aggiunto un mucchio di altri significati, ma biologicamente parlando viviamo per portare avanti la nostra specie, e per farlo abbiamo bisogno che qualcun altro muoia. Non ci sono distinzioni in questo, non siamo una cosa a parte: qualsiasi comportamento che va in questa direzione è assolutamente naturale. L’istinto di conservazione della specie è naturale ed è ciò che ci fa progredire con la scienza in modo da rendere la nostra sopravvivenza più facile e assicurarci il maggior successo possibile. È ciò che ci ha portati a costruire utensili per cibarci più agevolmente, ciò che ha fatto sì che la nostra società si affinasse al punto da avere la differenziazione degli incarichi che c’è oggi, ciò che ci ha fatto superare i competitori mettendoci in cima alla catena alimentare.
Ognuno di questi comportamenti è riscontrabile ovunque nella biosfera, semplicemente siamo strutturati in modo da farlo in maniera più complessa ed efficace, con minor pericolo e, spesso, dispendio di energie. Cacciare una gazzella nella savana come fanno i leoni o allevare un animale e poi portarlo al macello come facciamo noi sono comportamenti totalmente equivalenti, cambia solo il metodo di attuazione: in base a cosa possiamo stabilire che uno è giusto e l’altro è sbagliato? Spedire le api operaie a raccogliere il nettare che poi nutrirà la regina, i fuchi o gli individui più deboli dell’alveare e comprare al supermercato la carne che altri hanno preparato è la stessa cosa: stessa domanda di sopra. Liberarsi l’un l’altro dei parassiti come i primati o uccidere topi e scarafaggi con trappole e veleni sono due facce della stessa medaglia: vedi sopra. Strappare i tentacoli della Caravella Portoghese e usarli come arma come fa il Tremoctopus e usare pelli di animali per coprirci, o usare animali come cavie per migliorare la nostra salute e le nostre aspettative di vita, sono azioni basate sullo stesso principio: ancora la stessa domanda.
Giudicare tutto ciò in nome della “natura” è un controsenso, perché implica che i metodi della “natura” stessa siano sbagliati e noi, che invece siamo in tutto e per tutto esseri naturali con comportamenti naturali, possiamo porci al di sopra di essi e rinunciarvi. Questo non è considerarsi al pari del resto della “natura”: questo è giudicarla, guardarla dall’alto verso il basso facendo finta di considerare gli altri animali non uguali, ma al di sopra di noi.

Io non sono un vegano e non sono un animalista (qui parlo di estremisti): non auguro il male agli altri solo perché non vedono il mondo come lo vedo io. Non auguro a nessuno di avere un parente, un amico o, in questo caso, un animale domestico ammalato e con i giorni contati perché capisca quanti e quali benefici si traggono dalla ricerca scientifica. Chiedo solo di fermarsi un attimo e riflettere a mente lucida, di provare ad affiancare il cervello al cuore: in natura, la morte di un individuo assicura spesso la sopravvivenza di un altro. Pensate a quante persone e quanti animali che amate sono sopravvissuti grazie alla ricerca medica, che, volente o nolente, per tutta una serie di motivi su cui mi tengo documentato fin dove riesco, ma che non pretendo di avere le conoscenze e competenze di decrivere ed enumerare (e bisognerebbe anche avere l’umiltà di ammettere di non essere al livello degli scienziati, nel loro campo), passa anche per gli animali.
Personalmente, io continuerò a devolvere le mie risorse affinché i miei cari possano vivere almeno un po’ meglio, riconoscendo razionalmente che lo faccio unicamente perché ho dei sentimenti, piuttosto che inseguire crociate idealiste, qualunquiste e generalizzatrici senza neanche sapere perché lo faccio.
Anche, e soprattutto, per amore di una gatta.