È da stamattina alle cinque, quando ho finito di leggere The Black Dahlia di James Ellroy, che mi sento vuoto, generalmente infelice, a momenti quasi in punta di lacrime; amo e odio appassionarmi così tanto ai libri proprio perché so che più corro verso le ultime pagine, più cadrò di faccia e non saprò cosa fare della mia vita non appena avrò finito. Per dire, l’anno scorso la rilettura di Gatsby (divorato, come quest’anno Dahlia, per lo più all’ombra di San Lorenzo a Firenze sulla via per il Merilend) l’ho interrotta a tre capitoli dalla fine e ripresa solo dopo qualche settimana, cosa che non potevo fare con un noir poliziesco perché a) non l’avevo mai letto prima, e b) porca miseria chi ha ucciso Elizabeth? non poteva aspettare tanto. Così ho fatto tardissimo per terminare il libro e ora niente, non mi sentivo così da anni; mi viene in mente quando ho finito Narciso e Boccadoro di Hesse nel 2009.
Forse l’analogia non è casuale e la mia mente ha fatto il collegamento perché questi due libri hanno due caratteristiche in comune: entrambi sono venati di nichilismo e sta al lettore stabilire se il viaggio dei protagonisti ne sia valso la pena, e in entrambi il tema del cameratismo virile, dell’amicizia indissolubile fra due uomini come filo conduttore, è decisamente overplayed da quelli che l’hanno letto e lo consigliano rispetto alla sua reale portata nella narrazione – sì, c’è, ma non è su quello che si regge il libro. Da qui in poi, spoiler alert su tutto, siete avvisati.
In realtà, laddove ho grosse riserve sul Narciso, ho adorato completamente la Dahlia. Anzi, i punti deboli dell’opera di Hesse sono quelli forti di Ellroy. Prendiamo l’amicizia fra Bucky e Lee: non è appena accennata e poi dimenticata come in Hesse, qui il libro si prende tutto un prologo e sei interi capitoli che dedica specificamente a loro, a definire entrambi i personaggi sebbene il narratore sia solo Bucky, stabilire come si conoscono, quali momenti salienti li portano a diventare amici, che dinamiche si instaurano fra loro, come funziona il triangolo-non-triangolo fra loro due e Kay Lake, e gettare le basi per gli sviluppi successivi. È solo a quel punto che parte la trama e arriva la Dahlia e, sebbene il rapporto sfumi e finisca sullo sfondo, lo fa con naturalezza e costruisce la tensione per il successivo colpo di scena: la sparizione di Lee. E anche dopo che i due amici finiscono per essere divisi, il rapporto continua a influenzare Bucky: il ritrovamento del cadavere di Lee è una scena talmente potente che mi vengono gli occhi lucidi a ripensarci ancora il giorno dopo (vi avevo avvisati degli spoiler). Perfino nel post-mortem Lee è importante: scoprire i torbidi segreti del suo passato non fa che rendere ogni sua successiva menzione una stilettata al cuore per il contrasto con quanto l’amicizia era positiva a inizio libro, e la complessità del rapporto fra lui, Bucky e Kay rende credibile che Bucky, inizialmente distaccato ed esasperato dal caso della Dahlia, finisca per ossessionarsene più di tutti seguendo le orme di Lee.
E poi c’è il finale dal tono ambiguo. In realtà, già tutta la seconda metà del libro lascia intendere che non sarà lieto in senso stretto: la morte di Lee è il punto di non ritorno, il momento in cui sai che le cose non saranno mai come prima. Forse, lieto, lo si può considerare potenzialmente: Bucky e Kay stanno per riunirsi e tentare di iniziare una nuova vita. Ma tutto il resto è stato completamente distrutto dalla Dahlia; Kay lo dice proprio: “She disrupted our lives and we never even knew her”. Il triangolo-non-triangolo ha perso irreparabilmente un lato con Lee; anche il lato Bucky-Kay si è spezzato del tutto e non è detto che, dopo i trascorsi, le tensioni, le bugie, le omissioni, i tradimenti, si riesca a riparare; la bella casa Art Decò è in vendita, i mobili a pezzi; la promettente carriera da detective di Bucky è distrutta, terminata con disonore; perfino personaggi che detesti fanno una pessima fine per colpa di quel caso. E poi c’è lei, Elizabeth Short: torturata, mutilata, uccisa e tagliata in due, una fine talmente agghiacciante che nessuna giustizia o vendetta potrà mai porvi rimedio – specie perché alla fine il vero colpevole la farà franca. Anche alla luce di questo, come non chiedersi: ma ne è valsa la pena? Se mesi prima l’attenzione di una certa persona non fosse ricaduta su Elizabeth, innescando la catena di eventi che hanno portato alla sua morte, quante persone ora vivrebbero meglio (o vivrebbero ancora)? È una situazione paradossale, perché è terribile osservare pagina per pagina come la vicenda della Black Dahlia non faccia che peggiorare le cose per tanti personaggi a cui ti sei affezionato, senza che alla fine ne venga fuori nulla, nulla di buono, ed essere allo stesso tempo soddisfatto perché il finale è semplicemente perfetto in termini narrativi. Non è buttato lì tanto per finire prematuramente il libro su una nota mistica come in Narciso e Boccadoro: ogni filo spezzato viene riannodato, ogni storia si consuma e finisce, e ci si ritrova semplicemente a contemplare quanto tutto, nella vita concreta, quotidiana, sia ingiusto e sbagliato perfino in un libro, anche per i personaggi che impariamo ad amare. Alcuni ci mancheranno sempre, per altri spereremo, pur sapendo che le cose non saranno mai più facili.
E niente, eccomi qui, a pezzi per Lee Blanchard, per come la sua morte ha investito anche Bucky Bleichert e Kay Lake, per come anche la sua vita ha fatto del male a Bucky, per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, come di fronte a una morte reale. E a proposito di “avrebbe potuto essere”, mi aspettavo di vedere Lee e Bucky scambiarsi idee durante le indagini, alternarsi al timone, discendere lentamente insieme nell’ossessione, e invece il romanzo ha aggirato le mie aspettative per darmi qualcosa di inaspettato e magnetico. Credo che già il fatto di aver tirato fuori un rant senza capo né coda in cui piango la morte e la vita di personaggi immaginari implichi che Ellroy ha fatto un gran bel lavoro e creato un universo a cui è facile affezionarsi e in cui è così bello perdersi.
E niente, eccomi qui, a pezzi per Lee Blanchard, per come la sua morte ha investito anche Bucky Bleichert e Kay Lake, per come anche la sua vita ha fatto del male a Bucky, per tutto ciò che avrebbe potuto essere e non è stato, come di fronte a una morte reale. E a proposito di “avrebbe potuto essere”, mi aspettavo di vedere Lee e Bucky scambiarsi idee durante le indagini, alternarsi al timone, discendere lentamente insieme nell’ossessione, e invece il romanzo ha aggirato le mie aspettative per darmi qualcosa di inaspettato e magnetico. Credo che già il fatto di aver tirato fuori un rant senza capo né coda in cui piango la morte e la vita di personaggi immaginari implichi che Ellroy ha fatto un gran bel lavoro e creato un universo a cui è facile affezionarsi e in cui è così bello perdersi.
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