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Wednesday, 22 December 2021

Ritorno ad Asburgo?

Martedì 21 dicembre, ore 2:15 circa.
Vado a controllare come sta la Mater: sta bene, non ha la febbre, non ha mal di testa, non ha crampi da disidratazione, so far so good. Si alza anche da sola per andare in bagno senza problemi, perdita di equilibrio o simili. Sono passate circa dodici ore dall’inoculazione della terza dose di Moderna e sembra che il richiamo non sia poi così apocalittico rispetto alla seconda dose.
Rassicurato che non sembri avere bisogno di nulla e io possa quindi dedicarmi alla mia oretta e mezza di musica immersiva senza il rischio di essere interrotto, le porto un bicchiere d’acqua e torno in camera mia, speranzoso che la mia terza dose, che mi inoculeranno mercoledì 22, non mi faccia stare male come la seconda.

Ore 12:45 circa.
La Mater mi sveglia chiedendomi se posso preparare io il pranzo a entrambi: a metà mattinata le è salita la febbre quasi a 38 e, anche con una Tachipirina, si sente uno straccio. Mi prendo i miei venti minuti d’ordinanza per smaltire il trauma di essermi svegliato vivo anche oggi, dopo di che mi metto ai fornelli.
Le speranze di cavarmela a buon mercato l’indomani sono bellamente sparite.

Ore 17:50.
La Mater ha dormito profondamente tutto il pomeriggio. La sveglio perché vuole farsi l’ora di spotlight di Snover con doppia exp da cattura per fare punteggio su Pokémon Go. Sta meglio ma è disidratata e le viene un crampo al piede. Ha ancora un certo mal di testa.
Il dopodomani mi sorride sempre di più. In compenso, faccio il livello 48 su PoGo e poi aiuto lei a salire un po’ di punteggio facendo i tiri eccellenti.

Ore 20:30.
La Mater ha una nausea tale che la sola vista della carne che mi sto cucinando le fa venire un conato. Tenta di farsi un kisiel per cena e non riesce nemmeno a terminarne una tazza. Ha costanti capogiri, non riesce a mantenere l’equilibrio e anche solo alzarsi dal divano al tavolo le sembra una fatica insormontabile.

Mercoledì 22 dicembre, ore 01:30 circa.
La Mater è ancora in piedi al computer; apparentemente le è passato tutto – come da prassi in uno schiocco di dita, all’improvviso. Tanto meglio.

Ore 11:55.
La Mater ha di nuovo pero il senso del gusto: tutto ciò che mangia le sembra erba o cartone. Alla meglio (o peggio?) ha un retrogusto amaro. Andiamo bene. Io sto mangiando più presto del solito in modo da recarmi allo hub e sperare di non fare sera in attesa del mio boost.
 
Ore 13:39.
La disorganizzazione allo hub è stata minore del previsto (o della scorsa estate), in circa un’oretta ho sbrigato scartoffie, fila, inoculazione e periodo d'attesa in caso di. Non mi resta che tornare a casa.

Ore 17:09.
Inizio ad accusare i primi sintomi: spossatezza, difficoltà di concentrazione, antipatia generale per la vita – voglio dire, più del solito. È piuttosto presto, speravo di mantenere un po’ più di autonomia e non so bene cosa aspettarmi.
Visto che le altre volte la Mater ed io abbiamo avuto sintomi molto simili e lei si è presa un’altra mazzata, mi preparo a passare un’altra notte di delirio febbrile convinto che il mio cuscino sia il Castello di Asburgo. L’unica consolazione è, ancora una volta, che durerà massimo quarantott’ore e poi sparirà, a differenza del virus che può durare settimane e lasciare danni permanenti. Su quello continuano a non esserci dubbi.

Thursday, 16 September 2021

XV

Non scrivo il super cheesy post di “auguri” per il compleanno del blog dal 2016, il decennale dell’apertura. E anche prima, mi sono accorto ricontrollando il mese di settembre di ciascun anno, dopo il 2013 (l’anno del “ritorno”) ho più o meno lasciato perdere. In fondo, i modi di parafrasare “Ho aperto un blog tot anni fa, grazie a / per colpa di esso sono successe queste e queste cose, nell’anno del Signore 20xy continuo imperterrito a scriverci da vecchio Millennial bacucco quale sono” non sono illimitati.
Però ho un po’ la fissa delle “cifre tonde”, ovvero i multipli di cinque, per cui ho pensato che i quindici anni – quindici! – di attività di GothicDoor meritassero almeno una menzione en passant, ed eccoci qui. L’unica è che non ho voglia di cercare una foto di quindici candeline, anche perché è il caso di contenere il cringe.
 
Non avendo voglia di lanciarmi in sentimentalismi, miele o maratone di ricordi, stavo invece riflettendo sui numeri del blog. Non nel senso di traffico – mi rendo conto che GothicDoor è la mia personalissima vox clamantis in deserto, scrivo principalmente per me stesso – quanto di post, attività, anni di esistenza eccetera.
Ad esempio, continuo a pensare a GothicDoor come un blog esule di Splinder, ma non mi ero soffermato a riflettere sul fatto che ormai è su Blogspot da ben nove anni, paragonati ai cinque su Splinder. D’altro canto, il totale dei post degli anni su Blogspot è tuttora notevolmente inferiore rispetto a quello di Splinder, quando bloggavo in continuazione sulla qualunque, quindi forse non è scorretto identificare il blog in base a quello che è stato il suo “periodo d’oro” (almeno per quantità; qualitativamente, meno post significa che scrivo di cose più serie).
 
Comunque il succo del discorso è che, quindici anni dopo, con calma (un sacco di post salvati in bozze, terminati poi e pubblicati a posteriori nella data d’inizio) ma inossidabile costanza, sono ancora qui a scrivere muri di testo invece che fare i balletti su TikTok. Poi critico gli hipster che ascoltano ancora i vinili.
Preferisco non scrivere nulla sulle mie aspettative circa la longevità di GothicDoor, visto che il rischio di fare la Margaery di turno è sempre dietro l’angolo, ma sono sinceramente affezionato a questo posto.
 
Auguri, GothicDoor.

Saturday, 14 August 2021

Protectio memoriae

In un esercizio di assoluta futilità e pettiness, ho iniziato da un paio di giorni a togliere i tag della Ciospa a tutti i vecchi post su Facebook che li contenevano.
A dirla tutta, il vero motivo per cui non l’avevo fatto già gli anni scorsi è il ridottissimo tempo che dedicavo a quell’incubo di social network, figurarsi se avevo voglia di scavare tra i post passati. Ma dato che quest’anno Zuckerberg ha deciso di spammarmi i ricordi sotto forma di notifica quotidiana, probabilmente in un disperato tentativo di farmi trascorrere più tempo sulla sua piattaforma, ho ricominciato a scorrerli anche solo per levarmi la notifica, provando fastidio ogni volta che vedevo la Ciospa taggata.
Così ho deciso di intervenire caso per caso: basta uno schiocco di dita e voila, damnatio memoriae.
A volte lo faccio subito dopo mezzanotte, così che, se apre la pagina, dei suoi ricordi, non li troverà sicuramente. A volte me ne dimentico, e mi chiedo se l’anno prossimo si accorgerà che manca qualcosa.

Che poi mi chiedo: è davvero pettiness, la mia?
A muovermi è una specie di pudore. Si tratta dei miei ricordi, in fondo, e non voglio che una persona che si è dimostrata immeritevole del mio affetto e della mia considerazione vi abbia accesso.
È diverso rispetto alle foto: quelle, per quanto cariche di ricordi, hanno un valore primariamente artistico ed espressivo; c’è stato del lavoro da parte sua (per quanto, spesso, riluttante) ed è una cosa che rispetto.
Ma i post di cazzeggio su Facebook… quelli no. Non ha diritto di riviverli con me. Mi sono trovato spesso a sorridere per la nostalgia o perché dicevamo e facevamo cose genuinamente divertenti, e subito ho pensato che no, non si merita di sorridere e ricordare anche lei: ha perso quel diritto quando ha deciso di ignorare ciò che avevo da dirle per cercare di uscirne pulita.

Alla fine, forse non è nemmeno davvero una damnatio, quanto piuttosto una protectio memoriae. Lei ha fatto la sua scelta quando ha deciso di darmi per scontato pensando che non ci sarebbero state conseguenze. Ebbene, anche queste lo sono: mi riprendo l’esclusiva sui momenti di amicizia, visto che ormai posso essere certo della loro genuinità solo da parte mia.

Thursday, 13 May 2021

La rivalsa

Oggi ho incontrato la mia professoressa di italiano e latino del biennio proprio sotto casa mia. Ci ho impiegato un attimo a riconoscerla con la mascherina, mentre lei, una volta che l’ho salutata, è andata a colpo sicuro: nome e cognome, sezione, anno in cui è stata la mia insegnante. Che, detto francamente, è stata una grande rivalsa dopo l’incidente del mese scorso.
E a dirla tutta, mi ha fatto piacere che non solo si ricordasse di me, ma che il ricordo fosse buono. Del resto, tolta la primissima versione, sono sempre stato uno studente da nove e dieci in latino. E sono anche un po’ sorpreso del fatto che pure io la ricordi con affetto, nonostante di primo acchito non mi venga molto di buono da dire sul corpo docente del liceo. Certo, un po’ mi brucerà sempre quell’8- alla prima versione di latino, specie il meno dovuto a un errore che non avevo fatto, spesso faceva delle freddure agghiaccianti, e oggettivamente era un po’ noiosa quando leggeva i Promessi Sposi, ma ha avuto anche tanti bei momenti con noi. Come dimenticare il suo ritornello, “Come si fa a capire con quale dei significati tradurre una parola? Dal connnnnntesto”, con tanto di mani parate davanti? O ancora, l’intramontabile: “Vis. Roboris. Robori. VIM, come il detersivo per pavimenti”.
E comunque, è stata una professoressa severa, sì, con la manica strettissima per i voti, ma che non si è mai tirata indietro dal riconoscere il valore di uno studente.
A parte quell’8- alla prima versione che… ugh.

No, allora, la frase era qualcosa tipo: “La Grecia non è una terra molto feconda, ma è bellissima per…” e lì c’era “clarae memoriae”, che io ho tradotto come “famosi monumenti” perché il quarto o quinto significato di “memoria, memoriae” era proprio “monumento”. Ma no, secondo la prof, la Grecia è una terra bellissima per le famose memorie. Come fa una memoria a essere famosa? “Monumento” era una traduzione corretta e pure più appropriata dato il suo adorato connnnnntesto.
 
Vabbè. Anche se questo rancore non mi abbandonerà mai come tutti gli altri, è piccolo (specie paragonato a quello che nutro per altri insegnanti) e non preclude i buoni ricordi che ho di lei. Ed è bello vedere che la parte positiva è ricambiata.
 
Per inciso, sono diventato molto bravo a mentire sui motivi della mia situazione occupazionale: è bastato ritoccare un po’ la timeline e fare finta che la vantaggiosissima offerta fosse sfumata a causa del covid e non perché il capo mi ha letteralmente ghostato e da allora sono troppo ansioso per riprovare a mettermi in gioco. Ma francamente, mi occuperò in un altro momento del disagio che mi dà parlare della mia vita attuale alla gente che mi aveva conosciuto fresco e promettente: per ora preferisco crogiolarmi nel fatto che la babbiona di storia e filosofia sia stata un’eccezione, non la regola.

Saturday, 1 May 2021

A Millennial’s love letter to skinny jeans

Giusto oggi, grazie a un video di Mina Le, ho scoperto che c’è una faida tra i milennial e gli zoomer circa la forma dei jeans. Inevitabilmente, un po’ come vent’anni fa era per i jeans a vita alta, la moda è andata avanti e gli skinny sono visti dalle nuove leve come datati, indossati da quelli che ai miei tempi erano chiamati “i grezzi”, ormai un residuo di epoche passate. E a quanto pare la cosa è diventata una vera e propria guerra social con botta e risposta piuttosto brutali da entrambi i campi.
A parte che trovo assurdo che millennial e zoomer lottino tra loro quando c’è il nemico comune che sono i boomer e i vecchi gen-x (o forse non voglio accettare che i gggiovani mi vedano per il vecchio bacucco che sono), mentre ascoltavo le opinioni di Mina, che è una zoomer, mi sono reso conto che il succo del discorso è che gli zoomer hanno verso i jeans skinny lo stesso disturbo da stress post-traumatico che la mia generazione ha verso i jeans larghi e a vita bassa. Ovvero: prova a sopravvivere alle medie e superiori indossando quella roba.
E pur con le differenze del caso, capisco perfettamente il sentimento: in alcune circostanze, i jeans skinny non sono il massimo della comodità – specie se, come per i pantaloni larghi, si tende verso l’estremo del trend. In più, i ragazzini sono mostri, ed essere costantemente esposti al giudizio e ludibrio per quei capi porta inevitabilmente a odiarli.
 
A part quello, però, i jeans baggy degli Anni Duemila sono stati un incubo già solo a livello logistico: la combinazione tra larghezza, mancanza di struttura e vita bassa faceva sì che sui miei fianchi magri non stessero su nemmeno con un miracolo. Il cavallo penzolante peggiorava ulteriormente la situazione, così come le zampe d’elefante, che s’impigliavano di continuo sotto i tacchi delle scarpe e tiravano il tutto ancora più giù. A dare il colpo di grazia, la stupida moda delle cinture militari, le cui fibbie non reggevano nulla, specie stando sempre in tensione all’altezza del bacino, col risultato che la cintura cedeva lentamente e i pantaloni continuavano ad aver bisogno di essere riaggiustati ogni tre secondi. Giuro, se ripenso alle medie e ai primi anni delle superiori, il ricordo è di una lotta costante e continua contro i jeans.

Ma peggio ancora, quei pantaloni brutti, quelle felpe enormi, quelle magliette sformate cadevano malissimo su un corpo che la pressione sociale dei miei coetanei mi aveva insegnato a odiare. Già ero minuto, in tutta quella stoffa inutile scomparivo. E sempre la stessa pressione sociale mi toglieva qualunque alternativa, perché i vestiti stretti erano considerati “grezzi”, da sfigati, se non addirittura – tenetevi forte – da finocchi. Non scherzo, il disprezzo che avevo sentito nella voce di chi una volta mi aveva detto che i pantaloni stretti sono “da frufrù” aveva lasciato un’impressione profonda nel me adolescente, che ancora nemmeno si rendeva conto di esserlo davvero, “frufrù”.

Onestamente, passare ai jeans skinny e, in generale, all’abbigliamento form-fitting è stata una vera rinascita. E non solo perché, finalmente, le nuove taglie più strette mi stavano, ma proprio a livello concettuale. E sì, è concisa con due cose fondamentali: da una parte, con la mia presa di coscienza sulla mia sessualità, quindi sicuramente c’è anche stato un elemento di riappropriazione dei “pantaloni da frufrù”; dall’altra, col mio trasferimento via dalla Sardegna, che mi ha fatto associare quella sensazione di libertà alla nuova moda (per quanto ai tempi fossi più orientato al goth andante che a ciò che succedeva nel “mainstream”).
Ma principalmente era proprio l’idea che quei vestiti mi permettessero di mettermi in mostra senza però esagerare. È significato accettare e celebrare il mio corpo, vedere la snellezza come un punto di forza da valorizzare, non come qualcosa di cui vergognarmi, laddove percepivo la moda loose come un costante nascondermi.
I jeans attillati sono stati il mio momento di empowerment, ed è per questo che li amerò sempre e non intendo rinunciarvi, anche a costo di farmi dare del “grezzo” (o qualunque sia l’equivalente attuale del termine) dalle nuove generazioni. Lascio che abbiano i loro momenti di empowerment sartoriale e mi tengo i miei.

Friday, 16 April 2021

Something something social media

Potrei aver appena disinstallato Twitter dal telefono. Ops.
Sono ancora lì, profilo e tutto, e ho ancora l’accesso attivo dal computer, ma credo di aver bisogno di un bel periodo di detox. Che poi, per anni Twitter l’ho avuto ma l’ho a malapena usato; poi Trump si è preso il covid e mi sono fiondato lì per partecipare alla Schadenfreude collettiva. Poi ci sono state le elezioni americane, quel magnifico cassonetto in fiamme, e sembrava che non ne avessi mai abbastanza. Ho iniziato a twittare i miei “snarky one-liners”, ho sguazzato in quello di Mrs. Betty Bowers, America’s Best Christian, di Bette Midler e di vari altri, e pian piano è diventato l’ennesimo vizio, peggio delle app di dating.
Il problema è che come ambiente è fondamentalmente tossico, un po’ come Facebook, che frequento sempre meno, ma per certi versi ancora più esacerbato, forse per la limitazione dei caratteri con cui esprimersi.
Oh, e i cancel party. Mi si era rivoltato un pochino lo stomaco già per quello di Armie Hammer prima di scoprire che c’era del merito dietro; poi quello perfettamente immotivato a Tom Ellis (solo che un cancel party solo italiano lascia il tempo che trova); ora Lindsay Ellis, che è stata l’ultima goccia. Un paio di conversazioni sono degenerate in insulti e parolacce già alla prima risposta, mi è stato dato del subumano per aver fatto le condoglianze alla regina Elizabeth perché le è morto il marito… Quindi niente, per quanto mi piaccia andare a blastare in tempo reale i conservatori americani o i peggiori politici nostrani, mi sono reso conto io stesso di quanto già poche settimane di frequentazione abituale a novembre mi avessero reso più aggressivo e spietato: preferisco fermarmi prima che la cosa mi sfugga del tutto di mano.
Che poi, meno Twitter significa più Instagram, che non è molto meglio. Solo che il medium visuale si presta meno al flame gratuito (chi ha voglia di leggere le caption anyway?) e i commenti sono un filo più macchinosi, il che rende fruire di un feed infinito di contenuti meno tossico. Con le dovute precauzioni: è da qualche giorno che medito di fare l’ennesima pulizia di account di bellocci che non postano più che le solite, trite e ritrite thirst trap. Non c’è salvezza da nessuna parte.

Per quanto riguarda i crociati delle cancellazioni, comunque, trovo molto stupido ritrovarmi colpito dal fuoco amico, ma ancora non penso che pretendere responsabilità da parte degli altri sia una cosa intrinsecamente negativa. Poi c’è gente che usa questo ideale come scusa per dar sfogo alla propria aggressività ed evitare le ripercussioni morali delle proprie parole, ma lì c’è poco da fare. È ben diverso dalla gente la cui stessa ideologia consiste nel nuocere agli altri. Quindi no, questa lagna che si sta cercando di zittire tutto e tutti continua a essere una grossa scemenza.

Quanto a Twitter, ho silenziato le conversazioni in questione, fatto un ripulisti di risposte inutili, donato due spicci al GoFundMe della ragazza trans che mi ha insultato (per la soddisfazione che sappia che alla sua transizione ha contribuito anche un subumano che ha fatto le condoglianze a Elizabeth II; si può essere petty anche facendo del bene), bloccato di nuovo Rose McGowan per non essere tentato di incazzarmi per le stronzate che spara, e adesso penso che farò ciò che fa la gente sana e andrò solo a sbirciarci un po’ di porno ogni tanto. Per quanto abbia bisogno di una valvola di sfogo in questo periodo, ho più bisogno di ridurre la tossicità dell’ambiente che mi circonda.

Tuesday, 13 April 2021

Turchia portami via

Stupido io che ogni tanto ci riprovo.
Qualche giorno fa ho di nuovo sentito il Guasto, e inizio a pensare che questa faccenda di andare via in Turchia in piena pandemia sia più una scusa per non dire nuovamente che il vaccino mamma mia.
A sentire lui, lì va tutto bene. È tutto sicuro, non c’è nessun rischio, la gente è cauta ma la vita procede normale e il virus non c’è; giusto oggi, Breaking Italy ha pubblicato un paio di statistiche sulla Turchia, che è il Paese in orbita europea col più alto indice di contagi, tanto che perfino la Russia ha chiuso tutti i voli per non peggiorare ulteriormente la propria situazione. Cioè, stando alle grafiche presentate dal buon Shy, la situazione è questa:



Solo ieri, i nuovi casi positivi in Turschia sono stati più dell’intera popolazione di Alghero: c’è posto per altre tre o quattro volte il paesino del Guasto.



Qui invece la curva dei contagi per milione di abitanti paragonata a quella della Germania. Sta andando decisamente tutto bene, ve’?
 
E no, stavolta non è perché si beve la propaganda di regime dell’ennesimo dittatore per partito preso: anzi, Erdocoso non ci sta affatto simpatico perché sta bombardando il confine del BFF del Guasto, ché ci sono i Curdi – e guai a toccare la Siria e al Guasto, non ci vede più.
No no, a ‘sto giro il regime non ci piace, quindi la scelta di credere al fatto che non ci sia il virus in Turchia ha a che fare col complotto del virus in sé. È un modo per convincere se stesso che non ci sia da preoccuparsi e che possa continuare a giocare al complottista che ha capito tutto.
Per contro, l’idea che, quando tornerà, “ne parleremo” e “vedremo” quando e se si vaccina è solo l’ennesima bugia che quell’uomo mi ha detto da che mi ha messo al mondo.
Io onestamente inizio a essere esasperato. Non so nemmeno perché mi stia a preoccupare per lui.

Friday, 9 April 2021

Oblio

Oggi mi è capitata una cosa che mi ha fatto rimanere male: per la prima volta in vita mia, una mia ex professoressa non aveva la minima idea di chi io fossi. L’ho incontrata, l’ho salutata con un sorriso chiaramente intuibile sotto la mascherina e lei ha continuato a guardarmi con la faccia da Errore 404 anche dopo che ho provato a ricordarle in che classe fossi, chi fossero i miei compagni, in che anno avesse insegnato da noi, eccetera. Ironicamente, si è trattato della prof di filosofia e storia.
E no, non Monica, la prof giovane del quinto anno che adoravo. No, era quella prima, quella che ho avuto in terza e quarta e che mi ha lasciato con buchi enormi in tutto ciò che è successo prima di Kant.
 
In realtà non è sorprendente che non si ricordasse di me o dei miei compagni: la mia classe è stata per lei una specie di afterthought, un’ultima cosa fatta male e controvoglia prima di andare in pensione. Ho il vago ricordo che dovesse andarci già alla fine del nostro terzo anno ma, per qualche motivo, ne avesse aspettato ancora uno prima di farlo – e boy, quanto si vedeva che non ne aveva più voglia!
Il quarto è stato forse l’anno in cui ho avuto la media genrale più alta, tutto grazie ai dieci fiammanti in storia e filosofia. Dieci, proprio in pagella. In pratica, quella prof lì non ne aveva talmente voglia che le interrogazioni – che già erano calendarizzate – consistevano nel presentarsi alla cattedra con gli appunti il più in ordine e colorati possibile, farle dare uno sguardo, iniziare a parlare vagamente dell’argomento, droppare un riferimento più o meno forzato a Berlusconi, Ratzinger o simili, sedersi comodi e godersi lei che andava in berserk e faceva un’ora di comizio sui mali della Destra italiana o della Chiesa cattolica. “Bravissimi, si vede che siete preparati: dieci a tutti e tre!”, concludeva ogni volta (le interrogazioni di storia e filosofia di quell’anno erano gli unici momenti in cui ero in lega con due della sezione scansafatiche di classe mia, visto che ogni volta che andavamo tutti e tre assieme scattavano le scintille).
È facile, quindi, immaginare perché non si ricordi di me e della mia classe: non aveva voglia di insegnarci, non aveva voglia di interrogarci, non aveva voglia di stare a scuola, a maggior ragione non si sarà scomodata a memorizzare le nostre facce. Sarò stato uno di quei mascalzoncelli che, quindici anni fa, non vedeva lora di sbolognare per andarsene a godersi la pensione in santa pace.
 
Però ci sono rimasto lo stesso male. Non mi era mai capitato di non aver lasciato un’impressione su qualche mio ex insegnante. Perfino il professore di educazione fisica delle medie, quello che mi aveva lasciato lì col pollice fratturato dalla pallonata del mio compagno senza nemmeno degnarsi di controllare, mi ricorda sempre con rispetto e mi manda i saluti tramite la Mater quando la incontra. Sono sicuro che perfino la supplente di musica di quell’anno, che non poteva vedermi, si ricorderà di me se le dico: “Sono quello che aveva costretto a suonare il flauto col pollice fratturato dicendo che mentiva su dolore e gonfiore; oh, e a proposito, quando è tornata la titolare di cattedra ha provato il flauto e si è accorta che stonava per un difetto di fabbrica – non che lei se ne sarebbe mai potuta accorgere, visto che al massimo mimava i movimenti con la matita in aula”. (Sempre per la serie: “Un rancore è per sempre, DeBeers spostati”.)
Divago. Dicevo: essere un bravo studente che impressiona gli insegnanti è stata una parte fondamentale della mia identità per tanti di quegli anni che esser stato dimenticato da uno di loro, per quanto ci siano motivi validi, mi ha lasciato un brutto sapore in bocca. È come se mi avessero tolto quelle poche glorie che ero riuscito a conquistarmi e nel cui ricordo posso crogiolarmi in mancanza di materiale più recente.
Ed è ironico perché questa in particolare non è un’insegnante di cui ho particolare stima: era uno strumento per tirare su facilmente la media, non ricordo nulla di quel poco che ci ha insegnato, e mi rendevo conto che non meritavo nessuno dei voti che mi metteva. Del resto, se non ricorda nemmeno uno studente con la presunta media del dieci, dubito che, anche impegnandomi davvero, avrei fatto la differenza. Cioè, i voti li metteva a casaccio quindi non le sono rimasti impressi, ma almeno in consiglio di classe le avranno dovuto pur dire: “Ah, ma che bravo questo studente!”.
Che poi, probabilmente mi ferirebbe molto di più se Monica non si ricordasse di me: con lei mi sono davvero impegnato e, per quanto abbia ancora delle lacune vistose (lei si era messa le mani nei capelli quando aveva visto quanto poco la sua collega avesse coperto), ricordo tutto (beh, a parte Hegel, di lui ricordo solo che era un imbecille) e ho ancora grandissima stima di lei.

Quindi? Boh, sono talmente demoralizzato che mi dispiace che una persona che non stimo non si ricordi di me dopo quindici anni perché essere un ex studente brillante è uno dei pochi vanti che posso ancora permettermi. Yay.

Sunday, 21 February 2021

Gaslight and gas smell

Chiedo per un amico: come si fa a imparare a fidarsi non dico dei propri istinti e intuizioni, ma, ahm… dei propri sensi? Della percezione fisica, concreta che gli organi sensoriali hanno del mondo?

No, perché erano già due-tre giorni che, mentre o io o la Mater eravamo ai fornelli, sentivo odore di gas. “Ma no”, mi sono detto, “ti starai sbagliando. Non è possibile. Perché dovrebbe?”
E invece – sorpresa! – oggi è finita la bombola e abbiamo pranzato d’asporto. L’odore di gas improvviso è uno dei segnali più tipici che indicano che la bombola sta per finire. Se mi fossi fidato di quello che il mio olfatto sentiva, magari sarei andato a controllare, ne avremmo ordinata una piena e non ci saremmo trovati a piedi di domenica. (Per inciso, la Mater soffre di reflusso gastro-esofageo che, col tempo, le ha fritto i recettori dell’olfatto, quindi sente pochissimo gli odori; non sarebbe quindi stata d’aiuto a capire se mi stessi immaginando o meno l’odore).
Ma no, ovvio che se io sento qualcosa, di sicuro mi sbaglio, o c’è una qualche spiegazione razionale per cui ho torto. L’ironia di essermi fatto gaslighting da solo proprio sull’odore del gas è notevole.

Ovviamente, questa costante sfiducia nelle mie percezioni rientra sempre nei miei pattern di delegittimazione delle mie emozioni e sensazioni. Se sono io a sentirlo sicuramente non è valido. Se provoca fastidio a me sicuramente non è nulla di che.  E in ogni caso, se mi lamento io sicuramente do fastidio più del problema stesso. Se invece è qualcun altro ad accorgersene, allora c’è motivo di intervenire.

Per quanto da una parte sia frustrante accorgermi di ricadere periodicamente in questi circoli viziosi, dall’altra è un bene: già non esserne più ignaro ma, anzi, riconoscerli è un primo passo per provare a romperli. Questo stesso post lo sto scrivendo non tanto per celebrare l’ennesima futilità quotidiana, quanto per ricordarmi che, se sento puzza di gas, probabilmente la bombola sta davvero finendo. E se mi lamento a vuoto e salta fuori che ho torto, pace, alla peggio si è fatto un controllo in più.
Devo uscire dalla forma mentis che io debba sempre vivere in punta di piedi per non urtare gli altri anche quando un mio intervento più deciso sarebbe d’aiuto a tutti.

Friday, 1 January 2021

Cominciamo bene

Prendendo esempio dal 2013, l’anno che ci portò la malattia di Murka e si concluse con un cotechino avariato per cenone, anche il 2020 ha deciso di regalarci un colpo di coda leggermente sgradevole sotto forma di rollata che non era una rollata, era un pezzo intero di muscolo con tanto di tessuto connettivo e tendini, che la Mater si è dovuta fare in quattro per ripulire e preparare per cena. Venduto come rollata, infilato nella retina, fortuna che la Mater disfa sempre per metterci uno strato di mortadella e qualche spezia, se no avremmo cotto ‘sto mattonazzo senza accorgerci di nulla. A parte la coda spugnosissima, però, alla fine questa… non rollata, questa intricata è stata saporita e tenera, anche perché la Mater l’ha innaffiata con più vino di quello che si scolava zia Anna, la sua amica alcolizzata.

Una cosa che non ho mai raccontato a nessuno per scaramanzia, per paura che poi diventasse vera, è che dopo il post tutto lustrini e fuochi d’artificio con cui accoglievo la nuova decade, la dura realtà è stata che, girando per giocare a Pokémon, lo scorso Capodanno ho schiacciato una cacca di cane. “Fantastico”, ho pensato mentre strofinavo furiosamente la suola contro il primo ciuffo d’erba a disposizione, “adesso tutto l’anno sarà una merda”; a quanto pare, ci avevo azzeccato.
Forse per compensare, ho cercato quantomeno di concludere il 2020 con dignità: alle 23:45 e 46 secondi ho fatto partire Goodbye di Apparat, che è stata la colonna sonora degli ultimi mesi, in modo che terminasse giusta giusta a mezzanotte e cedesse il posto a Forever Is The World, con cui tradizionalmente inizio l’anno nuovo. Che fra l’altro, come canzone è alquanto azzeccata: “I know, by now, every night has its dawn – be aware and see”, le parole di cui un po’ tutti sentiamo il bisogno in questo momento.

Dato che oggi non ho in programma di uscire, posso stare sicuro che non calpesterò nulla; in compenso, non ho nemmeno fatto in tempo a terminare Forever Is The World che già la Mater mi chiamava per una delle sue idiozie, e poi un’altra, e poi una terza perfino quando le ho dato la buona notte e ho tentato di chiamare un po’ Katia, e “Ma non puoi essere arrabbiato già i primi secondi dell’anno!”, quando chiaramente it’s not me who needs to manage my anger, it’s everybody else who needs to manage not to piss me off, goddamnit. (In inglese perché in italiano non rende).
Per cui sì, non sono ancora nemmeno le quattro del nuovo anno e io sono già esasperato e non ne posso più. Andiamo bene.
C’è solo da sperare che la traiettoria sia inversa rispetto al 2020, che all’inizio poco entusiastico corrisponda un proseguimento quantomeno accettabile.

Friday, 25 December 2020

Vecchi pettegolezzi

Fun fact, quest’anno ho onorato lo spirito festivo passando il Natale a malignare.
Beh, in parte: l’inizio è stato segnato da un attacco d’ansia low-key del tutto immotivato, poi io e la Mater abbiamo passato il pomeriggio a grindare in tandem per passare al livello 43 di Pokémon Go, poi ho scattato una foto ed è parlandone con Veronica che siamo finiti a fare le ciabattaie. Per inciso, la deduzione che come i tuoi amici si comportano con gli altri alle loro spalle è un ottimo indicatore di come si comporteranno con te alle tue è assolutamente vera: qualcuno una volta aveva notato che ogni volta che mi incontrava scatenavo un vortice di malvagità sopra le nostre teste rivolto a tutti quelli che ci avevano fatto torto almeno una volta; beh, guess what.

Comunque, il fatto che fra un paio di settimane saranno passati due anni dal secondo e penultimo punto di rottura non significa che io sia meno rancoroso, specie ora che, disseppellendo vecchi pettegolezzi, ho avuto un’epifania: prima dell’incidente che ha sfasciato tutto, qualcuno è venut* a trovarmi esattamente quattro volte; tutte e quattro nel giro di meno di un anno; anno nel quale ci provava con una persona dalle mie parti.
Fondamentalmente sì, le mie visite sono state ricambiate un gran totale di cinque volte in quasi dieci anni, di cui una per proposta famigliare e quattro perché stava correndo appresso a terze persone. Poi non avevo ragione a vedere un vero e proprio pattern di disparità di interesse e disponibilità che andava avanti da anni.

Quest’epifania, comunque, mi ha amareggiato ma non mi ha ferito; non ho idea di cosa ciò dica circa il mio processo di guarigione, ma vorrei interpretarlo come un segno del fatto che, se il rancore è la cicatrice che rimarrà lì a vita, la ferita vera e propria sta continuando a guarire.
La conclusione su cui invece sono assolutamente sicuro è che ho fatto bene a calciorotare questa persona fuori dalla mia vita.
Good riddance, bitch.

Saturday, 12 December 2020

L’obbligatorio post natalizio

È iniziato in sordina: la Mater che mi chiedeva di aggiornarle il punteggio su un gioco online mentre non c’era e io che le dicevo di lasciare l’albero di Natale acceso così, andando in bagno, mi sarei ricordato di farlo; io che, rannicchiato sul divano a chiacchierare, osservavo le lucine lampeggianti e mi accorgevo che c’erano degli addobbi rossi (che, secondo qualche sito superstizioso russo, a questo giro sono un no-no visto che l’anno prossimo sarà l’anno del Toro secondo lo Zodiaco Cinese, va’ a capire il collegamento); e poi lei che si dimenticava di accenderlo e io che, già almeno un paio di volte, glielo ricordavo. In fondo, già che sta lì al centro del salotto, tanto vale che luccichi.

Ebbene sì: quest’anno non solo non faccio finta che non esista, ma riesco addirittura a tollerare l’albero di Natale. Anni e anni di interminabili rant natalizi, ed eccomi qui ad accendere io le lucine colorate.
Probabilmente, ad avermi ben disposto è il fatto che se già l’anno scorso me l’ero cavata col minimo sindacale d’impegno, a questo giro non ho letteralmente mosso un dito per fare l’albero. Ho giusto portato giù le scatole dalla mensola dello sgabuzzino e passato l’aspirapolvere a lavori finiti, il resto l’ha fatto tutto la Mater. “Ti sto facendo compagnia mentre fai l’albero”, le ho risposto quando si è lamentata che non la stessi aiutando, e mi sembra un ottimo compromesso: lei non mi obbliga a fare un’attività che trovo tediosa, io non porto rancore verso l’albero per il solo fatto di esistere, win-win.

Che dire, quindi? Non era proprio fastidio, era più pigrizia? O forse, non avendo davvero partecipato, riesco a tenere le giuste distanze dalla cosa e non farmi coinvolgere dai risvolti antipatici che ha per me? O semplicemente, dopo quest’anno, sono talmente stanco che non ho più le forze di essere anti-natalizio?
Ai posteri l’ardua sentenza.

Friday, 20 November 2020

Supplemento al discorso sulla mascherina a rete

Inizialmente era nato come edit per aggiornare il precedente post in cui ne parlavo, ma dato che ci sono stati ulteriori sviluppi, ennesimo post su quanto fa schifo Laña del Rey, y'all. 
Andiamo con ordine.
 
Nell'edit del 3 ottobre, notavo come, a quanto pare, quella della mascherina a rete non fosse solo uno styling opinabile per lo shoot, visto che la nostra cara Laña l'ha indossata anche a un meet and greet con i fan.
Vero, il virus non sopravvive più di due-tre giorni sulla plastica, troppo poco per far ammalare Laña, quindi a lei che frega; ma a differenza sua, i fan non sono all'80% non biodegradabili, quindi perché metterli a rischio solo per fare la fashionista edgy?
Con buona pace della controargomentazione al mio rant precedente che le copertine delle riviste non sono indicative delle scelte stilistiche e di vita delle persone ritratte.
 
17 novembre: un mese e mezzo dopo, Laña si sveglia dal letargo e twitta con sufficienza in risposta a un articolo che ne parla, dicendo che la mascherina aveva dentro uno strato di plastica, cosa che gli stilisti fanno comunemente di questi tempi. Tralasciando le ovvie difficoltà logistiche di inspirare attraverso un foglio di cellophane, a me risulta che espirando la plastica si appanni, cosa che decisamente non accade nella foto. Che si immagini di avere plastica in quell'area sarebbe anche un erorre scusabile, considerando che è abituata ad averne a quintali nelle labbra, ma purtroppo quella non protegge i fan dal virus.
Ciliegina sulla torta, un fan le fa notare che ci ha messo un po' troppo, a rispondere alla controversia, e lei ribatte che è troppo impegnata a scrivere non uno ma ben due album e donare milioni in giro per la nazione. Roba che Laña, tesoro, in primo luogo tiratela di meno, in secondo senza offesa, ma nel tuo caso rispondere ai tweet è tempo meno sprecato che a scrivere quella porcheria che chiami musica.
 
19 novembre: Un fan pubblica una foto con lei. Indovinate chi dei due non indossa la mascherina.
Ci sono altri dubbi che siano solo sfortunate coincidenze e in realtà sia in buona fede e prenda la pandemia sul serio?

E niente. Ci sono momenti in cui quasi quasi inizio a pensare di avere torto. Di essere io quello che non capisce Laña, il suo inestimabile valore come cantautrice, la finezza e intelligenza del personaggio che si è creata, e lo splendore della persona che è a riflettori spenti. È difficile essere una delle poche persone che vedono solo una donna priva sia di talento sia di qualsiasi valore morale e personale mentre il resto della critica è abbagliata dalla sua luce sfavillante e dalla magnificenza della sua opera.
Poi magari è vero: magari in realtà è un colossale troll che ci sta prendendo tutti per il culo, e io che mi ci arrabbio sono altrettanto pollo di quelli che ci cascano con tutte le scarpe nel credere che sia un'artista di talento.
Del resto, qualche settimana fa ho interrotto bruscamente un cauto flirt (e ogni comunicazione) con un suo fan quando mi sono reso conto che, dopo tre giorni di discussione accesa, stava semplicemente tirando roba a caso per vedere cosa restava appiccicato e cosa no perché tanto “non sappiamo nulla, tutto è una contraddizione, niente è serio”: chiaramente, finiti gli argomenti è passato a trollarmi parafrasando la bio di Twitter di Laña.
Ecco, magari Laña del Rey e i suoi fan più accaniti sono come The Lady di Lori Del Santo, sulla cui vera natura le persone si interrogano tuttora: un autentico cassonetto in fiamme o una sottilissima e intelligentissima satira del mondo delle celebrità?
Nel dubbio, per me Laña resta quella maledetta stronza che ha lavato due gattini col bagnoschiuma.

Friday, 13 November 2020

Ansia da auguri

L’attacco d’ansia odierno è presentato da: il compleanno di Nell.
 
È già pomeriggio e dovrei scriverle qualcosa per farle gli auguri: da dieci anni a questa parte l’ho sempre fatto e lei mi ha sempre risposto con gentilezza e allegria.
Ma dentro di me c’è sempre la paura che veda il mio DM e sospiri alzando gli occhi al cielo, pensando: “Oh no, di nuovo ‘sto stalker, che palle, non poteva mancare”. Nonostante tutte le rassicurazioni e i quory, e i “my dear friend”, e il week end che ho passato da lei e Kristian, continuo a pensare di essere un fan che non sa starsene al suo posto e abusa del fatto di avere una linea diretta con lei.

Poi la gente con cui mi sono confidato mi chiede quanto spesso io le scriva e, effettivamente, le scrivo molto poco: per le occasioni come questa, se succede qualcosa d’interessante, ogni tanto per sapere come sta. Oggettivamente no, non abuso del suo tempo né cerco di monopolizzarlo. Ma l’idea strisciante di essere fastidioso anche a piccole dosi è sempre lì, sullo sfondo di ogni interazione sociale, anche senza il rapporto cantante-fan che la esasperi come in questo caso.

Onestamente non so. È chiaro che la mia ansia sociale è peggiorata notevolmente, ma non so se dipenda dallo stress e dall’ansia generalizzata per il periodo che stiamo tutti attraversando, che hanno ovviamente deteriorato il mio stato mentale in generale, o se invece abbia ragione a puntare il dito contro la Ciospa e questo ulteriore peggioramento sia dovuto al fatto che ancora non mi sono del tutto ripreso dal colpo che mi ha dato.
Non che capirlo mi farebbe chissà che differenza: avere continue epifanie sul mio stato mentale ma non riuscire a usarle come punto di partenza per migliorarlo è il leitmotif di tutto il mio percorso di autoanalisi.

Thursday, 29 October 2020

Il primo non-Lucca

Sto cercando di capire come mi sento riguardo al fatto che, per la prima volta dal 2009, quest’anno salterò il Lucca Comics & Games. Per motivi più che ovvi, direi, ma penso sia comunque qualcosa che vale la pena menzionare.

A rileggermi, è già dal 2013 almeno che vado senza grande entusiasmo per la fiera in sé, ma più come tradizione, per vedere gli amici e per lavorare. L’anno scorso non è andata molto diversamente rispetto al 2018 e, sebbene il lavoro sia stato meno, ho anche speso meno, comprando letteralmente solo due magliette. Per molti versi, è come se non fossi proprio andato.
Mentre scrivevo il post sul cambio dell’ora, mi sono anche accorto che ho smesso di svegliarmi di buon’ora e fiondarmi subito fuori di casa come se perdere tempo a riposare significasse sprecare la mia visita lì, mentre i primi anni passavo ogni secondo in fiera, dalla mattina presto all’ora di chiusura. Anzi, l’anno scorso mi svegliavo con molta calma a metà mattinata giusto in tempo per fare colazione, prendere una spuma bionda al bar e andare a scattare il primo shoot della giornata; finito l’ultimo, tornavo subito a casa per una pennichella di metà pomeriggio per poi raggiungere Alessio e Claudio in orario di chiusura giusto per fare due chiacchiere sulla giornata.
(Per completezza: probabilmente, non prender più il biglietto da anni ha contribuito alla mia rilassatezza nei confronti della fiera. Non spenderci sopra soldi toglie quella frenesia di non voler sprecare nemmeno un secondo del tempo per cui si è pagato.)

A ben pensarci, forse Lucca non è nemmeno più una tradizione; forse è solo testardaggine.
Però il pensiero di non rivedere amici e conoscenti in fiera mi rattrista. Quello e il fatto che se non posso avere qualcosa inizio a volerla.
Ad essere onesto, comunque, non mi sto strappando i capelli. È più il senso di iconoclastia. Mi chiedo anche come ciò si rifletterà quando, in un mondo post-covid, si potrà tornare in fiera e dovrò decidere autonomamente se andare, senza più l’incentivo di non essermi perso nemmeno un’edizione in oltre un decennio.

Ah, e ovviamente quest’anno le previsioni danno soleggiato, massimo nuvoloso, tutti i giorni tranne l’ultimo. La beffa suprema: l’unico Lucca Comics asciutto negli ultimi dieci anni sarà quello a cui nessuno potrà andare.
Quest’anno non la finisce proprio di essere una carogna.

Sunday, 25 October 2020

Ora solare forever

Oggi sono abbastanza scombussolato, come, del resto, era prevedibile. Giro per casa spaesato, non ho idea se sia il caso di avere fame o meno, ho più sonno del solito… un disastro.
Ma se Dio vuole (leggi: se i nostri politici smettono di essere degli imbecilli), questa sarà l’ultima o la penultima volta che accade.

Ho già scritto a più riprese, fin dagli albori del blog su Splinder, quanto odi l’ora legale (edizione 2007, 2009, 2010 e 2018); nel corso degli anni non è cambiato nulla. Per quanto sembri strano, considerando il mio attuale stile di vita, quando mi impongono il jet lag finisco puntualmente per non capire niente per settimane dopo la funesta data. Di conseguenza, sono molto, molto contento che l’Unione Europea abbia finalmente imposto un ultimatum agli Stati membri affinché scelgano un’ora e tengano quelle (nel post del 2018 ho incorporato il video di CGP Grey in cui spiega perché l’ora legale è perfettamente inutile al giorno d’oggi). Ora è solo questione di vedere cosa decideranno i nostri politici, se tenere la solare o adottare la legale. Per quanto mi riguarda, l’importante è che restino fermi, mannaggia a loro.

A quanto pare, comunque, il cambio autunnale lo soffro meno di quello primaverile: è la prima volta da tanto tempo che l’ora legale termina mentre io non sono a Lucca (argomento che penso richiederà un post a parte), e lì è più difficile accorgermi del cambiamento perché non ho una routine e, anzi, giro come una trottola dalla mattina più o meno presto alla sera. Al massimo ecco, quell’ora di sonno in più la domenica arriva come una vera e propria benedizione, in quei giorni.
Stando in casa, però, mi rendo conto che il passaggio all’ora solare mi viene più facile: alla peggio, sono confuso e un po’ assonnato; ma mi accorgo di essere meno ansioso e di avere improvvisamente un sacco di tempo a disposizione. Tutto è meno frenetico, e quel poco di ansia residua che ho svanisce appena guardo l’orologio e mi accorgo che è ancora miracolosamente presto.
Del resto, nel mio primo rant definivo l’ora legale come “un’ora di vita rubata” ed è quando entra in vigore che ho più problemi a trovar pace: probabilmente, perfino nel mio ciclo sonno-veglia snaturato resto comunque legato al ciclo solare e sballarlo di un’ora mi risulta innaturale.

Comunque, pare che l’Europa sia divisa per latitudine, con i Paesi settentrionali che vogliono fermarsi sull’ora solare e quelli meridionali sulla legale. Personalmente preferirei la solare per i motivi che ho descritto sopra, ma davvero, mi basta che l’incubo finisca.
Oh, e le meridiane: l’ora legale permanente sballerebbe le meridiane per sempre, e la cosa mi urterebbe oltremodo. Ora solare forever, please.

Tuesday, 8 September 2020

Greatest hits

Fra ieri e oggi, con la Mater, abbiamo svuotato il salotto per imbiancarlo. A parte l’ossessivo-compulsività con cui ho stuccato ogni singola crepa lasciata dalla colla della carta da parati quando l’abbiamo tolta (circa vent’anni fa), ho ovviamente aiutato a evacuare l’intera libreria, ritrovando foto e oggetti di cui avevo dimenticato perfino l’esistenza e valutato se buttare o meno un po’ di cose.
Ho fatto fuori un mucchio di vecchi CD musicali masterizzati, decisamente inutili nell’era digitale, nonché tutti i VHS con le puntate di Pokémon registrate dalla TV, che posso trovare comodamente su internet.
Ho anche deciso di buttare via i diari delle medie e delle superiori: in primo luogo, sono Comix, quindi sicuramente sono invecchiati malissimo; in secondo luogo, non penso ci sia poi molto d’interessante lì dentro.
O meglio, ne ero convinto finché, portando giù la carta visto che domani è giornata di ritiro, non ho pensato fosse il caso di sfogliarli, almeno, e vedere se invece valesse la pena di conservarli.

Alla fine, ho deciso di tenere quello della terza media, nel quale avevo effettivamente messo impegno con battute (super cringe), sticker, compleanni, dediche scambiate con i compagni eccetera, con dentro qualche pagina strappata dai diari successivi con dediche, foto, testi di canzoni scritti in maniera creativa e, fra l’altro, mille lanci di coriandoli e artifizi di fuochi d’artifizio per la data del concerto degli Evanescence del 2006 (per inciso, ho ritrovato il pass per il meet & greet!). Una specie di greatest hits della mia adolescenza, che francamente basta e avanza.
Il resto, che butto senza particolari rimpianti, sono scritte elaborate di compleanni di persone che avevo dimenticato, quiz stupidi, foto stampate a qualità aberrante e testi di canzoni scritti in maniera creativa, ma imbarazzanti.

Ho comunque da fare qualche osservazione:
• L’impressione generale di aver personalizzato pochissimo i diari dipende dal fatto che, effettivamente, su quello dell’ultimo anno non avevo scritto, incollato, citato o scarabocchiato praticamente nulla. Le uniche cose annotate sono le verifiche: non segnavo nemmeno i compiti per casa, tanto al massimo me li facevo alla chetichella sottobanco prima che iniziasse la lezione.
Per quanto riguarda la personalizzazione, non so cosa pensare del fatto che fosse crollata vertiginosamente fino, appunto, a sparire, a breve distanza dall’apertura del blog e del profilo su DeviantArt: magari davvero il digitale ha ucciso il cartaceo, o magari avevo solo raggiunto il picco delle paturnie adolescenziali e non avevo voglia di fare nulla.
• Finché ho continuato, ero molto stiloso nella personalizzazione dei diari: un anno tutto in penne neon, quello dopo tutto in penne metallizzate, quello dopo ancora tutto in inchiostro gel dai colori super saturi, nero, blu, rosso o verde. Ho fatto la fortuna della Pilot.
• Personalizzare un diario era, nel mio caso, un atto estremamente performativo: lo facevo col preciso intento di lasciare un’impressione sull’eventuale compagno che me l’avesse chiesto in prestito per sfogliarlo, e viceversa. Peccato abbia iniziato ad avere rapporti abbastanza cordiali solo quando ormai eravamo cresciuti e avevamo tutti smesso con ‘ste cose.
• Parlando di testi di canzoni scritti in maniera creativa ma da buttare con i diari, mi sono reso conto che mi crea molto meno imbarazzo ammettere che mi sia piaciuto Twilight che non che mi siano piaciuti i Naituiss. Ugh, che vergogna. Fortuna che poi ho scoperto che c’erano altre band là fuori (e comunque, a mia discolpa, ho sempre preferito Evanescence e Within Temptation).

Ad ogni modo, al momento i diari più recenti sono in un mastello sul marciapiede e attendono che la nettezza urbana li prenda e li porti a riciclare. Non ho particolari rimpianti perché l’intero periodo del liceo è stato piuttosto brutto e non mi fa gran piacere ripercorrerlo – addirittura, il diploma della maturità l’ho ritrovato arrotolato con un elastico (e un po' ammaccato) in mezzo ad altre scartoffie. Quel che volevo ricordare l’ho tenuto, il resto è un peso di cui mi sarei dovuto liberare molto tempo fa.

Sunday, 6 September 2020

Guerre silenziose

Oggi posso dirlo con certezza: ho battuto il mio precedente record di sette mesi e due settimane tra il post volutamente fumoso e una rovinosa caduta dal vagone dovuta a una compagnia molto piacevole e il troppo gin che mi ha fatto rendere conto del danno solo in media res (giuro, ho un black out completo riguardo a quel momento specifico). La data la ricordo perché è successo la notte prima che andassi a farmi il piercing all’orecchio (tant’è che ci sono andato con un hangover mostruoso), quindi è facile ricostruire tempistiche e robe varie. Poi da lì è passato più di un anno di disastro a varie riprese fino alla decisione finale.
 
Beh, a questo giro la data del 6 settembre ha avuto quasi un mese e due settimane di vantaggio, per cui posso dire ufficialmente di aver superato entrambi i tentativi precedenti. Certo, la situazione è completamente diversa e anche quello aiuta: sono qui dove la quotidianità non è stata avvelenata in maniera pervasiva come su, non ho modo di stare un granché per conto mio, le occasioni di socializzazione le ho ridotte al minimo, sarebbe più una fonte d’ansia che altro ed è l’ultima cosa di cui avrei bisogno.
Ma è anche vero che ora ho più spazio di manovra e ho anche avuto un’occasione di tentazione… in cui la tentazione non c’è proprio stata. Consciamente il pensiero mi ha attraversato la mente, ma non mi ha provocato desiderio, né nostalgia, né altro se non pura indifferenza. Il che è un sollievo, specie in previsione del fatto che prima o poi dovrò tornare alla mia vita.

E niente, questo è uno di quei post vaghi che scrivo solo per me, stavolta per darmi una pacca sulla spalla e dirmi “bravo” da solo. Una battaglia è vinta. Non so quando potrò considerare vinta anche la guerra, visto che ho notato fin troppo bene quanto basti un solo passo fuori posto per far esplodere a catena un intero campo minato; ma magari un giorno sarà davvero vinta e potrò anche far brillare qualche bomba inesplosa ogni tanto, o scoprirò addirittura che non ci sono affatto residui bellici. Solo il tempo lo dirà.

Sunday, 23 August 2020

A volte le lusinghe ritornano

Erano tanti anni che non ripensavo all’Uomo Lusingato. Un po’ perché in generale non ripenso con piacere alle cose collegate alla mia sfortunata carriera universitaria, un po’ perché semplicemente mi era sfuggita di mente la sua esistenza. Forse a una certa avevo anche provato a cercarlo su Facebook per sbirciare la sua vita con lo stesso sguardo colmo di fascino per l’orrido che ogni tanto rivolgo ai compagni del liceo di cui ancora ricordo il nome (e verso cui nutro ancora rancore – shock, lo so) ma, non avendolo mai trovato, è lentamente scivolato nell’oblio.

Comunque ai tempi ne scrissi parecchio: di come ci provai e mi rispose di essere “lusingato ma impegnato” mentre troieggiava con chiunque altro mettendo le corna al ragazzo con cui mi aveva detto poche ore prima di essere “solo amici”, di come nonostante ciò io avessi continuato a sbavargli dietro, addirittura sognando di limonarci, assistendo alla disfunzionalità della sua relazione perché facevamo parte dello stesso giro di colleghi finché non ho iniziato a disilludermi, trovarlo repellente prima mentalmente e poi anche fisicamente, e arrivare alla conclusione che fosse stata una gran fortuna aver potuto spacciare quell’unico approccio come cazzata alcolica, perché almeno avevo salvato la faccia e non gli avevo dato modo di lusingarsi ulteriormente. Da lì il mio fantastico pattern di negazione dei sentimenti romantici, a me stesso in primis, per evitare di restarci ancora male, ed eccoci al mio essere un trainwreck.

Comunque, ieri all’improvviso me lo sono trovato su Grindr. In vacanza qui, di tutti i posti. E mi pare di capire anche in compagnia, perché evidentemente certe cose non cambiano mai e quando uno è troia lo resta anche dopo dieci anni. Lì per lì non l’ho nemmeno riconosciuto subito, se non identificandolo come “bel ragazzo”, perché oggettivamente lo è (ha perfino ancora tutti i capelli in testa, e io pensavo che sarebbe stempiato presto). Ha esordito con “Long time!”, abbiamo anche scambiato un paio di battute piuttosto generiche su com’è che fossimo entrambi qui, ma la cosa è morta sul posto. Ci ho fatto un mezzo pensierino, sull’uscirci a prendere un drinketto, ma ricordo ancora bene la lezione che ho imparato con lui e non ho minimamente accennato a vederci. Lui mi ha buttato lì che stava andando alle giostre, ma ho lasciato correre e cambiato argomento, perché di raggiungerlo non avevo sicuramente voglia.
Oggi non l’ho nemmeno cercato. Domani riparte e, francamente, good riddance: considerando che l’intera faccenda è stata unilaterale, non avrebbe nemmeno senso riparlarne.
In compenso, oggi come allora, sono orgoglioso di non avergli dato altri appigli per sentirsi lusingato. È l’unica chiusura che questo vecchio discorso riemerso inaspettatamente merita.

Tuesday, 23 June 2020

Feeling alive again

Per chi se lo fosse chiesto, la storia che ho condiviso su quello che è stato l’ultimo post sul blog per oltre due mesi è andata a finire per il meglio: probabilmente la macchia sotto l’occhio era davvero la puntura di qualche moscerino (tant’è che, in realtà, un leggero prurito me lo faceva). Con una blanda pomata antistaminica e un po’ di pazienza è passato tutto – senza contare che di lì a poco è comunque iniziato il lockdown e il problema di non voler uscire perché ero “sfigurato” è diventato irrilevante.

Resta il fatto che la mia percezione di me stesso è legata a fattori precari ed esterni: la mia produttività e integrazione nel tessuto sociale, che al momento è sotto zero, e il mio aspetto esteriore.
In queste ultime settimane, il secondo è stato fortemente minato dal fatto che l’ultimo taglio di capelli l’ho avuto a dicembre prima di partire. E non è nemmeno una questione d’ironia, di me che prima li ho portati lunghi fino a metà schiena e ora do di matto appena crescono poco poco: è che la lunghezza di sei mesi è semplicemente brutta, ingestibile, e mi sta malissimo. Così, come quando l’anno scorso me li avevano tagliati malissimo, ho sofferto anche ora nel guardarmi con il casino che avevo in testa, specie da quando ha superato prima i power hair à la Hillary Clinton, poi perfino il caschetto da Beatles Anni Sessanta per trasformarsi in una qualche atrocità hippie Anni Settanta. E fortuna che la Mater almeno aveva fatto un buon lavoro dandomi una spuntata sul retro verso metà aprile.

Insomma, non credo di dover spiegare ulteriormente perché abbia contato i giorni che mancavano all’appuntamento col parrucchiere. Una volta che la quarantena dura è stata sollevata, mi sono dato ancora un paio di settimane per accertarmi sulla situazione in città, dopo di che ho chiamato verso fine maggio e il primo appuntamento disponibile era oggi.
Non credo nemmeno di dover spiegare – o poter mettere a parole, se pe questo – il sollievo che ho provato guardandomi allo specchio con i capelli finalmente tagliati. Anche perché memore dello scempio che il parrucchiere cinese mi ha fatto l’anno scorso, quest’anno ho chiesto consiglio a un’amica di qui e sono andato da un parrucchiere d’alto bordo che ha fatto un lavoro impeccabile (è specializzato in tagli vintage e ha fatto tutto, tutto interamente con le forbici, niente macchinetta tosapecore!). Giuro, sono uscito da lì sentendo il ritornello di Alive dei Goldfrapp in testa, synth Anni Ottanta e tutto: “I’m feeling alive again, alive again! I’m feeling alive again, alive again!”.
Arrivato a casa, mi sono dato giusto il tempo di pranzare e ho sfruttato il capolavoro di styling che avevo in testa per fare un paio di foto, tra cui anche una ispirata proprio a questa canzone, che postprodurrò con gradienti pastello e forme geometriche al neon.
Non credo di aver mai progettato una foto così colorata e solare, ma mi sento genuinamente felice. Mi sento bello, mi guardo allo specchio e mi piace ciò che vedo. È una sensazione che mi è mancata così a lungo che ora non voglio mancare di celebrarla a dovere.