Sunday 30 June 2019

Cin Cin

Stanotte fa davvero caldo: non riesco a dormire e ho entrambe le finestre spalancate. La via è silenziosa, salvo l’occasionale automobile o moto di qualcuno che torna dal sabato sera in giro; anche in camera non si sente nulla, se non il quieto ronzio del ventilatore. Di sicuro, nei palazzi vicini nessun altro è ancora sveglio.
E poi arriva. Portata dalla brezza che odora di lacca per permanente, con tutto l’impatto delle spalline che si incastrano sullo stipite della porta, più trash di Giuni Russo, più gender di Lorella Cuccarini, inconfondibile sulle ali della drum machine e del sintetizzatore Anni Ottanta:

Cin cin, cin cin, ricoprimi di baci. Cin cin, cin cin, assaggia e poi mi dici. Cin cin, cin cin, diventeremo amici: brinda alla fortuna, festeggia con noi. Cin cin!

Non posso crederci. Mi alzo dal letto, corro alla finestra e tendo l’orecchio. Mi arriva la voce di Umberto Smaila da una finestra aperta del palazzo di fronte. Ebbene sì: qualcuno dei vicini sta facendo le cinque del mattino guardando le repliche di Colpo Grosso!


Aah! Le Ragazze Cin Cin! I costumini colorati con i frutti! Le permanenti! Improvvisamente, mi sento travolgere dalla nostalgia per le mie belle serate d’infanzia negli Anni Novanta.
Perché sì, Colpo Grosso è forse l’aneddoto più divertente sulla disfunzionalità della mia famiglia: quando la Mater lavorava la sera come maestra di ballo nei paesi vicini e mi lasciava col Procreatore, lui mi mollava a giocare con le costruzioni sul tappeto e, nella stessa stanza, metteva su Colpo Grosso.
Vi lascio immaginare la gioia della Mater quando, una sera, tornata dal lavoro, le ho chiesto: “Mamma, perché le signorine si spogliano?”. “Ah, uhm… perché fanno la pubblicità alla biancheria!” chiosa lei, con un aplomb invidiabile. “Uh, che belle mutandine! Quasi quasi me le compro anch’io.”

Altrettanto divertente la volta in cui, dopo un raid nel cassetto della Mater, mi misi addosso tutti i reggiseni dei suoi costumi da bagno colorati e lei mi trovò a fare “cin cin, cin cin” davanti allo specchio. Ogni tanto mi piace dare la colpa a mio padre e all’esposizione prematura a Colpo Grosso per avermi fatto diventare gay: mi ha fatto crescere con le Ragazze Cin Cin come role model.
Ma no, è solo una battuta, so che l’orientamento sessuale non dipende da quello. Ciò di cui incolpo per davvero le Ragazze Cin Cin – che, ci tengo a sottolinearlo, nella mia vita sono arrivate prima delle Guerriere Sailor – è la mia ossessione per le serie di cose più o meno simili ma di colore diverso. Pastelli, pennarelli, le Guerriere Sailor, i Pokémon, i CD, le copertine degli album nella mia libreria musicale virtuale, i numeri di Vogue – qualsiasi cosa abbia un modulo fisso e variazioni cromatiche come distinzione. E sì, sono piuttosto sicuro che la cosa si estenda perfino al mio magnum opus, gli Infernal Lords, ognuno con un suo colore tematico e tutti con le cornicette uguali: praticamente ho tentato di ricreare una serie di Ragazze Cin Cin sataniche!

Comunque, ci tengo a spezzare una lancia in favore di Colpo Grosso: io lo ricordo come piuttosto innocente, tutto considerato. Vero, c’era Smaila che, in mezzo alle giovane pulzelle, ghignava e si arricciava i baffi come un gatto che è rimasto chiuso in pescheria. Vero, alla fin fine si trattava di signorine che si spogliano. Ma, nel complesso, l’intera faccenda risulta meno exploitative di quel che può sembrare – sicuramente molto meno della valletta seminuda in qualche programma in prima serata, o dell’accarezzatrice di materassi, o della hostess a un evento sportivo.
Perché gli altri programmi ti piazzano una ragazza seminuda per invocare un erotismo da quattro soldi nella speranza di aggiungere valore a un prodotto dei quali non sono sicuri; in Colpo Grosso, invece, il prodotto era l’erotismo. Un erotismo low-key, più un provocare, un ammiccare intrigante più che volgare. Le ragazze Cin Cin non erano una semplice decorazione sul gioco, erano il gioco; e i concorrenti, che pure si spogliavano, sia maschi che femmine, facevano altrettanto parte del gioco. Certo, il tutto era a beneficio dello sguardo del pubblico da casa, ma lì in studio non si andava a creare quella brutta dinamica con i concorrenti vestiti e la valletta in lingerie senza motivo: il livello era più o meno lo stesso.
E forse, la cosa più divertente del programma è che, capezzoli al vento a parte, si manteneva sempre al di qua di una certa linea. Era come una provocazione, un flirt costante per tenere sulla corda ma non andare al dunque. Che, a dirla tutta, è la parte più divertente in ogni cosa.

Friday 28 June 2019

Ho comprato un ventilatore

Può sembrare una stupidaggine, ma oggi ho comprato un ventilatore. Sono anni che ne parlo con Katia, che mi consiglia di farlo ogni volta che i primi caldi mi privano delle forze e del sonno, ma ogni volta rimando, accampo scuse, non sono del tutto convinto e finisce che arriva luglio, riparto per Giù™ dove ho il condizionatore, torno che la temperatura si è già abbassata e non se ne fa niente. Eppure, per quel mese e mezzo / due mesi, soffro senza decidermi a risolvere la cosa.
Sino ad oggi: finalmente mi sono deciso, sono andato alla Pam e ne ho preso uno a buon prezzo.

Beh, ora che l’ho fatto, mi sono reso conto che comprare un ventilatore è stato un passo importante per me.
Comprare un elettrodomestico è diverso da qualunque altra cosa. Un po’ è l’ansia di buttare soldi in qualcosa che magari non funziona, o non è adatto alla casa e le mie necessità – insomma, è una di quelle spese che “fa mamma” e non io, e per le quali mi sento inesperto e inadeguato. Ma è solo parte della storia, perché sono anni che Katia mi suggerisce la marca che usa lei e mi fornisce tutto il feedback di cui avevo bisogno per decidere.

No, il vero fulcro della questione è che comprare un elettrodomestico è qualcosa che si fa “per la casa”. E fare qualcosa per la casa entra in contrasto con lo stato di precarietà nel quale vivo.
Abito in una casa non mia, uso mobili non miei, tutte le responsabilità delle migliorie, delle sostituzioni, delle riparazioni ricadono sulla Signora Maria perché un giorno, quasi sicuramente, io non vivrò più qui. Me ne andrò e mi lascerò tutto questo alle spalle.
E sì, un ventilatore è un elettrodomestico talmente poco ingombrante che l’ho portato a mano dal negozio senza nemmeno far fatica: nel momento in cui me ne andrò potrò portarlo via con me. Ma psicologicamente, l’idea di aver messo qualcosa di mio in casa è stata strana. È una piccola radice, un modo più profondo di rendere questo posto “mio” che non tappezzare le pareti di poster, a prescindere da quanto a lungo lo sarà. Ed è un piccolo passo per spezzare il circolo vizioso secondo il quale, finché non mi sistemo in un posto che davvero è tutto mio, non mi merito di avere più dello stretto indispensabile.
Avevo proprio bisogno non solo dell’aria fresca, ma di questo piccolo atto di gentilezza nei miei stessi confronti e di una piccola parvenza di stabilità, per quanto temporanea.

Saturday 22 June 2019

C’est le malaise du moment

A volte mi ritrovo a guardare i ragazzini della Generazione Z con quel misto di condiscendenza bonaria e nostalgia che suscitano i giovani di belle speranze, quelli che hanno ancora l’entusiasmo di buttarsi a capofitto nel mondo, quando tu hai più o meno smesso di farlo.
È un po’ una running gag, così come le battute sul fatto che, passati i trenta, sto invecchiando, che “ai miei tempi” così e colà, che non ho più l’età per mantenere uno stile di vita sociale e attivo, che questi giovinastri con la loro musicaccia e fuori dal mio cortile, eccetera.

A volte invece non mi sento ancora nemmeno adulto. E non è solo il consumo smodato di media della mia infanzia, o di quelli che ci si rifanno (con gusto, non come i remake live action Disney). Guardandoli quando eravamo piccoli, i nostri genitori sembravano capaci di gestire tutto insieme. Invece, se per caso capita un imprevisto la mattina e deve venire il tecnico, al pomeriggio non mi restano più le energie mentali per andare a fare la spesa come avevo programmato e la sera ceno da JustEat. E se e quando riuscirò a trovare un lavoro vero e stabile, come gestirò quello, la spesa, cucinare, pagare le bollette, vedere persone e trovare tempo per me stesso? Semplicemente, non è possibile affrontare tutto.
La cosa peggiore è che sembra essere un’epidemia generazionale. Ovunque mi guardi, i miei coetanei, i famosi Millennial, alcuni dei quali iniziano ormai ad andare verso i quaranta, si trovano in questa specie di limbo, sospesi fra essere ancora profondamente infantili e sentirsi vecchi nell’anima, stanchi del mondo e della vita.
Siamo una generazione sconfitta prima ancora di provare a mettere un piede davanti all’altro. Ci hanno promesso il mondo coccolandoci fino alla soglia dell’età adulta, e poi ci hanno portato via tutto per pura e semplice avidità. Il mondo che ci hanno descritto, per il quale ci hanno cresciuti, non è lo stesso che abbiamo trovato una volta “diventati adulti”. Ancora non abbiamo nemmeno preso il potere e siamo schiacciati da tutti i problemi che quelli che ci hanno preceduti hanno causato e non si sono degnati di risolvere.
Se proviamo a guardare al futuro, siamo al tempo stesso bambini spaventati lasciati a fare la fila alla cassa da mamma che ha dimenticato di prendere qualcosa, senza soldi per pagare una volta che arriva il nostro turno, sia vecchi disillusi ed esausti che non riescono più a trovare la speranza di migliorare le cose.

E no, non mi consola che mi si dica che c’è chi ha affrontato la guerra, la fame e chissà cosa, e ne è uscito. Se c’è una cosa che sai per certo della guerra è che prima o poi finisce, fosse anche la Guerra dei Cent’Anni. Da questa situazione, invece, non si vede via di fuga.

Friday 14 June 2019

Dovrei stare bene

Mi sto godendo un meritato successo su DeviantArt.
Ho partecipato a un evento fondamentale per la mia identità LGBT.
Ho trovato una nuova musa per la mia arte.
Dovrei stare bene.

Invece penso di non aver raschiato così il fondo della mia sanità mentale dal 2015, l’anno che mai avrebbe dovuto essere (ad eccezione per le quattro settimane a Calenzano).

È da poco prima del mio compleanno che mi sento così e la cosa non accenna ad andare via. Sarà che avere trent’anni e nessuna direzione certa nella mia vita mi pesa davvero.
Sarà che con la rassegnazione si può convivere finché non succede qualcosa che fa sperare: quando poi la speranza si sfalda, è difficile tornare a prima. E io ho iniziato quest’anno con tante belle aspettative, da bravo deficiente che dovrebbe aver imparato. “Suddenly it’s six months later, I’ve lost all there was to me, nowhere close to where I thought I’d be”, come canta Lauren Edman, in maniera forse meno letterale riguardo al blog stesso, ma ancora più azzeccara che nel 2013.

Il lato positivo è che almeno, scrivendo questo post, mi sto arrabbiando. Con me stesso, con la situazione in cui mi trovo, con le promesse non mantenute, con un sacco di cose. Meglio sentire rabbia che non sentire nulla. Non sarà la rabbia a farmi reagire, ma almeno mi rassicura di avere ancora un po’ di umanità dentro.

Saturday 8 June 2019

Inside the outsider

Oggi sono andato al mio primo Pride, quello di Trieste.
Per quanto sia vocale e attivo in varie community virtuali, e sia stato a molte altre manifestazioni a tema LGBTQ+, per qualche motivo al Pride sono andato per la prima volta a trent’anni suonati. Non so perché non l’abbia fatto prima: principalmente per motivi geografici, credo, anche se ammetto che saltare su un treno e andare, che so, a Venezia non sarebbe stato poi così difficile. Ma quest’anno ci tenevo particolarmente: sarà che mi sono trovato attivista su DeviantArt quasi per caso, e ho scoperto quanto liberatorio sia far sentire la propria voce su un tema così delicato, anche solo unendola a un coro più grande. O sarà che il clima di costante odio e diffidenza che si respira in Italia mi ha fatto raggiungere il punto di saturazione e non voglio esserne complice nemmeno tramite l’inattività. Comunque mi sono bardato di crema solare, ho raggiunto alcuni conoscenti, ho aspettato che la manifestazione iniziasse e l’ho seguita fino all’ultimo.

Adesso, a casa la sera, ho un po’ di mixed feelings a riguardo. Ho percepito l’importanza sia sociale sia personale di ciò che stava succedendo, ma non mi è rimasto quel forte senso di partecipazione che mi aspettavo. Ero allegro, orgoglioso di essere lì, ma non emozionato. Mi ha fatto molto piacere trovare molti conoscenti etero, da un mio modello a uno dei coinquilini, e ho stretto alcune conoscenze molto gradevoli.
Nel complesso, però, mi sono sentito un po’ un estraneo.

E no, non estraneo alla causa: quella l’ho sentita chiara e forte a livello intellettuale. Mi sono sentito estraneo alle persone intorno a me. Non so, sarà che in questo periodo riesco a sentire molto poco in generale, o che sono andato con dei conoscenti che erano già amici fra di loro, e per me è sempre molto difficile inserirmi in un gruppo già formato, ma mi sono sentito come se le emozioni del Pride mi scorressero accanto senza toccarmi davvero.
Del resto, l’ultima volta che sono andato a ballare a una serata gay avevo ancora i capelli lunghi: erano letteralmente anni che non entravo in contatto diretto con la comunità LGBTQ+ triestina. L’umorismo, i pettegolezzi, il boy-craze, li ho sentiti tutti distanti. Tant’è che, dopo aver occupato per un’oretta buona Piazza Unità come protesta contro il sindaco che non l’aveva concessa alla manifestazione, ho declinato un invito a bere qualcosa in compagnia e sono tornato a casa. Perché come al solito,
I look myself in the face
And whisper, “I’m in the wrong place”.
Is there more to lose than gain
If I go on my own again,
On my own again?

Così eccomi qui, che cerco di costringermi a essere di buon umore perché non vorrei sminuire l’importanza del mio primo Pride, ma segretamente convinto di aver fatto tutto nella speranza di lasciare una società migliore a chi verrà dopo di me, perché per me ormai è troppo tardi e non troverò mai un posto né nel mondo mainstram, né in quello LGBTQ+.
Sitting on the outside observing the fun.