Sunday 31 July 2016

Fair play

Quando una persona non mi sta particolarmente simpatica e mi pesta i piedi, ho tantissima pazienza. Mi apposto con molta calma, la studio, a volte fingo di rimanerci ancora amico, la faccio parlare, lascio cadere qualche briciola di informazione su di me – cose di poco conto che non porebbero essere usate per ferirmi – e intanto individuo con estrema cura i suoi punti deboli. Quando poi le cose si deteriorano irrimediabilmente, è lì che vado a colpire senza pietà.
Ci sono però alcune linee oltre le quali nemmeno io vado a cuor leggero: genere / orientamento sessuale, etnia / razza, disturbi mentali / nevrosi, body shaming. Sono tutti argomenti molto sensibili anche per me e so quanto sia brutto essere colpiti lì. Io la freddezza per capire quando un insulto è circostanziale e gratuito (ovvero, buttato lì appigliandosi alla prima cosa a disposizione) ce l’ho, ma si tratta di ambiti talmente sensibili che altre persone potrebbero restarne devastate. Magari sono riuscite dopo anni a superare un certo complesso e io, con un insulto buttato lì senza riguardo, rovino tutto quel lavoro in un secondo; per quanto ferire le persone che mi hanno fatto un torto mi dia piacere, non sono tanto meschino e cheap.

Ma ogni regola ha la sua eccezione: le persone che il sentiero cheap lo scelgono per prime, senza nemmeno una ragione valida e con una banalità. Perché scambiarsi scortesie sui rispettivi gusti musicali, puntando sull’emotività in ballo, è fair play, anche quando si va in piena modalità rant senza riuscire a sostenere mezza argomentazione. Ma poi c’è sempre chi si crede più intelligente e fierce e scende sul personale. A me, ripeto, queste cose scivolano addosso perché capisco che è pura ripicca, ma ciò non significa che non possa legarmela al dito. E, sinceramente, qualcuno che afferma che una certa cantante probabilmente non mi piace perché sono frustrato perché non ho una vita sessuale (detto da qualcuno che una volta mi ha mandato il suo pisello via MMS), forse non merita tanto riguardo.
Essere depressi e avere attacchi d’ansia è orribile; compensare mangiando in maniera compulsiva è ancora peggio: lo so per esperienza diretta. Di norma non lo augurerei al mio peggior nemico, ma se ci sta già dentro… Lo ammetto, una parte di me si sente meschina e cheap perché, scoprendo che una persona che mi sta eufemisticamente antipatica è diventata un facocero per la fame nervosa, la prima cosa che ho pensato è stata: BECCATI QUESTO, FIGLIO DELLA MERDA, SONO PIÙ FAVOLOSO DI TE ANCHE NELLA NEVROSI. Ma poi mi sono detto, perché non approfittarne? Del resto, proprio perché resto nella mia stessa barca, la nevrosi diventa fair play: è un po’ come quando ci si dà del frocio fra froci, c’è una certa componente autoironica. Per cui, la prossima volta che qualche bella personcina farà qualche commento sulla mia vita sessuale, potrò rispondere che la sua battuta non fa ridere visto che, soffrendo di depressione e disturbi d’ansia, la mia libido ne risente per davvero ed è per quello che faccio poco sesso. Ciò che invece fa ridere è che mi sfogo sul cibo ma RIMANGO COMUNQUE UN FOTTUTO GIUNCO e quando mi guardo allo specchio non mi faccio ribrezzo, io.

Del resto, se proprio la gente insiste a portare le faccende sul personale, chi sono io per oppormi? Posso continuare a soprassedere, come quando ho ricevuto insulti sui capelli da persone che stavano stempiando, ma se un’occasione così buona mi si presenta, perché non approfittarne? Se vogliamo giocare sul personale, io gioco fino in fondo. E me la godo anche.

Thursday 28 July 2016

Postumi da Black Dahlia


È da stamattina alle cinque, quando ho finito di leggere The Black Dahlia di James Ellroy, che mi sento vuoto, generalmente infelice, a momenti quasi in punta di lacrime; amo e odio appassionarmi così tanto ai libri proprio perché so che più corro verso le ultime pagine, più cadrò di faccia e non saprò cosa fare della mia vita non appena avrò finito. Per dire, l’anno scorso la rilettura di Gatsby (divorato, come quest’anno Dahlia, per lo più all’ombra di San Lorenzo a Firenze sulla via per il Merilend) l’ho interrotta a tre capitoli dalla fine e ripresa solo dopo qualche settimana, cosa che non potevo fare con un noir poliziesco perché a) non l’avevo mai letto prima, e b) porca miseria chi ha ucciso Elizabeth? non poteva aspettare tanto. Così ho fatto tardissimo per terminare il libro e ora niente, non mi sentivo così da anni; mi viene in mente quando ho finito Narciso e Boccadoro di Hesse nel 2009.
Forse l’analogia non è casuale e la mia mente ha fatto il collegamento perché questi due libri hanno due caratteristiche in comune: entrambi sono venati di nichilismo e sta al lettore stabilire se il viaggio dei protagonisti ne sia valso la pena, e in entrambi il tema del cameratismo virile, dell’amicizia indissolubile fra due uomini come filo conduttore, è decisamente overplayed da quelli che l’hanno letto e lo consigliano rispetto alla sua reale portata nella narrazione – sì, c’è, ma non è su quello che si regge il libro. Da qui in poi, spoiler alert su tutto, siete avvisati.


In realtà, laddove ho grosse riserve sul Narciso, ho adorato completamente la Dahlia. Anzi, i punti deboli dell’opera di Hesse sono quelli forti di Ellroy. Prendiamo l’amicizia fra Bucky e Lee: non è appena accennata e poi dimenticata come in Hesse, qui il libro si prende tutto un prologo e sei interi capitoli che dedica specificamente a loro, a definire entrambi i personaggi sebbene il narratore sia solo Bucky, stabilire come si conoscono, quali momenti salienti li portano a diventare amici, che dinamiche si instaurano fra loro, come funziona il triangolo-non-triangolo fra loro due e Kay Lake, e gettare le basi per gli sviluppi successivi. È solo a quel punto che parte la trama e arriva la Dahlia e, sebbene il rapporto sfumi e finisca sullo sfondo, lo fa con naturalezza e costruisce la tensione per il successivo colpo di scena: la sparizione di Lee. E anche dopo che i due amici finiscono per essere divisi, il rapporto continua a influenzare Bucky: il ritrovamento del cadavere di Lee è una scena talmente potente che mi vengono gli occhi lucidi a ripensarci ancora il giorno dopo (vi avevo avvisati degli spoiler). Perfino nel post-mortem Lee è importante: scoprire i torbidi segreti del suo passato non fa che rendere ogni sua successiva menzione una stilettata al cuore per il contrasto con quanto l’amicizia era positiva a inizio libro, e la complessità del rapporto fra lui, Bucky e Kay rende credibile che Bucky, inizialmente distaccato ed esasperato dal caso della Dahlia, finisca per ossessionarsene più di tutti seguendo le orme di Lee.
E poi c’è il finale dal tono ambiguo. In realtà, già tutta la seconda metà del libro lascia intendere che non sarà lieto in senso stretto: la morte di Lee è il punto di non ritorno, il momento in cui sai che le cose non saranno mai come prima. Forse, lieto, lo si può considerare potenzialmente: Bucky e Kay stanno per riunirsi e tentare di iniziare una nuova vita. Ma tutto il resto è stato completamente distrutto dalla Dahlia; Kay lo dice proprio: “She disrupted our lives and we never even knew her”. Il triangolo-non-triangolo ha perso irreparabilmente un lato con Lee; anche il lato Bucky-Kay si è spezzato del tutto e non è detto che, dopo i trascorsi, le tensioni, le bugie, le omissioni, i tradimenti, si riesca a riparare; la bella casa Art Decò è in vendita, i mobili a pezzi; la promettente carriera da detective di Bucky è distrutta, terminata con disonore; perfino personaggi che detesti fanno una pessima fine per colpa di quel caso. E poi c’è lei, Elizabeth Short: torturata, mutilata, uccisa e tagliata in due, una fine talmente agghiacciante che nessuna giustizia o vendetta potrà mai porvi rimedio – specie perché alla fine il vero colpevole la farà franca. Anche alla luce di questo, come non chiedersi: ma ne è valsa la pena? Se mesi prima l’attenzione di una certa persona non fosse ricaduta su Elizabeth, innescando la catena di eventi che hanno portato alla sua morte, quante persone ora vivrebbero meglio (o vivrebbero ancora)? È una situazione paradossale, perché è terribile osservare pagina per pagina come la vicenda della Black Dahlia non faccia che peggiorare le cose per tanti personaggi a cui ti sei affezionato, senza che alla fine ne venga fuori nulla, nulla di buono, ed essere allo stesso tempo soddisfatto perché il finale è semplicemente perfetto in termini narrativi. Non è buttato lì tanto per finire prematuramente il libro su una nota mistica come in Narciso e Boccadoro: ogni filo spezzato viene riannodato, ogni storia si consuma e finisce, e ci si ritrova semplicemente a contemplare quanto tutto, nella vita concreta, quotidiana, sia ingiusto e sbagliato perfino in un libro, anche per i personaggi che impariamo ad amare. Alcuni ci mancheranno sempre, per altri spereremo, pur sapendo che le cose non saranno mai più facili.

E niente, eccomi qui, a pezzi per Lee Blanchard, per come la sua morte ha investito anche Bucky Bleichert e Kay Lake, per come anche la sua vita ha fatto del male a Bucky, per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, come di fronte a una morte reale. E a proposito di “avrebbe potuto essere”, mi aspettavo di vedere Lee e Bucky scambiarsi idee durante le indagini, alternarsi al timone, discendere lentamente insieme nell’ossessione, e invece il romanzo ha aggirato le mie aspettative per darmi qualcosa di inaspettato e magnetico. Credo che già il fatto di aver tirato fuori un rant senza capo né coda in cui piango la morte e la vita di personaggi immaginari implichi che Ellroy ha fatto un gran bel lavoro e creato un universo a cui è facile affezionarsi e in cui è così bello perdersi.

Tuesday 26 July 2016

Piatti sporchi da lavare

Oggi fa un caldo che la metà basta; avevo in programma un giro alla Galleria dell’Accademia di Firenze con una delle persone a cui voglio più bene in assoluto, ma è saltato; la sera vado a Rifredi a prendere un’altra delle persone a cui voglio più bene in assoluto e, fino ad allora, ho del tempo da perdere; una terza persona a cui voglio più bene in assoluto, che ho visto questo week end, è già tornata a casa, così, mi sono parcheggiato all’ombra di San Lorenzo, dove il caldo dà un po’ di tregua, e mi sto gustando The Black Dahlia di Ellroy, finalmente libero dalla distrazione di internet, del lavoro, della partenza da organizzare o del troppo sonno per concentrarmi.
Ok, in realtà una distrazione c’è: suppergiù a quest’ora ricorre il decimo anniversario di uno dei grossi traumi della mia vita adulta.
Ieri era il compleanno di Luana. Quella Luana. La quale, un tempo, era una delle persone a cui volevo più bene in assoluto. Oggi è il giorno dopo il compleanno di Quella Luana.

Dieci anni fa, il compleanno di Quella Luana ricadeva di martedì: lo ricordo bene perché ero andato a trovarla nei pressi di Roma per passare qualche giorno con lei. Ero arrivato il giorno prima, un lunedì, e i piani erano di restare tre, massimo quattro giorni perché l’ospte è come il pesce – dopo tre giorni inizia a puzzare. Ma “se non resti almeno una settimana, Alessa’, mi offendo!”, e così il traghetto del ritorno (ché ancora non c’era RyanAir) l’avevo prenotato per sabato. Che cretino.
Ripensandoci, già allora non ero senza colpe; almeno una delle cose che poi Quella Luana mi ha rinfacciato era vera: ero troppo accomodante, perfino più di adesso. In quei giorni, Quella Luana aveva la luna di traverso per motivi suoi e io ho lasciato che mi usasse come punching ball emotivo: cercavo di fare da paciere fra lei e sua mamma, non l’ho presa a voci quando, il giorno del compleanno, in piscina mi ha tirato apposta un calcione all’orecchio su cui avevo appena fatto i buchi, sorridevo per gli insulti randomici… insomma, lei era quella il cui umore faceva da banderuola ed esplodeva per un nonnulla, e io ero quello che inspirava profondamente, sollevava lo scudo anti-sommossa e aspettava pazientemente che i suoi capricci fossero finiti, senza ricordarle che anch’io ero una persona e magari avrebbe potuto evitare di passarmi sopra come un carrarmato. Mentre parlavamo una sera, sua mamma fece un’osservazione molto vera: “Tu sei suo amico perché non vivi vicino a lei; la prendi a piccole dosi e la sopporti così. Ma di quelli che la sopportano tutto il giorno, fa terra bruciata subito”.

Comunque, dicevo, il dramma che avrebbe fatto collassare anni e anni di amicizia “Fratello! Sorella! Per sempre!” scoppiò mercoledì 26 luglio 2006 intorno a quest’ora. Mi ero alzato in tempo per pranzo, avevo lasciato il letto sfatto per far evaporare il sudore, mi ero messo a tavola con Quella Luana. Faceva caldo umido perfino in casa e, finito di mangiare, non si respirava. Casca la domanda fatidica: chi lava i piatti? Io o lei? Dico io: “Mmh… Non ne ho molta voglia… Magari dammi una mezz’ora che digerisco e poi vado?”
 
In cui io, come al solito, sono Margaery.

Apriti cielo. Io non faccio niente in quella casa, non faccio niente nella mia vita, non ho nemmeno rifatto il letto, sono inutile, BAM!, porta sbattuta e se ne andò al computer. I tre giorni successivi li passai per conto mio a guardare la TV (visto che in paese non c’era nulla da fare e spostarsi a Roma era un casino). La sera la passavo in veranda a sorseggiare vodka con la mamma di Quella Luana e cercare di non parlare del comportamento della figlia. Con scarso successo, vedesi osservazione di cui sopra. Lei sparita del tutto; io lì, a casa sua apposta per lei, e lei non mi parlava più per chi doveva lavare i piatti mercoledì a pranzo. La nostra amicizia è sostanzialmente finita per quello.

Nei dettagli di quel che successe dopo scendrò in un altro post, ché c’è un altro decimo anniversario in arrivo. Ma se prima ho parlato di “trauma”, non era proprio un’iperbole: quell’avvenimento mi ha segnato profondamente. È da allora che provo sempre un certo disagio a chiedere o ricevere ospitalità, soprattutto per più giorni. Ho costantemente paura di essere di troppo e non gradito, di star scroccando, e che chi mi ospita abbia accettato per pura formalità sperando che poi mi tirassi indietro e gli risparmiassi il peso della mia presenza in casa. Sono davvero ossessivo nel cercare di rendermi utile, come se fare le cose in casa significasse che, dopo tutto, non sono completamente inutile lì. C’è da apparecchiare? Dove sono le posate, le prendo? Posso dare una mano a tagliare qualcosa? Rimesto nella pentola mentre fai altro? Metto a scaldare? Sparecchio? Ti passo il piatto? Vuoi che li lavi io i piatti? Ma ti aiuto a spolverare? Cristoddio, dammi qualcosa da fare perché se sto seduto qui mentre tu fai le cose in casa di sicuro finisce che un’altra amicizia mi va a puttane.

E sì, col senno di poi lo capisco che la mia amicizia con Quella Luana non è finita per i piatti sporchi da lavare, ma perché era sbilanciata in partenza. Che non abbiamo litigato per il letto sfatto, ma perché lei era una dannata psicopatica e io lasciavo che mi usasse come sfiatatoio. E anche che ho avuto la mia fetta enorme di colpa, dopo, nel non averle esternato quel che pensavo (e sì, aveva ragione a dire che sono troppo passivo nei litigi) e spiegato chiro, tondo e subito perché, dal mio punto di vista, l’amicizia non era più recuperabile, invece che procrastinarla per mesi e mesi.
Resta però il fatto che, da allora, misuro il mio diritto di stare al mondo in base a ciò che posso fare per rendere la mia presenza a casa d’altri il meno disagevole possibile. Non c’è quindi da sorprendersi se la mia musofobia sia andata alle stelle nelle scorse settimane, visto che dovevo mettermi in una situazione – essere ospitato – che nella mia testa è fonte di conflitto totalizzante.
Comunque questo week end ho visto BriarRose, ieri ho visto Francischino e stasera finalmente vedo Katia; è un anniversario tondo di un avvenimento funesto, ma sono quattro giorni e mezzo che sono ospite della famiglia di Katia, mi trovo a provocare disagio (grazie agli scioperi di Trenitalia), eppure non sembrano infastiditi dalla mia presenza. Forse perché hanno la lavastoviglie e i piatti sporchi vanno lì?
Se non altro, anniversario non ti temo: è solo uno stupido litigio di uno stupido, afoso pomeriggio di dieci anni fa, non è un cattivo augurio. Razionalmente l’ho capito: le persone che ho intorno ora sono molto più salubri e di sicuro non scateneranno la terza guerra mondiale se mi cade un tovagliolo per terra. Forse è arrivato il momento di sepellire il fantasma di Quella Luana e convincermi che, in cambio dell’ospitalità, offro una compagnia tutto sommato piacevole.

Wednesday 20 July 2016

Musofobia

Musofobia
[mu-so-fo-bì-a] n.f.
pl. -e
Anche: murofobia, muridofobia, surifobia.
Paura irrazionale e sproporzionata verso topi o roditori in generale, ben distinta dalla ragionevole preoccupazione di natura igienica. È una delle fobie specifiche più diffuse.
Etimologia: ← dal gr. μῦς (mys) ‘topo’ + φόβος ‎(phóbos) ‘paura’;
Oggi ho deciso di parlare al terapeuta della mia fobia dei topi. Non è una novità e ci convivo più o meno da tutta la vita (ricordo che a quattro anni, una sera, vidi un topo morto sotto casa andando alle giostre e mi misi a piangere dalla paura; fortuna che poi c’erano i dischi volanti). Il problema è che ultimamente mi sta davvero sfuggendo di mano, ma proprio in maniera preoccupante.
Nel corso degli ultimi anni, qualche incontro ravvicinato di troppo con i topi l’ho avuto. Principalmente morti, e ben tre volte intorno allo stesso punto. L’ultimo che ho visto aveva proprio il cervello spalmato sul marciapiede ed è stato particolarmente disgustoso. Di solito, però, nel giro di un giorno l’attacco d’ansia mi passa e smetto di aver paura di trovarmi topi dappertutto; stavolta, invece, va avanti da settimane senza che abbia visto un topo da mesi. E non è solo il nervosismo di passare vicino ai cassonetti, ai muretti a secco, ai cancelli che danno sui cortili abbandonati, alla cantina con il vetro rotto… è che inizio ad avere delle allucinazioni. Qualsiasi cosa fuori posto che compare nel mio campo visivo periferico, nella mia testa diventa automaticamente un topo. Vedo una macchia scura di gasolio sull’asfalto con la coda dell’occhio? È un topo. Si muove una foglia sul marciapiede mentre sto guardando di lato? È un topo. Sacchetti mossi dal vento, o anche completamente fermi, cartacce… la prima cosa che il mio cervello pensa non è che la strada è piena di roba, è: “Pericolo! Topo! Fuggire! Ah no, falso allarme, è una cosa inoffensiva”.

Seguendo uno dei suoi metodi un tantino Wiccan Scoppiati che adoro, il terapeuta è riuscito a rintracciare una possibile spiegazione di questa mia fobia. Un metodo “alternativo” consigliato per alleviarla è infatti il magnesio muriatico. Il tipo di personalità collegata al magnesio muriatico prevede: un’avversione quasi esagerata verso il conflitto e un desiderio di pace, dettati per lo più dalla paura di perdere le persone care; una spiccata tendenza a mediare e smorzare i toni per evitare di urtare gli altri; detestare di vedere conflitti nascere fra conoscenti, parenti o partner, al punto di danneggiare se stessi per non creare tensione. D’altro canto, tutto ciò nasconde un’enorme aggressività repressa: il tipo “magnesio” tende a vivere con distacco le emozioni, soprattutto quelle negative, reprimere la rabbia e il dolore, finché poi non esplodono improvvisamente e con più violenza del dovuto.
Sounds familiar?

Se davvero alla base della mia fobia dei topi c’è una sostanziale incapacità di affrontare costruttivamente i conflitti, non c’è da sorprendersi se in queste settimane abbia raggiunto livelli allarmanti: ho continuato a procrastinare la definizione dei dettagli del mio soggiorno in Toscana per paura di chiedere ospitalità. Per tutta una serie di motivi (per eviscerare i quali ci sarà un’occasione perfetta fra un po’), chiedere ospitalità mi causa disagio perché ho sempre paura che finisca per logorare i rapporti con chi mi ospita. Quindi, fra lo stress dell’incertezza di cosa avrei fatto in Toscana e quello della causa diretta di quest’incertezza, è piuttosto logico che la fobia collegata mi sia sfuggita di mano.
Beh, a tre giorni dalla partenza ho finalmente definito tutto e non mi resta che buttarmi. Chissà che, eliminata la fonte di stress sul breve termine e demistificata la radice della fobia sul lungo, non riesca a tornare a una salubre repulsione per i topi senza più vederli anche dove non ci sono.

Friday 8 July 2016

Perché il finale di Penny Dreadful è caduto di faccia

Che dire? Sono (stato?) un fan di Once Upon A Time: so cosa vuol dire vedere un’ottima idea tirata per le lunghe fino a mandarla in malora. Ho visto soluzioni narrative ripetute fino a diventare ridicole, cambi di rotta improvvisati perché l’occasione era buona senza curarsi della coerenza, personaggi inseriti per fare contento il pubblico, errori di continuità grossolani che servono alla sottotrama contingente fregandosene di quella generale e storyline assolutamente ridicole infilate lì perché si è a corto di idee. Se c’è qualcosa che Once Upon A Time mi ha insegnato è che preferisco riguardare fino alla nausea due, tre stagioni fatte bene piuttosto che seguire per cinque, sei, sette anni uno show che va avanti per inerzia. E qui arriviamo a Penny Dreadful.


Penny Dreadful doveva finire? Sì, non c’è dubbio: con un presupposto simile a Once Upon A Time – vari personaggi classici raccolti intorno a uno originale e inseriti in un arco narrativo del tutto nuovo che incorpora riferimenti alle loro storie d’origine – il rischio di seguirne le orme è alto nonostante l’esecuzione sia su tutt’altro livello. Per quanto mi sia affezionato a Vanessa, Victor, Ethan, Sir Malcolm, Lily e tutto il cast, vederli affrontare nuovi antagonisti sempre più potenti e inverosimili fino a perdere ogni coerenza con l’idea originale solo per poter trascorrere ancora qualche anno con loro… meh, preferisco ricordarli all’apice piuttosto che in lento declino. Hanno sconfitto prima Lucifero e poi suo fratello: cosa può esserci oltre questo?
Penny Dreadful doveva finire in questo modo? Sì: è stato emotivamente devastante ma, proprio per questo, soddisfacente; è stato anche coerente con la mitologia della serie, la psicologia di Vanessa e la sua funzione narrativa di eroina tragica. Un lieto fine convenzionale avrebbe appagato il pubblico, ma forse rovinato il personaggio. Non saprei, entriamo nel regno dei what if. Comunque, in un certo senso per lei è stato un lieto fine, l’unico che immaginasse possibile, e ha dato una degna chiusura al suo arco narrativo.
Penny Dreadful doveva finire ora? No. Decisamente no.
Spoiler alert mentre eviscero il perché.

Il fatto è semplice: fin dal primo episodio della terza stagione, l’impressione era che questa fosse una “prima parte”, una metà che introduce un arco narrativo di due stagioni. Iniziamo con tutti i personaggi sparpagliati per il mondo che tentano di vivere individualmente senza che le cose vadano come dovrebbero; la progressione naturale sarebbe stata che, nel finale della terza stagione, ci fosse un grande turning point che li spingesse a concludere le trame individuali che li tengono separati per convergere verso Vanessa e il centro dell’azione, in tempo e ben motivati per il gran finale. La quarta stagione avrebbe dovuto esplorare i motivi per cui la lotta di Vanessa è anche la loro, cosa c’è in ballo per loro personalmente e concludere degnamente la serie. Fare entrambe le cose in una sola stagione, oltretutto più corta, è semplicemente impossibile: lo dimostrano gli archi narrativi di Ethan e Victor, i cui punti forti e deboli sono opposti e complementari.
Da una parte abbiamo Ethan. Lo vediamo combattere contro la tentazione e la sua oscurità interiore, immergercisi per poi ripensarci e tornare indietro da Vanessa. Solo che l’intero arco di “Dark Ethan” è stato compresso eccessivamente per dargli il tempo di tornare a Londra in maniera credibile. Lo vediamo comportarsi da bulletto-slash-figlio-petulante per mezzo episodio e questo è quanto: non ci soffermiamo mai davvero sulle conseguenze delle sue azioni, su cosa gli faccia capire che andare appresso a Hecate sia sbagliato e non liberatorio come pensa, su come la cosa ferisca Sir Malcolm e Kaetenay; sa che il bene è bene, il male e male, e sceglie così, da un momento all’altro. Sa, non arriva a comprendere, e il pubblico deve vedere, deve partecipare a quel processo perché abbia un significato. Lo vediamo maturare dopo il suo viaggio nell’oscurità? Lo vediamo affrontare le conseguenze del suo momento di debolezza? No, c’è troppa fretta di metterlo sulla prima nave in partenza per Londra per soffermarsi sul suo sviluppo come personaggio.
Dall’altra parte abbiamo Victor. Lui trascorre tutta la stagione isolato dalla trama principale a capire cosa renda sia lui sia le sue creature umani e cosa li accomuni come mostri. Lo vediamo maturare, comprendere i suoi errori, imparare a rispettare la vita, quella naturale e quella che lui ha creato, accettare la propria sofferenza e quella altrui come parte formante del carattere e diventare una persona migliore. E poi? Semplicemente si trova nel posto giusto al momento giusto per tornare in azione. Praticamente sbatte il naso contro Sir Malcolm e gli altri e: “Oh, ciao Victor, che combinazione. Stiamo andando a salvare Vanessa, il mondo e poi prenderci una tazza di tè: hai mica da fare stasera? Vuoi unirti?”. Il suo arco narrativo si integra in quello generale? Ciò che ha imparato come personaggio ha rilevanza nella trama principale? Lo vediamo decidere di unirsi ai Dreadvengers perché, avendo capito il valore della vita, non vuole che la fine del mondo lo distrugga? Perché Vanessa significa molto per lui? No, perché non c’è tempo per esplorare le sue motivazioni!
La parte di Victor la trovo particolarmente frustrante perché la seconda stagione si è presa tutto il tempo per costruire l’amicizia fra Vanessa e Victor senza che la cosa sia andata da nessuna parte. Li vediamo condividere momenti felici, altri tristi, confidenze, delusioni e speranze, e la cosa finisce lì. Alla fine della scorsa stagione, in un momento in cui entrambi hanno perso tutto, non vanno a cercare conforto l’uno nell’altra nonostante il legame che lo show si è preso tempo per stabilire. Non si vedono più per il resto della serie, Vanessa non sa nulla delle magagne di Victor, Victor non sa nulla di quelle di Vanessa. Non c’è nessuna scena in cui Victor pensa di essere stato troppo preso dal fare la cosa sbagliata per sé e non esserci stato per Vanessa, che la sua assenza abbia contribuito alla crisi, non c’è nessuna scena in cui cerca di non lasciarla da sola senza sapere cosa stia succedendo ma la tentazione per Vanessa è troppo forte e cede a Dracula e DIO MIO QUANTO POTENZIALE SPRECATO.
 
More of this? PRETTY PLEASE? No? Oh well.
E poi vai a vedre, qual è l’unico arco che non sembra concluso in fretta e furia? Ma Dorian Gray e Lily, ovviamente. Non essendo minimamente toccati dalla trama principale, hanno avuto tutto il tempo per la loro chiusura e non c’è stato bisogno di inventarsi un modo forzato per reintegrarli nella trama principale dopo una stagione per conto loro. Qui potrei aprire una digressione su perché non ci abbiano nemmeno provato, e la grande pecca narrativa della serie – l’inutilità di Dorian Gray, che è servito solo come plot device nella prima stagione e poi palesemente non sapevano che fare di lui, ma hanno continuato a dargli sottotrame irrilevanti perché Reeve Carney era un main e dovevano dargli delle scene – ma non è un discorso per questo momento. Diciamo solo che è l’ennesima dimostrazione che, per terminare degnamente una sottotrama, non rimane tempo per far tornare i personaggi coinvolti nell’orbita di Vanessa.
E che dire dei nuovi personaggi, dei quali l’unico che funziona a dovere è Kaetenay? Il Dottor Jekyll a.k.a. Lord Hyde parte pieno di potenziale ma alla fine è solo un complemento d’arredo per la storia di Victor. La Dottoressa Seward ce la fa… quasi: ha tutto il tempo e le motivazioni per affezionarsi a Vanessa e entrare nel suo mondo, è credibile che alla fine decida di rischiare la vita per lei, ma come? È una scettica convinta che passa da non essere sicura che quelle di Vanessa siano solo allucinazioni ad accettare il soprannaturale in quanto, mezzo episodio? Perché vede delle rane che escono da un lavandino? È una vergogna che un personaggio fantastico come lei abbia avuto poche scene per compiere un viaggio di scoperta e accettazione che altri personaggi compiono in due stagioni e mezza.
Catriona, poi, è la poster child del potenziale sprecato. È un altro personaggio fantastico. Ce lo fanno annusare in tutti i modi, che è un personaggio fantastico. Ma cosa sappiamo di lei? Niente. Non è sorprendente che a molti sia sembrata solo una power player bravissima in tutto, che sa lottare meglio degli altri, conosce il soprannaturale più degli altri, fa deduzioni complicate come se fossero le tabelline, è una Strong Independent Woman™ e serve solo ad accelerare la trama: non trascorriamo tempo con lei, non vediamo come abbia iniziato a sfidare le convenzioni di genere della sua epoca, come abbia imparato a lottare, come abbia scoperto del soprannaturale, perché ci creda… niente. Sembra solo una Mary Sue che arriva fatta e finita, più efficiente di personaggi che conosciamo bene ma senza esserselo “guadagnato” su schermo, ed è un peccato.

E poi ci sono Vanessa e il finale vero e proprio. Tematicamente, come chiusura è perfetta per un personaggio come lei. Ma… scusate, mi ricordate come mai vuole morire?
Abbiamo trascorso tre stagioni esplorando la psiche di Vanessa, con interi episodi dedicati a lei, le sue emozioni, le sue motivazioni, i suoi momenti oscuri e come ha trovato la forza di uscirne: davvero, davvero non riusciamo a dedicare un episodio al suo Grande Momento Più Oscuro Di Tutti? Vediamo le conseguenze che la scelta di Vanessa ha sul mondo intero, ma non quelle che ha su di lei. Non la vediamo mentre si rende conto che i suoi cinque minuti di felicità e libertà con Dracula rischiano di distruggere i suoi cari, tutto il mondo e, soprattutto, tutti i principi per i quali è vissuta. Non la vediamo mentre capisce che quel momento di debolezza ha reso vani anni e anni di lotte e non ne è valso la pena. Non la vediamo scivolare nel senso di colpa e realizzare che l’unico modo per salvare tutti compresa se stessa è il sacrificio.
Certo, sono tutte cose che possiamo dedurre avendo conosciuto il personaggio per tre stagioni, ma quanto, quanto sarebbe stato emotivamente d’impatto tutto ciò? Quanto sarebbe stato struggente vedere il personaggio che più di tutti accetta le sue responsabilità quando fa un errore e soffre per la colpa, affrontare il più grande errore di tutta la sua vita? Quanto un episodio dedicato a Vanessa che subisce le conseguenze della sua scelta e matura la decisione di trovare la libertà con il sacrificio, come Giovanna d’Arco, avrebbe reso la scena nella stanza delle candele ancora più tragica e potente? E se, a suo tempo, Ethan avesse affrontato le conseguenze del suo breve viaggio nell’oscurità, quanto avremmo potuto immedesimarci di più nel suo enorme dilemma fra voler stare con la donna che ama e sapere per esperienza diretta che il sacrificio è l’unica cosa che possa farla stare bene, e decidere per questo di assecondarla e ucciderla?
Certo, ho avuto gli occhi lucidi per tutta la scena, ma se lo show si fosse preso il tempo di esplorare di più la psiche dei personaggi e l’impatto che quella situazione ha su di loro personalmente, porca miseria, avrei pianto per tutta la settimana successiva!

Quindi, che John Logan dica che questo era il finale che aveva in mente sin dall’inizio per Penny Dreadful, posso crederlo: è soddisfacente in termini di trama e personaggi, e forse l’unico davvero appropriato. Ma che non mi venga a dire che l’aveva programmato così, dopo una terza stagione che più narrativamente sbilanciata non si può. Non so cosa sia successo, se la Showtime abbia deciso di cancellarlo all’ultimo, ma di sicuro è successo tutto troppo in fretta. Ed è un vero peccato, perché Penny Dreadful avrebbe potuto essere quello show enorme dall’inizio alla fine, con una terza stagione lenta ma che ha messo le fondamenta per un finale davvero strappacuore che nessuno dimenticherà.
Certo, anche essere una grande serie con un finale buono negli intenti ma pasticciato nell’esecuzione è più di quanto molte serie possano vantare, ma tutto quel potenziale sprecato è davvero amareggiante.