Wednesday 21 August 2019

La cultura dell’invidia

Sarà che aver passato gli ultimi due mesi e mezzo praticamente a digiuno di social media mi ha disabituato alla grettezza del web e reso più sensibile del dovuto, ma aprendoli oggi mi sono trovato impreparato per lo shitstorm che si è abbattuto sulla notizia dei roghi nella Foresta Amazzonica.
Perché è inevitabile che, fra la preoccupazione genuina e quella per sentito dire, fra la gente che manda le sue migliori preghiere all’Amazzonia e quella che invece si rimbocca le mani e dona fondi, ci siano sempre loro, gli immancabili Spiriti Illuminati che si vengono nelle mutande al solo pensiero di poter cavalcare una tragedia per far vedere quanto sono puri e consapevoli, loro, a differenza di tutti quegli ipocriti che si preoccupano solo degli avvenimenti più mainstream.
A ‘sto giro, l’Illuminazione di queste persone così speciali si è materializzata sotto forma di repost compulsivo degli screenshot di vari tweet che sottolineano come il mondo si fosse mobilitato per Notre Dame mentre non sta facendo nulla per l’Amazzonia, di come tutti parlassero di Notre Dame mentre dell’Amazzonia non parla nessuno, di quanto velocemente si fossero raccolti soldi per “solo una chiesa” mentre nessun muove un dito per l’Amazzonia.

Beh. Non sono qui per fare l’ennesimo post su quanto ciò sia assolutamente falso, visto che in tutto Facebook non vedo scrivere letteralmente d’altro che della Foresta Amazzonica, altro che “nessuno ne parla”. Non sono nemmeno qui per chiedere ai nostri amici Spiriti Illuminati quanto loro abbiano donato alle associazioni di preservazione della Foresta mentre criticano chi ha donato per Notre Dame.
No, sono qui per fare un discorso più ampio prendendo spunto dalla reazione e controreazione che quest’ultima vicenda del web ha scatenato: parliamo di quella che da oggi ho deciso di definire la “cultura dell’invidia”.
È dappertutto. È pervasivia, si infila nel tessuto sociale e lo corrode, creando vesciche che presto si trasformano in sacche di populismo.

Siamo arrivati al punto in cui in una situazione di squilibrio, anche percepito, il primo istinto è di colmarlo non dando a chi sta peggio, ma togliendo a chi sta meglio. Perché avere qualcosa in più, a prescindere dal contesto con cui è stato ottenuto, è una colpa, ormai. Non è qualcosa a cui aspirare, per raggiungere la quale rimboccarsi le maniche, in modo da essere più felici, è qualcosa da distruggere per infliggere la nostra stessa sofferenza agli altri.
Di conseguenza, di fronte al percepito disinteresse mediatico ed economico verso la crisi nella Foresta Amazzonica, la soluzione è sbraitare contro Notre Dame che ha avuto il live streaming e ha mobilitato i milionari di mezzo mondo, delegittimare l’importanza di quella tragedia; non, invece, diffondere dati e notizie attendibili per attirare l’attenzione sul problema e donare alle innumerevoli associazioni di conservazione che si trovano già solo con una rapida ricerca su Google.
Questo discorso lo si prende e lo si applica praticamente a tutto. Togliamo i trentacinque euro al giorno ai migranti, visto che “agli Italiani nessuno pensa”; aboliamo la Giornata della Memoria, visto che delle Foibe nessuno parla; togliamo i fondi alla cultura, alla scienza, alla ricerca, visto che i mestieri manuali sono in crisi. E via così, di falsa equivalenza in falsa equivalenza, finché tutti sono pesti e un po’ più infelici, e nessuno diventa più felice perché mal comune non fa nemmeno mezzo gaudio.

Possono sembrare post innocenti e inconsequenziali, quelli su Notre Dame e la Foresta Amazzonica, ma sono sintomatici di un enorme problema del dibattito pubblico. Perché abituandosi ad abbassare lo standard invece che alzarlo, a togliere a chi ha invece che impegnarsi a dare a chi non ha, si crea un clima in cui a qualunque politico, per vincere facili consensi, basta semplicemente promettere di prendere di mira una qualche categoria percepita come “privilegiata”, per quanto razionalmente, senza bisogno neanche di promettere di migliorare le condizioni generali. Si creano elettori che sono felici di sentirsi dire che “è finita la pacchia” e che “basta con la ka$ta”, e non pensano nemmeno di pretendere politiche finanziarie e di welfare che possano agevolare la loro situazione.

Personalmente, ritengo che sia arrivato il momento di essere responsabili e pensare a come, anche nel nostro piccolo, influenziamo il dibattito pubblico. Prima di postare qualcosa solo perché è controverso e ci fa apparire più avanti di tutti, fermiamoci a riflettere sulle sue implicazioni e su che tipo di discorso va ad alimentare. Perché la cultura dell’invidia ha un po’ stufato.

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