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Tuesday, 15 December 2020

L’anno che mai fu

Alle ore 4:36 di questo stesso giorno, un anno fa, mi preparavo a fare il controllo sicurezza all’aeroporto di Bologna.
Dopo una notte insonne per i soliti problemi logistici, passavo i metal detector, ricomponevo la valigia che avevo sventrato, prendevo un tè di terz’ordine e mi appollaiavo su uno sgabello per approfittare del tavolino con presa elettrica e cazzeggiare ancora un po’ su social e app di dating prima dell’imbarco.
Di lì a poco sarei decollato, avrei fatto un sonnellino ristoratore in aereo, mi sarei svegliato con lo scossone dell’atterraggio e avrei rimesso piede in Sardegna per una vacanza “di qualche settimana” (lol!) dalla Mater.

Non avrei mai immaginato che, per la prima volta da dodici anni, avrei vissuto in Sardegna per un anno intero. Di più! – che per la prima volta dal 1999 avrei passato un anno intero qui, senza spostarmi da qualche altra parte nemmeno per un giorno.

A dirla tutta, però, più che altro prendo atto della stranezza ma non è una vera lamentela. Date le circostanze, stare qui o a Trieste non farebbe differenza all’atto pratico – e anzi, come ho scritto altre volte, sia abdicare parte delle responsabilità di adulto, sia accoccolarmi nel bozzolo che è la (semi) quarantena non sono prospettive particolarmente sgradevoli, né rappresentano un grosso cambiamente nel mio stile di vita. Ecco, mi mancano giusto Giulia e la Grande Shanghai, ma per il resto non ho una direzione di vita qui come non ce l’ho lì, quindi tanto vale. (Probabilmente parlo così perché alcune circostanze mi hanno comunque garantito un’inaspettata quantità di autonomia dalla Mater in cui posso farmi gli affari miei e ascoltare la musica senza essere interrotto, altrimenti sarei molto meno indifferente.)

Comunque sì: questo è, per molti versi, l’anno che mai fu. L’anno in cui non ho abitato a casa mia a Trieste, in cui non ho vissuto la parvenza di vita di che conducevo, in cui tutto è stato talmente bizzarro da farmi stare in un luogo da cui ho cercato di fuggire da che ho memoria. E per ora mi sta bene così: non riesco a immaginarmi un dopo, né valutare oggettivamente se il prima fosse poi meno peggio di ora.

Thursday, 29 October 2020

Il primo non-Lucca

Sto cercando di capire come mi sento riguardo al fatto che, per la prima volta dal 2009, quest’anno salterò il Lucca Comics & Games. Per motivi più che ovvi, direi, ma penso sia comunque qualcosa che vale la pena menzionare.

A rileggermi, è già dal 2013 almeno che vado senza grande entusiasmo per la fiera in sé, ma più come tradizione, per vedere gli amici e per lavorare. L’anno scorso non è andata molto diversamente rispetto al 2018 e, sebbene il lavoro sia stato meno, ho anche speso meno, comprando letteralmente solo due magliette. Per molti versi, è come se non fossi proprio andato.
Mentre scrivevo il post sul cambio dell’ora, mi sono anche accorto che ho smesso di svegliarmi di buon’ora e fiondarmi subito fuori di casa come se perdere tempo a riposare significasse sprecare la mia visita lì, mentre i primi anni passavo ogni secondo in fiera, dalla mattina presto all’ora di chiusura. Anzi, l’anno scorso mi svegliavo con molta calma a metà mattinata giusto in tempo per fare colazione, prendere una spuma bionda al bar e andare a scattare il primo shoot della giornata; finito l’ultimo, tornavo subito a casa per una pennichella di metà pomeriggio per poi raggiungere Alessio e Claudio in orario di chiusura giusto per fare due chiacchiere sulla giornata.
(Per completezza: probabilmente, non prender più il biglietto da anni ha contribuito alla mia rilassatezza nei confronti della fiera. Non spenderci sopra soldi toglie quella frenesia di non voler sprecare nemmeno un secondo del tempo per cui si è pagato.)

A ben pensarci, forse Lucca non è nemmeno più una tradizione; forse è solo testardaggine.
Però il pensiero di non rivedere amici e conoscenti in fiera mi rattrista. Quello e il fatto che se non posso avere qualcosa inizio a volerla.
Ad essere onesto, comunque, non mi sto strappando i capelli. È più il senso di iconoclastia. Mi chiedo anche come ciò si rifletterà quando, in un mondo post-covid, si potrà tornare in fiera e dovrò decidere autonomamente se andare, senza più l’incentivo di non essermi perso nemmeno un’edizione in oltre un decennio.

Ah, e ovviamente quest’anno le previsioni danno soleggiato, massimo nuvoloso, tutti i giorni tranne l’ultimo. La beffa suprema: l’unico Lucca Comics asciutto negli ultimi dieci anni sarà quello a cui nessuno potrà andare.
Quest’anno non la finisce proprio di essere una carogna.

Sunday, 15 December 2019

Let it die

Ore 4:36.
Sono all’aeroporto di Bologna e, dopo una notte insonne che ha compreso il finale della prima stagione di Lost In Space con Katia via Netflix mobile e Discord, l’evoluzione di tutti i Pokémon con mossa esclusiva da community day su Pokémon Go, e cazzeggio sulle app di dating perché a una certa mi si è liquefatto il cervello e non sono riuscito a leggere i nuovi libri di Agatha Christie che ho comprato ieri notte alla Mondadori qui in aeroporto.
Per inciso, la commessa è una super fan come me e abbiamo passato una buona mezz’ora a parlare di Agatha mentre controllavamo sul catalogo quali fossero stati finalmente ristampati e quali ancora no.

Il motivo per cui scrivo queste annotazioni ora, comunque, è un altro: avrei ancora un’oretta a disposizione prima di dover fare il controllo sicurezza, visto che il gate mi chiude alle 6:20 (il decollo è previsto alle 6:50), ma sono stanco di stare nel limbo che è la lobby dell’aeroporto e vorrei accucciarmi su una qualche seggiola al gate fino all’ora di mettermi in fila per l’imbarco, con tutte le incombenze alle spalle.
Fatto quello, ovviamente, non potrò più uscire dall’aeroporto.

In inglese si dice che third time is the charm, la terza volta è quella buona. Non so nemmeno più se tecnicamente questa sia ancora la terza, o già la quarta? Voglio dire, l’estate scorsa c’è stata una parentesi che però non considero, visto che non ero affatto convinto, quindi tecnicamente il detto è ancora valido? Non lo so.
Il fatto sta che ho deciso che qualcosa deve morire con la vecchia decade, perché se non mi pongo un limite così perentorio non c’è via d’uscita, e il decesso è avvenuto alle ore 4:36 del mattino del 15 dicembre.
E sì, l’ennesimo post di cui probabilmente solo io coglierò il senso, ma sta qui giusto per ricordarmi quante ore, poi giorni, poi settimane, poi mesi saranno passati quando mi riguarderò indietro.

Thursday, 21 November 2019

Cristallizzato

Ho sempre pensato che le mie foto fossero, per la maggior parte, dei racconti allegorici. Tolte alcune che nascono solo per essere esteticamente piacevoli, cerco sempre di narrare qualcosa tramite loro: un’emozione, un’idea, una storia, la mia interpretazione di un elemento della cultura a cui appartengo. Del resto, perché creare delle vuote immagini solamente decorative?
L’allegoria, però, sta nel fatto che, a parte alcune immagini apertamente autobiografiche, c’è sempre un filtro, un simbolo che si frappone fra le emozioni che ci metto e l’immagine finita: di solito, questo filtro è la musica. È come un gioco di specchi: ascolto una canzone, ci proietto sopra le emozioni che fa risuonare dentro di me, e quella me le riflette indietro sotto forma di immagine mentale su cui basare la foto. C’è quindi quasi sempre una componente autobiografica, ma indiretta: sono emozioni che sento, sì, ma genericamente, associate più alla canzone che le risveglia che al momento in cui ho scattato la foto.

Non mi aspettavo, quindi, di ritrovarmi a sfogliare foto di qualche anno fa e sentirmi come se mi entrassero sotto le costole e me le strappassero via per lasciare il cuore esposto.

A forza di pubblicare meticolosamente l’intera mia gallery su La Terra dei Cachi, un nuovo gruppo a cui mi sono iscritto, sono arrivato a cavallo fra il 2011 e il 2012, l’anno della mia grande fuga da me stesso (quello durante il quale non riuscivo a resuscitare il blog dopo la morte di Splinder e di cui i miei lettori non hanno idea).
Ebbene, rivedere quelle foto riporta a me quei tempi con la stessa potenza di quando li ho vissuti. Le stesse emozioni, fresche come appena provate: l’incertezza, la confusione, l’isolamento, la delusione, il senso di tradimento, l’euforia, la spensieratezza, la frivolezza… tutti i motivi per cui finivo a Milano almeno una volta al mese, e adesso la evito quanto più possibile.

E mi sono reso conto che la stessa cosa accade con molte altre foto, a tutti i livelli della mia linea temporale. Perché se è facile che le foto che ho scattato nel 2014 subito dopo la morte di Murka mi riportino il lutto di quei giorni – del resto, le ho scattate nello stesso luogo dove l’ho seppellita – è meno ovvio che quelle che ho scattato nel 2013 il week end in cui la Mater mi ha chiamato per dirmi che era stata male la prima volta mi riportino indietro a quel periodo.
E prima di allora, fra il 2010 e il 2011, sento nuovamente il tumulto della mia carriera universitaria che cadeva a pezzi, della nevrosi che iniziava a masticarmi, i sensi di colpa, l’inadeguatezza, ma anche il puro e semplice piacere di riuscire a fregarmene e partire per Londra o per Stavanger a vedere la mia band preferita.

È tutto lì, cristallizzato nelle foto che ho scattato. Non mi aspettavo che, mentre al pubblico raccontano la storia che ho deciso di costruire, a me raccontano la mia autobiografia, riportandomi anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, momento per momento, a ciò che ho vissuto negli ultimi dieci anni.
E sono grato di questo. Mi sento spesso come se avessi passato tutto questo tempo addormentato, senza che mi succedesse nulla, senza che io provassi nulla, mentre non è stato affatto così. Le mie foto mi dimostrano che ci sono, ho vissuto, esisto. Ed è una cosa bellissima.

Friday, 15 November 2019

Primadonna Boys & Girls

Marina & The Diamonds è diventata meno relatable ultimamente. Al di là dell’insipidità musicale di Love + Fear, che comunque i suoi pregi li ha, il problema è proprio a livello di testi. I fan dello snark, dell’ironia e autoironia pungenti, della disfunzionalità sezionata, analizzata, spiegata ed esorcizzata, della critica sociale tagliente – insomma, i Diamonds – si sono improvvisamente trovati orfani. Gli outsider che trovavano conforto nel vedere una persona così brillante piena delle loro stesse insicurezze sono finiti nuovamente marginalizzati. Tutti i terrorizzati dei sentimenti sono finiti impantanati in una melassa amorosa che ha finito per farli impietrire. Un disastro.

Che poi, non è nemmeno colpa di Marina: lei è cresciuta, è andata avanti con la sua vita, ha trovato un partner, una sua dimensione nel mondo, un equilibrio. Noialtri, che non abbiamo neanche una frazione della sua stabilità socio-economica, figurarsi i mezzi per pagarci la lunga terapia di cui abbiamo bisogno, siamo rimasti indietro ai tempi di Electra Heart, massimo di Froot, e quest’improvvisa positività ci è risultata vuota e artificiosa.
Da fan, sono genuinamente contento che Marina stia bene con se stessa e stia attraversando un momento felice, ma mentirei se negassi che è stata una clip di Bubblegum Bitch postata su Instagram a convincermi a prendere il biglietto: Marina è un po’ un’aliena per me, un po’ come un millennial felice e sano di mente è un ossimoro; sono andato lì per Marina & The Diamonds.

Fatta questa doverosa premessa, il giorno dopo e già sul treno di ritorno, sono contento di essere andato a vederla dal vivo. In primo luogo perché è stata la sua prima volta in Italia da headliner, era visibilmente elettrizzata all’idea e ha dato il massimo. In secondo luogo perché non ha trascurato il passato e ci ha accontentati con tutti i cavalli di battaglia storici – del resto, è evidente che conosca i suoi polli, visto che una canzone l’ha dedicata a “all the primadonna boys and girls”. Così come sa che, tolti i buttafuori, gli etero lì dentro scarseggiavano ed erano lì solo per accompagnare le morose, probabilmente sa anche che non tutti abbiamo raggiunto il suo grado di soddisfazione nella vita.
Il fatto è che la Marina che sento “mia”, quella che “mi ha messo i microfoni in camera e ha scritto una canzone su di me”, era lì sul palco assieme alla nuova, ed è stata un’esperienza a cui non avrei rinunciato per nulla al mondo.

L’altro highlight della mia breve gita milanese è stato che ho passato buona parte del pomeriggio con Stefano e siamo andati a fare foto al Parco di Villa Reale a Monza. Niente di studiato a tavolino, cambio di programma repentino come ci siamo accorti che non avrebbe piovuto, giusto il suo nuovo cappotto come base per imbastire un mood generale, e siamo partiti all’avventura fra gli alberi.
Ed è stato bello. È stato liberatorio. Mi ha ricordato il divertimento di fare foto senza preoccuparmi di far quadrare i conti, di accontentare un committente, di mostrarmi professionale e impeccabile, di far finta a tutti i costi di essere perfettamente in controllo. Per quanto ami concentrarmi su foto che ho progettato da tempo immemore, è bellissimo anche uscire semplicemente con uno dei miei più cari amici, cogliere l’ispirazione del momento, sperimentare sapendo che, male che vada, cestino tutto, e divertirci assieme.

È bello non sentirsi giudicati nel fare qualcosa che si ama. Così come è bello scoprire che qualcun altro può creare qualcosa di bellissimo dalle stesse brutte emozioni che sentiamo anche noi.

Monday, 22 July 2019

Che questo giorno sia già trascorso

E così oggi dovevo partire. Trieste-Bologna in treno, e poi Bologna-Alghero in aereo.
Oggi, 22 luglio 2019.
Well, joke’s on me.

Incredibile ma vero, la mia mattinata va liscia come l’olio. Telefono a MBE, sento che è aperto e posso spedire il pacco senza problemi (in caso, avevo chiesto a uno dei coinquilini di farlo al posto mio appena avesse avuto tempo), vado, l’ammazzo e torno. Approfitto della loro copisteria per stampare anche i biglietti e vado a fare la spesa per il viaggio. Il tempo di arrivare alla Coop e sorpresa: la Mater mi manda l’articolo sull’incendio alla cabina elettrica di Firenze e conseguente discesa nel caos dell’intera rete ferroviaria nazionale.
Salgo a casa a mollare la spesa (nel frigo attaccato alla nuova, sicurissima presa della corrente, yay) e corro dritto in stazione per saperne di più: quale scommessa, fra i regionali cronicamente in ritardo o l’alta velocità che avevo prenotato scontata senza possibilità di cambio o rimborso (i treni più colpiti dai ritardi essendo a lunga percorrenza), sarebbe stata più sicura? La vecchietta dell’assistenza clienti ne sa anche meno di me e mi tiene lì tre quarti d’ora buoni (facendomi perdere l’unica eventuale altra opzione per partire, visto che ovviamente sono andato in largo anticipo senza valigia o altro, convinto di ottenere informazioni facilmente) tentando di navigare il sito di Trenitalia su Internet Explorer, il browser in dotazione dei computer della rete ferroviaria nazionale. E niente, fa già ridere così. Le do la sufficienza solo perché ha provato in tutti i modi a rendersi utile, ma alla fine è una sua collega che arriva in mio soccorso e mi rassicura che i ritardi si sono attenuati e, probabilmente, il treno che ho prenotato non dovrebbe averne affatto. Il che mi da speranza in un ritardo di una mezz’ora, massimo tre quarti d’ora, ancora tempi utili per arrivare in aeroporto e arrivare al gate, visto che avevo prenotato in modo da essere in largo anticipo.
Il regionale Trieste-Mestre miracolosamente arriva spaccando il secondo. La Freccia da Mestre a Bologna parte con nove minuti di ritardo, ma non ne accumula altri lungo il viaggio. Arrivo a Bologna in tempi utili, riesco anche a prendere la navetta prima di quella che avevo preventivato… solo per scoprire che ha finito al carta per stampare i biglietti, quindi mi tocca aspettare per forza quella dopo. Poco male: arrivo presto in aeroporto, passo i controlli sicurezza senza che ci sia fila, mi accomodo in sala d’attesa per continuare a rimettermi in pari con Orange Is The New Black in previsione dell’ultima stagione e aspetto le 20:45, ora di decollo del volo con atterraggio previsto alle 22:05. Il peggio è passato, ora posso anche rilassarmi e non pretendere che, catturato l’anarchico presunto autore dell’incendio a Firenze, lo buttino dritto dritto in un rogo.
Surprise, bitch: il decollo effettivo è rinviato alle 22:05, la fucking ora di atterraggio, per un concatenarsi di ritardi del velivolo, in arrivo da Parigi.
Così eccomi qui, spiaggiato in aeroporto e con i nervi a fior di pelle: ho affrontato Trenitalia nel suo giorno di peggiore crisi, sono riuscito ad arrivare indenne e puntuale all’aeroporto nonostante tutt’intorno a me i treni venissero cancellati o rimandati di intere ore, solo per trovare il volo stesso in ritardo. Seriamente, chi devo assassinare? Anche perché, facendo due calcoli, atterrerò intorno alle 23:30, con l’ultimo autobus per Alghero centro che parte alle 23. Come diamine arriverò in città, a meno di non vendere un rene e prostituirmi per prendere un taxi?
(Edit: incredibilmente, l’ultimo autobus ci ha aspettati! Avrei dovuto avere più fiducia nelle doti precognitive di Katia, che ha pronosticato un avvenimento del genere. Per inciso, sul bus c’era un maledetto vecchio che ha fatto la battuta del secolo: “Eh, ma aspettandovi, ha tolto il pane di bocca ai tassisti!” Non essendo dell’umore per scherzare, gli ho rivolto un’occhiata assassina e ribattuto in tono gelido: “Col pane dei tassisti, io ci faccio la spesa per una settimana.”)

Se non altro, in questa situazione l’abulia con cui ho affrontato le ultime settimane ha ceduto il posto all’incazzatura. Almeno qualcosa riesco ancora a sentirlo.
Comunque, è in giornate come questa che mi ritrovo a recitare l’incantesimo Per Accelerare Il Tempo di Streghe:
Venti del Tempo, soffiate forte,
Datemi le ali per volare alto;
Affrettate, dunque, il mio percorso,
E che questo giorno sia già trascorso.

Thursday, 8 November 2018

Lucca senza Comics

Tolte le spese di viaggio, cibo e alloggio, a questo Lucca ho speso in totale 45 euro. Per cinque magliette, scontate perché gli standisti sono miei amici. E tutto ciò che ho visitato della fiera è stato il padiglione dei miei amici, entrando di straforo col loro pass espositori.
Ormai sono ufficialmente fuori dall’entusiasmo per il Lucca Comics.

D’altra parte, sono tornato a casa col portafogli bello carico, ho scattato un sacco di foto che mi soddisfano artisticamente, oltre che economicamente, e ho avuto comunque tempo di vedere un po’ di amici che vedo solo in fiera. Non tutti, purtroppo, masi fa quel che si può.

La più grande soddisfazione, però, è che, sul lato lavorativo, tutto ciò che era in mio potere organizzare è filato liscio come l’olio. Non ho potuto prevedere che il grande diluvio si spostasse da giovedì a mercoledì e, quindi, avrei fatto meglio a tenermi le commissioni per quel giorno, ma non controllo il tempo. Non ho previsto quanto Palazzo Pfanner sarebbe stato preso d’assalto venerdì e, quindi, c’è stato molto da aspettare per entrare, ma lì la disorganizzazione è stata dei gestori del palazzo, non mia: io ero pronto alle condizioni meteo, avevo previsto quanta luce avrei avuto dove e ho gestito la parte fotografica al meglio. E, ad ogni buon conto, ho sfruttato il liberarsi di alcuni slot per anticipare dei set in previsione di ulteriore brutto tempo (che poi non c’è stato), giusto per essere sicuro.
Oh, e poi c’è stata la vagonata di Unown che ho catturato su Pokémon Go e che ora potrò scambiare in giro con la gente facendomi pagare in sonanti Bulbasaur shiny: quello è un aspetto positivo da non trascurare.

Tutto questo, però, non so dove mi lasci. Ho superato la soglia in cui “la fiera si ripaga da sola” e ho portato a casa qualcosa. Ma basta per giustificare la fatica di cinque-sei giorni in trasferta? Perché alla fine, lavorando non solo non ho girato la fiera (cosa di cui mi è fregato relativamente), ma ho finito per non trascorrere chissà quanto tempo con i miei amici (e sì, lì è stata in buona misura colpa del maltempo). Vale davvero ancora la pena di andare a Lucca ogni anno, o è solo un’abitudine che non voglio lasciar andare?
Boh, ho un anno per pensarci.

Monday, 29 October 2018

Silver lining

Non riesco a decidermi: sono stanco che la vita mi metta i bastoni fra le ruote a ogni piccolo passo che tento di fare? O sono grato perché, se non altro, le cose brutte capitano in momenti in cui fanno pochi danni e, anzi, mi permettono di correre ai ripari?

Evelyn (la mia 5D) mi ha quasi tradito. Data la mole di commissioni a Lucca, sapevo che avrei avuto problemi di spazio di archiviazione per la fotocamera. Il piano originale era comprarmi una scheda più capiente con l’Amazon Prime di Giulia (una delle schede vecchie è morta improvvisamente l’anno scorso; i dati sono ancora tutti lì, ma non scrive né cancella alcuna foto), ma poi sono stato male tutta la settimana, non ci siamo visti, non le ho dato i soldi per l’acquisto e non mi sembrava il caso di farmeli anticipare (anche se lei, che è una persona buona, l’avrebbe fatto). Il piano B era di portarmi il Mac a Lucca in modo da scaricare ogni giorno le foto e avere di volta in volta nuovo spazio libero.
Ebbene, in questi giorni ho fatto alcune foto per un piccolo progetto fotografico che bolle in pentola e, prima di partire, ho pensato fosse il caso di scaricarle. Sorpresa: il computer non mi trova più la fotocamera.
Ho avuto il mio bell’attacco di panico, ho chiamato Katia perché è l’unica persona capace di tenermi integro in quei momenti, ho iniziato a escludere le possibili cause (non era il cavo, non era il Mac, vuol dire che era la fotocamera, ma i dati sono dentro, quindi era il collegamento) e, con qualche piccola procrastinazione, sono andato fino a Mediaworld, dall’altra parte della città, a comprare sia una nuova scheda capiente, sia un lettore. Cosa che avre dovuto fare da anni, come i veri fotografi, ma che ho sempre rimandato perché meh, sono soldi, per ora sto bene così.
Il risultato? Usare il lettore è ovviamente la cosa più bella e semplice del mondo, ho triplicato il mio spazio in memoria, tutto si è risolto e sono felice e contento. Il piano A è di nuovo in auge, sebbene più costoso che con Amazon, e mi porto comunque il B come back up.

Solo che, porca miseria, questo contrattempo doveva proprio capitarmi ora? Letteralmente il giorno prima di partire per il Lucca in cui sono più oberato di lavoro da che ho iniziato a scattare su commissione? Non ho già abbastanza stress per le mani? Avevo bisogno anche di questo? Niente gioie, solo sfortuna?
D’altro canto, oh, meglio che sia capitato il giorno prima, all’ultimo momento utile per correre ai ripari sapendo dove sono i negozi e cosa cercare, piuttosto che in viaggio, o lì nel bel mezzo della fiera, magari durante il ponte dei Santi o la domenica. Quello sì che sarebbe stato tragico, e allora la tempistica è stata davvero una fortuna.
E comunque, tolto il comprensibile momento di panico e quei pochi momenti in cui ho desiderato o contattare tutti e far saltare i lavori, o semplicemente morire, ho raccolto il sangue freddo e mi sono dimostrato per l’ennesima volta all’altezza della situazione.

Quindi niente, questa è la tipica cloud with a silver lining. Superata la crisi, quasi quasi sono pià propenso per la gratitudine e considerare le tempistiche fortunate.

Saturday, 27 October 2018

Pat-pat sulla spalla

Mancano tre giorni alla partenza per Lucca. Non ne sono entusiasta come lo ero quest’estate per Vinci, ma ne sono sicuramente orgoglioso. Mi sono scoperto davvero efficiente. Ho delle doti organizzative, riesco a metterle a frutto e sono a un passo da una partenza in cui tutto ciò che è umanamente sotto il mio controllo è al suo posto.
La casa è lì ed è sempre la stessa; non me ne sono occupato io, ma contribuirò lì a non far nascere un’altra Luana e meritarmi il posto per l’anno prossimo. I biglietti del treno li ho comprati già a giugno al prezzo più conveniente con un assist di Giulia; vero che poi sono impazzito per tutta l’estate, convinto di aver dimenticato il ritorno sul bancone quando erano semplicemente pinzati talmente bene che non si sfogliavano, ma fa parte del processo di preparazione. E poi ci sono gli appuntamenti.

A questo giro mi sono organizzato per tempo con il post da attention whore, ho finalizzato alcuni accordi presi oralmente a Vinci e ho subito iniziato a riempire la mia agenda, prendendo nota di chi, dove, che giorno e a che ora. Vero che non avrò nemmeno una pausa pranzo – cosa risolvibile comprando l’occorrente per dei panini – ma ho incastrato tutti gli shoot in modo da avere tempo sufficiente perché, in caso di ritardo di uno, non mi capiti un effetto domino che li faccia slittare tutti, e giostrato le location in modo da raggiungerle celermente, non dover rincorrere gli associati di GoT in giro per le mura e avere opzioni in caso di maltempo.
A questo proposito, ho controllato il meteo con assiduità quasi religiosa e, in vista del diluvio di giovedì, sto iniziando a sondare se le persone sarebbero disposte per mercoledì in modo da non ripetere il fiasco domenicale dell’anno scorso. Insomma, sto facendo l’umanamente possibile perfino contro la teoria del caos e il butterfly effect.
Finora ho avuto solo due defezioni, ma le ho rimpiazzate con altrettanti shoot che mi fruttano il doppio, quindi poco male.
E, soprattutto, quest’anno ho in programma solo due shoot gratis, in amicizia, entrambi con Giulia come grazie per avermi aiutato a ordinare il Funko Pop di Olenna al prezzo più conveniente. Davvero, il mondo è in debito di karma con me sulla fotografia; e voglio davvero bene ai miei amici, ma ho imparato con le cattive che l’amicizia non è una paga valida per i miei servizi professionali.

Quindi eccomi qui: la fiera praticamente la vedrò con i binocoli perché non avrò tempo, ma ho tutto il possibile sotto controllo e mi sto dimostrando professionale e all’altezza delle aspettative che i clienti rimpongono nelle mie capacità organizzative. Bravo me, mi merito un pat-pat sulla spalla.

Thursday, 19 July 2018

Breathe easy

Sono meravigliato da come i preparativi per la Festa dell’Unicorno e conseguente viaggio in Sardegna stiano procedendo bene quest’anno. L’unico vero intoppo è che ho procrastinato fino a tre giorni fa il consueto spam sui gruppi cosplay per cercare qualche ingaggio ma, in due giorni, ho recuperato alla grande e ho un’agenda bella piena.
A parte questo, mi sono mosso per tempo su tutti i fronti: cercare alloggio, superare un po’ di palleggio fra alcune opzioni, prenotare i treni e il volo per giù… siamo al 20 di luglio, parto fra una settimana e tutto, tutto ciò che è organizzabile in anticipo è pronto. Ho perfino comprato la crema solare, e il pacco e la valigia sono già mezzi fatti, con tanto di elenco di cosa aggiungere.

Francamente non so a cosa dare il merito: un po’ alla terapia, che mi ha dato la forza di credere nelle mie doti organizzative e la disciplina per metterle in atto in tempi utili; un po’ al fatto che, per una volta, ho motivi per essere entusiasta di partire in Sardegna, e Vinci sarà un intermezzo faticosissimo ma piacevole. L’unico rammarico è che, per il secondo anno consecutivo, non ho ritagliato un paio di giorni per visitare Firenze, ma sono strettissimo di soldi e mi devo accontentare.

Mi fa un po’ strano assaporare un momento in cui davvero sento positività, sono soddisfatto di me stesso e riesco a guardare alle prossime settimane con entusiasmo invece che col terrore che uno dei diecimila ipotetici scenari apocalittici si avveri. Ma respirare con leggerezza ogni tanto non guasta.

Tuesday, 8 May 2018

Le strade che portano a Roma e dintorni

Non è andato tutto bene, ma tutto è stato gestibile.
O meglio: ciò che conta è andato bene, mentre nel corollario c’è stata qualche defaillance che ho saputo affrontare senza lasciarmi travolgere. Perché è così: ogni volta che mi metto alla prova, che trovo il coraggio di fare quel passo e uscire dalla comfort zone, scopro di essere perfettamente competente e all’altezza della situazione.

Il piatto forte del viaggio, lo shoot che mi ha richiesto un sacco di tarocchi e causato tanta nevrosi, è stato forse la parte pià semplice. Per quanto giustificate dalle esperienze passate, le mie paranoie sono state solo tali e Antonio, il mio amico e modello, non solo era contento di posare per me, ma è diventato assolutamente entusiasta quando ha visto le altre foto del progetto. Di sicuro gliel’avevo linkato un paio d’anni fa, quando gli avevo proposto di posare per la prima volta, ma dopo tutto questo tempo è abbastanza normale che se ne fosse dimenticato. E io non ho più tirato fuori la cosa perché, per quanto ami ancora gli Infernal Lords, non ho più vent’anni e ora ho un po’ di paura di essere giudicato per la scelta del soggetto, o che le persone non vogliano esservi associate. Alla fine è questo, il vero motivo per cui non mi sono mosso prima con Antonio, e si è rivelato del tutto infondato. Una volta che ho trovato la forza interiore, le cose sono andate come volevo.

Con questo non voglio dire che la maledizione che grava sulla serie non si sia attivata e le circostanze non si siano messe di traverso ma, come dicevo, si è trattato più di inconvenienti fastidiosi che crisi insormontabili. Una è stata prevedibile: il treno Roma-Napoli che pensavo di prendere aveva una coincidenza super stretta e, se fosse saltata, avrei fatto aspettare inutilmente Antonio per un’ora. Ho preso quello prima, che è prevedibilmente arrivato in ritardo, ma all’ora giusta per lo shoot: ci ho visto giusto e ho pianificato efficientemente.
Non pianificato è stato quando ho beccato l’unico tornello della metropolitana di Napoli senza inchiostro, che non ha quindi stampato la data e l’ora sul biglietto. All’uscita, il controllore mi ha trattenuto e, sulle prime, è stato un filino indisponente e brusco; ho mantenuto la calma, ho spiegato la situazione, ha verificato al tornello d’uscita che il biglietto era stato effettivamente obliterato quando ho detto e tutto si è risolto. In altre circostanze non avrei proprio fatto caso all’incidente, ma con gli Infernal Lords l’ho presa come la cosa che doveva andare storta, ma è stata talmente insignificante da non farmi nemmeno inciampare.
Un po’ più di fifa l’ho avuta al ritorno, quando la macchinetta di Trenitalia non mi ha preso il bancomat. Già ero strettissimo con i tempi e il treno successivo sarebbe stato una pessima opzione, per cui sono dovuto correre, letteralmente, a prelevare, ma il terrore è stato che la carta si fosse smagnetizzata e mi fossi trovato senza soldi per tornare a Roma. Per fortuna anche lì, con un po’ di batticuore, ho mantenuto i nervi saldi e ho risolto tutto.

Il resto è andato altrettanto bene. Ho girato un po’ per Roma, ho trascorso del tempo con Gin, rivisto Lucia e Giorgia che non vedevo da undici anni, ho preso un caffè con Claudio e Val, e la domenica l’ho trascorsa praticamente tutta con Katia. C’è stato qualche altro intoppo qua e là, ma da qualcuno è nato del bene – il Lush chiuso in stazione mi ha costretto ad andare a quello grande in Corso, dove hanno praticamente fatto la spa a me e Katia facendo ci scoprire un ottimo sapone per il viso – mentre a qualcun altro non resta che rassegnarsi – il Cimitero Acattolico è chiuso la domenica pomeriggio, quindi per scattare gli stock per uno dei miei prossimi progetti dovrò tornare a Roma, poco male.

Questo è stato quindi un viaggio che mi ha ripagato di tutti i timori e le preoccupazioni che l’hanno preceduto, ed è anche valso l’odissea nell’Intercity Notte al ritorno.
Magari, di essere all’altezza delle circostanze la prossima volta è meglio che me ricordi subito, non dopo due anni di rimandi.

Thursday, 3 May 2018

Pronto

È tutto pronto per partire a Roma. I biglietti sono tutti in ordine;  documenti pure. Porto con me tre libri da leggere. La valigia è fatta: la fotocamera è dentro, le batterie sono tutte cariche, le memory card svuotate, il cappello per Belial c’è, i vestiti bastano e sono adattabili a qualsiasi clima, tutti i caricabatterie vari ed eventuali sono messi, ho anche infilato lo zaino vuoto per potermi destreggiare meglio sabato, il giorno dello shoot, e domenica, che passerò tutta in giro.
Oh, giusto: tutte le persone coinvolte hanno confermato.

Ovviamente io sono un fascio di nervi.

Un piccolo fuori programma è che sabato sarò io a scendere a Napoli per scattare, e non il modello a raggiungermi a Roma. Lavora, farebbe troppo tardi ad andare e tornare, ma nessun problema: ho fatto i biglietti per l’andata, il ritorno lo vedrò quando finiamo, mi sono premunito bene per spostarmi in città e tutto dovrebbe andare per il verso giusto.
Naturalmente, per essere sicuro, ma proprio sicuro (entro i limiti del plausibile) che non mi tiri bidone, ho sondato il terreno discutendo delle previsioni meteo per sabato Napoli – dovrebbe essere leggermente velato, non troppo caldo, e non dovrebbe piovere – così da avere l’ennesima conferma e ricordargli anche giorni e orari in caso sia distratto.
È un ragazzo che conosco da diversi anni ed è assolutamente coccolo, ma ciò non mi fa comunque rilassare: non che non mi fidi di lui nello specifico, ma è un essere umano, ‘nough said.

Al momento, l’idea sarebbe chiamare Katia su Skype, fare due chiacchiere (non ho testa per guardare qualcosa), salutarla ché nei prossimi due giorni ci sentiremo solo via messaggio, e ricordare che, alla fine delle fatiche, mi aspetta una giornata bonus in sua compagnia: cosa c’è di meglio?
Di meglio ci sarebbe non essere paranoici, ecco cosa.

Il Carro significa che le cose andranno a buon fine. L’Eremita significa che, con rischi indicibili e traversie innumerevoli, supererò la strada per raggiungere il castello oltre la città dei Goblin. L’Imperatore e la Giustizia capovolti sono lì solo per ricordarmi che, per quanto le cose sembrino insormontabili, gli ostacoli sono tutti nella mia mente.

Respiro profondo.

Sono pronto.

Saturday, 24 February 2018

700 km (qual è la tua scusa?)

Allora, ragazzi.
Io lunedì pomeriggio prendo un treno da Trieste a Bologna con cambio (e relativa attesa) a Mestre, la stazione più brutta d’Italia. Poi prendo un autobus dalla stazione di Bologna all’aeroporto e lì, dopo una pizza al taglio, passo una notte d’inferno a fissare il cellulare e cercare di leggere Agatha Christie con la concentrazione che cala per non addormentarmi di botto su una sedia in metallo.
Il tempo di un caffè (che odio, ma sarà la mia sola salvezza) e mi tocca la trafila del controllo sicurezza entro le 6:20 del mattino, l’attesa interminabile al gate e poi un’ora e mezza di volo fino ad Alghero. Da lì mi tocca aspettare cinquanta minuti per il primo autobus che va in città (perché i trasporti sardi sono una barzelletta) e farmi quell’ultima mezz’ora di viaggio.
Se continua così, sarò malaticcio; di sicuro avrò addosso due paia di jeans e due maglioni per ridurre il peso nel bagaglio a mano RyanAir.

Quindi, cari miei, domenica prossima non avete nessuna scusa per non alzare il culo dal divano, mettervi il cappotto, scendere le scale e girare l’angolo fino al seggio.

E no, non mi sto sottoponendo a questo sbattone faticoso e dispendioso per vocazione, perché c’è qualcuno che muoio dalla voglia di votare. Non sono convinto fino in fondo di nessuno e sarà un voto semi-pragmatico alla meno peggio. Ma questa non è una scusa per lavarmene le mani: siamo tutti adulti e, anche se non sappiamo da che parte buttarci, possiamo fare un piccolo sforzo per essere almeno pragmatici.
Perché quando il lunedì dopo annunceranno la vittoria di Salvini o Di Maio, io potrò alzare la testa e dire che non è colpa mia: ho fatto del mio meglio. Sono andato, ho espresso la mia opinione e ho ogni diritto di guardare dritto negli occhi i miei connazionali e dire che qualcosa ho provato a farlo. E per questo avrò il diritto di lamentarmene per i prossimi cinque anni.

È vero che probabilmente non cambierà nulla. È vero che le alternative, alla meglio, sono da rolleye. È vero che difficilmente vincerà qualcuno di anche solo decente. Ma anche ritagliare qualche seggio all’opposizione e mandare il chiaro segnale che una parte del Paese vuole e si aspetta altro è dire la propria. SOLO ALLORA ci si può lagnare che è sempre il solito magna-magna, signora mia (cit.), e che fanno leggi antiprogressiste, e che nessuno frena i fascisti, e che stanno mandando a puttane il progetto europeo e che tutti ce l’hanno con i gay / i migranti / qualsiasi gruppo vulnerabile e strumentalizzano qualsiasi cosa.
Perché di parlare senza averci nemmeno provato sono capaci tutti. Ma quando si decide di non prendere parte al sistema per fare gli alternativi e i superiori, ciò che si sta facendo in realtà è rinunciare a qualsiasi voce in capitolo. Pensateci, la prossima settimana.

Saturday, 18 March 2017

Beauty & the Train

Mentre ammiro il paesaggio mozzafiato della costa giuliana dal treno – e, dopo tutti questi anni, non ha ancora smesso di incantarmi – mi viene da chiedermi se, al di là delle questioni tecniche come terreno e rilievi, la monarchia Austroungarica non abbia deliberatamente scelto questo percorso per sbalordire il viaggiatore che arrivava a Trieste per la prima volta. La ferrovia si snoda in alto, sopra scogliere carsiche coperte di boscaglia che arriva fino al mare. In lontananza, oltre Trieste, la costa settentrionale dell’Istria, e da quassù si abbraccia una porzione davvero mozzafiato di orizzonte.
Non mi sorprenderebbe se il percorso del treno fosse stato studiato tenendo conto anche delle esigenze estetiche, in un’epoca in cui ancora non erano sacrificate sull’altare della totale praticità. Del resto, perfino l’acquedotto austroungarico di Trieste è puntellato di cisterne costruite a forma di torre di vedetta medievale, per nessun altro motivo che per intonarsi col paesaggio circostante.
Fatto sta che il tratto di ferrovia fra Trieste e Monfalcone è uno dei più belli che abbia mai visto.

In tutto ciò, ho visto anche La Bella e la Bestia al cinema l’altro ieri. Dire che mi è piaciuto sarebbe un eufemismo, ma ancora non mi sento pronto a scrivere un parere / recensione: è un argomento troppo emotivo (e sì, ho pianto per due terzi buoni del secondo tempo; ma proprio a singhiozzi, non esagero). Confido nel fatto che in Merilend, dove sono giusto diretto, arrivi un po’ in ritardo, così potrò andarlo a rivedere con calma, magari assieme alla Mater.
Per ora posso dire che Dio ha sicuramente voluto punirmi con la nuova traduzione delle canzoni (e, considerando che nemmeno esiste, ha decisamente strafatto: sono orribili). Non solo per il fattore nostalgia, ma proprio perché la metrica non entra nella melodia. E che cavolo, tieni il vecchio adattamento se vedi che quello nuovo fa pietà agli studenti del tecnico per turismo. Comunque non è una colpa che posso attribuire al film: semplicemente, appena uscirà in DVD lo guarderò in inglese vita natural durante e dimenticherò di aver sentito quella roba atroce.
Accenno giusto al fatto che Le Fou è diventato uno dei personaggi migliori del film, e non per la sottotrama gay, ma proprio perché nel complesso è scritto proprio bene. L’ho davvero adorato e penso che scriverò un post apposito in cui spiego perché le mie paure sull’eredità del codice Hays fossero infondate.
Per il resto, un paio di scelte secondo me hanno funzionato davvero male e hanno tolto drammaticità a momenti che nel cartone erano molto intensi, ma gli sceneggiatori hanno compensato in altri frangenti. In generale, il film omaggia molto la versione animata, a volte la prende un po’ in giro affettuosamente sui dettagli bizzarri che i fan hanno notato in questi anni, ma nel complesso è un’opera a sé stante che cammina sulle sue gambe. Il fatto di avere due film Disney de La Bella e la Bestia da guardare che non si oscurano a vicenda mi rende molto felice. (Mi fa anche piangere come una fontana, in realtà, ma quello non andrà mai via, temo.)

Sunday, 20 November 2016

Momenti

Giusto a titolo informativo: c.v.d., a Roma è andato tutto bene.
La mia organizzazione è stata impeccabile (anche se il B&B mi ha lasciato senza wi-fi), ho catturato un fottìo di Pokémon fra cui anche l’Exeggcute meraviglia assoluta che mi serviva per far evolvere Exeggutor, ho trovato uno Psyduck che nuotava nella Fontana di Trevi e, soprattutto, ho catturato il mio primo Jynx. Per la serie, “Dovevo veni’ a Roma pe’ cattura’ er mignottone”.
 
The Only One by GothicNarcissus The Only One 2016 by GothicNarcissus

Anche passare per Bologna non mi ha dato alcuna difficoltà, stanchezza a parte (treno alle 6:45 del mattino), e ho anche trovato un passaggio un po’ più presto del previsto che mi ha permesso di prendere un Intercity senza cambio e arrivare a Trieste in tempi umani e con poca fatica.
A parte questo, Claudio mi ha regalato il libro del primo anno del suo corso di norvegese e, finalmente, le mie mire autodidattiche iniziano ad avere una direzione precisa. E con Katia non solo siamo andati dal giapponese più buono in cui abbia mai mangiato, ma siamo anche andati a vedere Animali Fantastici e Dove Trovarli come ci eravamo ripromessi. Ovviamente, poi, non esiste che io vada a Roma e non passi al Cimitero Acattolico per una visitina all’Angel of Grief, ormai è una tradizione.

Una foto pubblicata da Alessandro Narciso (@gothicnarcissus) in data:

La cosa che mi ha sorpreso di più, comunque, è essermi più o meno goduto la giornata col Procreatore. A parte le solite, inevitabili fonti di frustrazione, tipo il campo magnetico che sembra avvolgerlo e che gli rende repellente qualsiasi superficie pedonabile a favore della carreggiata più vicina (giuro che l’ha fatto anche a Times Square, in mezzo al traffico di NYC).
È che penso che tutti ci rendiamo conto che nessuno può scegliersi i genitori e non incolpiamo gli altri di ciò che fanno in pubblico, ma ho perennemente il terrore che faccia qualche faux pas sociale mentre è con me; fortunatamente, il suo grande momento è andato liscio e nessuna delle mie previsioni più nefaste si è avverata. Una piccola parte di me si è perfino sentita orgogliosa di lui ed è stata quasi sincera nell’incoraggiarlo; un’altra è stata genuinamente felice che ci abbia tenuto tanto alla mia presenza lì. Come uomo è emotivamente stitico e non mostra grande affetto; siamo costituzionalmente agli antipodi, con lui che è un uomo manuale e io che sono cerebrale. Non abbiamo mai avuto molto terreno comune su cui costruire un vero rapporto, per questo per me è stata una novità frastornante. In realtà è da qualche mese che mi sembra che non recitiamo più il ruolo di padre e figlio ma condividiamo davvero dei momenti. Non so se genuinamente fosse contento che io fossi lì con lui, ma l’idea che lo sembrasse ha colpito una qualche parte atrofizzata del mio quorycino. Mi fa strano accorgermi che, dopo tutti questi anni, mi importa, ma ne sono davvero felice.
E fra l’altro, girare Roma con lui non è stato nemmeno particolarmente noioso: posto che ho tenuto il naso sepolto in Pokémon Go per buona parte del tempo e gli occhi incollati ai monumenti per il resto, e che lui non è decisamente un buon compagno di gite artistiche come lo è la Mater, a cui queste cose interessano davvero e con cui posso condividere il mio entusiasmo, almeno ha saputo dove portarmi e ho apprezzato gli aneddoti che mi ha raccontato; mi sono perfino trovato a raccontargliene qualcuno io, dalle volte in cui sono stato a Roma in precedenza.
È proprio questo che è cambiato: le ultime volte che ci siamo visti abbiamo parlato un po’ di noi, non solo di politica estera e interna, del tempo che fa e delle ultime notizie al TG. Mi ha raccontato qualche episodio di quando era giovane, e l’ho ascoltato volentieri. Non so perché mi senta nella posizione di tentare questo approccio, di provare a conoscerlo seriamente: forse davvero non mi frega più niente del momento in cui se ne inventerà un’altra, mi volterà le spalle e mi farà del male per l’ennesima volta, come nove anni fa. Almeno quei piccoli momenti me li posso (e voglio) godere. Al diavolo se mi rendo vulnerabile per la prossima piazzata.

O mio dio, ho mica appena centrato il nocciolo della mia nevrosi nei confronti delle relazioni umane partendo dalla vera e propria radice del problema? Che sia la volta buona che riesca a far partire il defrost?
Urge che chiami lo psicanalista e prenoti una seduta per capirci qualcosa.

Tuesday, 26 July 2016

Piatti sporchi da lavare

Oggi fa un caldo che la metà basta; avevo in programma un giro alla Galleria dell’Accademia di Firenze con una delle persone a cui voglio più bene in assoluto, ma è saltato; la sera vado a Rifredi a prendere un’altra delle persone a cui voglio più bene in assoluto e, fino ad allora, ho del tempo da perdere; una terza persona a cui voglio più bene in assoluto, che ho visto questo week end, è già tornata a casa, così, mi sono parcheggiato all’ombra di San Lorenzo, dove il caldo dà un po’ di tregua, e mi sto gustando The Black Dahlia di Ellroy, finalmente libero dalla distrazione di internet, del lavoro, della partenza da organizzare o del troppo sonno per concentrarmi.
Ok, in realtà una distrazione c’è: suppergiù a quest’ora ricorre il decimo anniversario di uno dei grossi traumi della mia vita adulta.
Ieri era il compleanno di Luana. Quella Luana. La quale, un tempo, era una delle persone a cui volevo più bene in assoluto. Oggi è il giorno dopo il compleanno di Quella Luana.

Dieci anni fa, il compleanno di Quella Luana ricadeva di martedì: lo ricordo bene perché ero andato a trovarla nei pressi di Roma per passare qualche giorno con lei. Ero arrivato il giorno prima, un lunedì, e i piani erano di restare tre, massimo quattro giorni perché l’ospte è come il pesce – dopo tre giorni inizia a puzzare. Ma “se non resti almeno una settimana, Alessa’, mi offendo!”, e così il traghetto del ritorno (ché ancora non c’era RyanAir) l’avevo prenotato per sabato. Che cretino.
Ripensandoci, già allora non ero senza colpe; almeno una delle cose che poi Quella Luana mi ha rinfacciato era vera: ero troppo accomodante, perfino più di adesso. In quei giorni, Quella Luana aveva la luna di traverso per motivi suoi e io ho lasciato che mi usasse come punching ball emotivo: cercavo di fare da paciere fra lei e sua mamma, non l’ho presa a voci quando, il giorno del compleanno, in piscina mi ha tirato apposta un calcione all’orecchio su cui avevo appena fatto i buchi, sorridevo per gli insulti randomici… insomma, lei era quella il cui umore faceva da banderuola ed esplodeva per un nonnulla, e io ero quello che inspirava profondamente, sollevava lo scudo anti-sommossa e aspettava pazientemente che i suoi capricci fossero finiti, senza ricordarle che anch’io ero una persona e magari avrebbe potuto evitare di passarmi sopra come un carrarmato. Mentre parlavamo una sera, sua mamma fece un’osservazione molto vera: “Tu sei suo amico perché non vivi vicino a lei; la prendi a piccole dosi e la sopporti così. Ma di quelli che la sopportano tutto il giorno, fa terra bruciata subito”.

Comunque, dicevo, il dramma che avrebbe fatto collassare anni e anni di amicizia “Fratello! Sorella! Per sempre!” scoppiò mercoledì 26 luglio 2006 intorno a quest’ora. Mi ero alzato in tempo per pranzo, avevo lasciato il letto sfatto per far evaporare il sudore, mi ero messo a tavola con Quella Luana. Faceva caldo umido perfino in casa e, finito di mangiare, non si respirava. Casca la domanda fatidica: chi lava i piatti? Io o lei? Dico io: “Mmh… Non ne ho molta voglia… Magari dammi una mezz’ora che digerisco e poi vado?”
 
In cui io, come al solito, sono Margaery.

Apriti cielo. Io non faccio niente in quella casa, non faccio niente nella mia vita, non ho nemmeno rifatto il letto, sono inutile, BAM!, porta sbattuta e se ne andò al computer. I tre giorni successivi li passai per conto mio a guardare la TV (visto che in paese non c’era nulla da fare e spostarsi a Roma era un casino). La sera la passavo in veranda a sorseggiare vodka con la mamma di Quella Luana e cercare di non parlare del comportamento della figlia. Con scarso successo, vedesi osservazione di cui sopra. Lei sparita del tutto; io lì, a casa sua apposta per lei, e lei non mi parlava più per chi doveva lavare i piatti mercoledì a pranzo. La nostra amicizia è sostanzialmente finita per quello.

Nei dettagli di quel che successe dopo scendrò in un altro post, ché c’è un altro decimo anniversario in arrivo. Ma se prima ho parlato di “trauma”, non era proprio un’iperbole: quell’avvenimento mi ha segnato profondamente. È da allora che provo sempre un certo disagio a chiedere o ricevere ospitalità, soprattutto per più giorni. Ho costantemente paura di essere di troppo e non gradito, di star scroccando, e che chi mi ospita abbia accettato per pura formalità sperando che poi mi tirassi indietro e gli risparmiassi il peso della mia presenza in casa. Sono davvero ossessivo nel cercare di rendermi utile, come se fare le cose in casa significasse che, dopo tutto, non sono completamente inutile lì. C’è da apparecchiare? Dove sono le posate, le prendo? Posso dare una mano a tagliare qualcosa? Rimesto nella pentola mentre fai altro? Metto a scaldare? Sparecchio? Ti passo il piatto? Vuoi che li lavi io i piatti? Ma ti aiuto a spolverare? Cristoddio, dammi qualcosa da fare perché se sto seduto qui mentre tu fai le cose in casa di sicuro finisce che un’altra amicizia mi va a puttane.

E sì, col senno di poi lo capisco che la mia amicizia con Quella Luana non è finita per i piatti sporchi da lavare, ma perché era sbilanciata in partenza. Che non abbiamo litigato per il letto sfatto, ma perché lei era una dannata psicopatica e io lasciavo che mi usasse come sfiatatoio. E anche che ho avuto la mia fetta enorme di colpa, dopo, nel non averle esternato quel che pensavo (e sì, aveva ragione a dire che sono troppo passivo nei litigi) e spiegato chiro, tondo e subito perché, dal mio punto di vista, l’amicizia non era più recuperabile, invece che procrastinarla per mesi e mesi.
Resta però il fatto che, da allora, misuro il mio diritto di stare al mondo in base a ciò che posso fare per rendere la mia presenza a casa d’altri il meno disagevole possibile. Non c’è quindi da sorprendersi se la mia musofobia sia andata alle stelle nelle scorse settimane, visto che dovevo mettermi in una situazione – essere ospitato – che nella mia testa è fonte di conflitto totalizzante.
Comunque questo week end ho visto BriarRose, ieri ho visto Francischino e stasera finalmente vedo Katia; è un anniversario tondo di un avvenimento funesto, ma sono quattro giorni e mezzo che sono ospite della famiglia di Katia, mi trovo a provocare disagio (grazie agli scioperi di Trenitalia), eppure non sembrano infastiditi dalla mia presenza. Forse perché hanno la lavastoviglie e i piatti sporchi vanno lì?
Se non altro, anniversario non ti temo: è solo uno stupido litigio di uno stupido, afoso pomeriggio di dieci anni fa, non è un cattivo augurio. Razionalmente l’ho capito: le persone che ho intorno ora sono molto più salubri e di sicuro non scateneranno la terza guerra mondiale se mi cade un tovagliolo per terra. Forse è arrivato il momento di sepellire il fantasma di Quella Luana e convincermi che, in cambio dell’ospitalità, offro una compagnia tutto sommato piacevole.

Tuesday, 21 June 2016

Tenere assieme i pezzi

È stato calcolato non ricordo da chi che una bugia che viene detta su quattro è “sto bene”. Statisticamente è anche la più usata, più del doppio della successiva, ed è una risposta talmente automatica alla domanda “Come va?” che spesso, quando anche c’è il desiderio di essere sinceri e raccontare cos’è che non va, si finisce per dire che va “tutto bene” e ci si corregge un secondo dopo.

Personalmente, sono un maestro nell’interagire socialmente col sorriso sulle labbra mentre sto morendo dentro. Oggi, ad esempio, eccomi in giro per Milano a fare commissioni, sorridere alla bigliettaia, al controllore, alla signora che mi chiede qual è la prossima fermata, fra un po’ al commesso dell’Unieuro dove sto andando d’urgenza, mentre sento davvero i pezzi che cadono uno dopo l’altro da sotto le costole e vorrei solo buttarmi in un angolo a fissare il vuoto mentre tento, probabilmente col solito, scarso successo, di farmi un bel pianto per buttare fuori un po’ di negatività. Tutte queste interazioni sociali di cui farei a meno sono, purtroppo, obbligatorie: mi si è guastato il caricabatterie della fotocamera e sto facendo un viaggio per cacciare fuori cinquanta euro che mi sarei volentieri tenuto per sostituirlo (e sì, ciò ha sicuramente contribuito al malessere).

Piuttosto, è interessante vedere come io non faccia nulla per evitare tutte le interazioni sociali non indispensabili. Bardato di auricolari e muso lungo, le probabilità di essere contattato in treno sono scarse, a parte il controllore e la signora della fermata; invece, eccomi attaccato allo smartphone a commentare in allegria l’ultimo episodio di Game of Thrones sotto stati altrui, come se fossi davvero dell’umore di scambiare battute su quanto sia paraculata Daenerys o su quanto Ramsey Bolton sia dell’ottimo cibo per cani. O, ancora meglio, riempire di quory i commenti sulla ship di Sansa e il Mastino. Da una parte è vero, almeno così mi distraggo dall’ennesimo contrattempo invece che rimuginarci sopra per i quaranta minuti di andata più altrettanti di ritorno, ma interagire normalmente con le persone in un momento in cui mi sento profondamente anormale è faticoso. Davvero, davvero faticoso. E potrei evitarmelo almeno in parte.

Ancora più incomprensibile è perché vada deliberatamente a cercarmi interazioni che sono ancora più faticose e, nella maggior parte dei casi, direttamente spiacevoli aprendo Romeo e Grindr: non sono nemmeno dell’umore per rifarmi gli occhi con le offerte locali, rischio solo di fare effetto carne fresca e attirare le attenzioni del solito stuolo di gente ben oltre i limiti di età, o di ragazzi decisamente al di sotto dei miei standard, o – ancora peggio – ragazzi carini ma con cui non combinerò nulla perché non ho letteralmente mezzo minuto di tempo da buttare a questo giro. È un po’ l’abitudine, forse: esaurite le foto nuove su Instagram e le notifiche su Facebook, pur di non restare solo coi miei pensieri il dito va automaticamente ad aprire le app.

Beh, non ho comunque tempo di riflettere su questa mia forma di masochismo da socializzazione: sono quasi a Repubblica. Magari faccio un salto in Buenos Aires a prendermi un gelato: un po’ di comfort food non può che fare bene.

Friday, 15 April 2016

Salsomaggiore, Lolite e lettori CD blu metallizzato

Ho iniziato ad ascoltare musica da adolescente a Salsomaggiore Terme.
In realtà, ascoltavo musica sin da prima di nascere: la Mater aveva la scuola di ballo e quando insegnava da incinta, racconta, io battevo il piede durante il paso doble. Quando ero piccolo avevamo l’impianto stereo in salotto con giradisci e mangianastri, e io passavo le ore in poltrona ad ascoltare musica classica, da ballo o pop russo; poi arrivarono le musicassette di Fivelandia con tutte le sigle dei cartoni animati. Però vivevamo in una terra desolata dove MTV non prendeva, così ho saltato in tronco le Spice Girls, i Backstreet Boys e tutta la follia delle boyband / girlband Anni Novanta: il primo videoclip che ricordo è quello di Moi Lolita… di Alizée che vidi, appunto, a Salsomaggiore, dove il Procreatore mi portava in vacanza mentre lui andava alle terme per curare la sinusite cronica, courtesy dell’INPS. Wow, carina, ‘sta Alizée in discoteca col suo vestitino da campagnola, pensai subito.
Finalmente, nel 2001, MTV attraccò su frequenze captabili perfino in Giudecca e subito la Mater mi incoraggiò a farmi una cultura del pop contemporaneo. Era il periodo di Festival di Paola & Chiara e, quell’estate, tornai a Salsomaggiore; una sera, col Procreatore, la signora Maria dell’hotel e alcuni altri ospiti, andammo al bingo di Fidenza: con un paio di puntate vinsi 15 euro per una cinquina e 87 per un bingo completo. Il giorno dopo, con quei soldi comprai il mio primo (e unico) lettore CD portatile e il mio primo CD, Festival delle sorelle Iezzi. La quantità di conversazioni inconcludenti col Procreatore calò vertiginosamente perché avevo trovato l’ammoreh della mia vita: la musica in cuffia.

Il fedelissimo Sony D-E351 Personal CD Player blu metallizzato col cosino olografico.
Il resto è storia e quel lettore CD mi ha accompagnato in Inghilterra, Spagna, Irlanda e chi si ricorda dove altro, riproducendo Fallen degli Evanescence fino probabilmente a non poterne più, finché la Apple non mise fine alla vita dei CD con l’iPod. E quando il primo iPod mi si ruppe, e il secondo fu reso temporaneamente inutilizzabile da un errore del mio computer che non mi faceva accedere a iTunes per caricarci la musica, fu di nuovo il lettore CD a farmi compagnia nel mio pendolare tre volte la settimana da Alghero a Sassari in pullman (stavolta riproducendo fino alla nausea The Heart Of Everything dei Within Temptation). Ce l’ho ancora in un cassetto giù ad Alghero e, nonostante la vernice graffiata, l’attacco per le cuffie che ogni tanto isola la traccia vocale e lo sportellino delle batterie che si regge su a scotch, funziona ancora.

Insomma, se ripenso ai primi momenti in cui ho ascoltato musica con mentalità semi-adulta, mi vengono in mente Alizée, Salsomaggiore Terme, l’Hotel Azzurra, la villetta creepy che si vedeva di fronte, il profumo degli ippocastani e delle foglie che iniziavano a cadere, la città invasa da aspiranti Miss Italia (ché si andava in quel periodo), le terme Berzieri, la piscina termale pubblica e un lettore CD blu metallizzato.
Perché mi vengono in mente proprio ora? Perché la mia nostalgia per quegli anni sta sfuggendo di mano e mi sono scaricato tutta la discografia di Alizée. Side note: il primo album, quello con Moi Lolita… è abbastanza imbarazzante, ma col passare degli anni la ragazza ha tirato fuori delle cose davvero lodevoli. Datele una possibilità, anche se siete ex-adolescenti imbarazzati dalla cotta per il suo reggiseno imbottito.

Monday, 21 March 2016

Pensieri stagionali random

Ieri era il primo giorno di primavera e ho ucciso la prima zanzara dell’anno. Ok, ero al padiglione Expo di Marghera, che è circondato da paludi in cui quei piccoli mostri possono proliferare, ma credo che ciò significhi che la parte brutta dell’anno è ufficialmente iniziata. Se solo sabato mattina Venezia era avvolta da una coltre di nebbia che rendeva i suoi contorni misteriosi e affascinanti, oggi la temperatura è tiepida e il sole è onnipresente. Gli odori sono più vividi (e fra i canali di Venezia questa non è decisamente una buona cosa), gli insetti proliferano, la gente sciama fuori di casa e prende d’assalto le strade. Insomma, il mondo sta uscendo dal letargo e sta per diventare nuovamente insopportabile.
È vero, ultimamente sembra quasi che lo faccia apposta, a prendermi male per tutto ciò che le persone normali amano: Natale e Capodanno, poi Carnevale, la primavera, Pasqua… insomma, sono entrato nel circolo vizioso per cui le cose che mi lasciano indifferente ma rendono felici gli altri mi urtano proprio perché mi sento escluso dell’atmosfera gioiosa. Misery loves company: voler trascinare il resto del mondo nel mio stato di perpetua grumpiness è decisamente poco salutare.

D’altro canto, però, non mi sento pronto a rinunciare al conforto che l’autunno, l’inverno e tutte le cose ad essi associate mi portano: più che imporre una valenza negativa sugli altri privandoli di ciò che amano, la mia priorità è la positività che ciò che amo io dà a me.
Il fatto è che il cielo nuvoloso, il freddo, il buio, mi danno un senso di protezione. Le nuvole sono un limite che rende il cielo meno immenso, l’oscurità taglia via una larga fetta di modo e rende tutto più anonimo. E più fa freddo, più posso coprirmi di strati di vestiti che mi fanno da armatura contro il resto del mondo. Insomma, l’inverno è un bozzolo confortevole nel quale posso accoccolarmi, in cui ci sono più barriere fra me e “là fuori”. Ed è anche un momento in cui il resto del mondo è più goffo, lento, letargico e mi fa sentire meno fuori posto: ogni cosa è più lenta e mi sembra di arrancare di meno per starci appresso.
Cavolo, a rileggermi sembra che stia rivivendo il periodo goth che ho passato da adolescente, solo a livello più esistenziale, interiorizzato, senza ostentarlo per moda. Fatto sta che non mi sento affatto pronto ad affrontare un’esplosione di vitalità tutto intorno a me. E, sotto sotto, sto sperando che all’inverno mite che abbiamo avuto corrisponda un’estate moscia, fresca e piovosa.

Sunday, 30 November 2014

Emilie Simon @ Rocher de Palmer


Il gioco della serata si chiama “Trova il Narcissus”. Indizio: sono quello che sorride al punto di emanare arcobaleni che perforano lo schermo. Del resto, il centro esatto della prima fila a un concerto memorabile come quello di Emilie Simon a Bordeaux questo mercoledì è un ottimo motivo per essere felici.
Ho parlato a grandi linee della mia visita a Bordeaux tenendo il giorno dell’evento clou per un post a parte: mercoledì mi sono svegliato di buonora, ho fatto colazione, tirato fuori il biglietto, preparato i booklet e il pennarello nella speranza di eventuali autografi e scritto due righe per accompagnare il mio piccolo regalo per Emilie, una selezione di stampe di mie foto ispirate alle sue canzoni.


Armato de La Domatrice di Agatha Christie, mi sono quindi recato al Rocher de Palmer in anticipo di svariate ore, pronto ad aspettare l’apertura dei cancelli incurante di freddo e pioviggine. Ora, so che la coda è chilometrica già svariate ore prima del concerto solo in Italia – lì infatti non è arrivato nessuno fino a un’oretta e mezza prima dell’apertura – ma non volevo correre rischi. In fondo, avevo il mio libro, la giacca pesante, il chioschetto degli hot dog all’angolo del piazzale… insomma, tutto ciò che serviva.
Essendo il Rocher de Palmer un centro multisala aperto anche per attività pomeridiane, passata l’ora di pranzo è arrivata gente e ho chiesto alla gentilissima receptionist se potevo passare il pomeriggio nella lobby del locale. Nessun problema: avrei dovuto uscire un’oretta prima dell’apertura ufficiale per il concerto e fare la fila, ma fino ad allora il divanetto era tutto mio. Così, alla fine, non ho nemmeno patito il freddo e l’umido. Quando sono uscito di nuovo c’erano solo una ragazza di Bordeaux e un’allegra e simpatica signora parigina che segue Emilie in quante più date possibile, così ho fatto amicizia e sono potuto andare a prendere un altro hot dog sapendo che, se fosse arrivata altra gente, non avrei perso il posto in fila. L’unico incidente spiacevole è stato l’arrivo di un ubriacone che sbraitava non so cosa alla piccola folla che si era radunata ordinatamente all’ingresso, ma per il resto la coda è stata scorrevole, non c’è stato l’assalto al posto come capita da noi e ho potuto conquistarmi un’ottima postazione in tutta calma.
Come gruppi di spalla, Emilie ha deciso di ingaggiare ogni sera qualche artista locale; a noi sono capitate Le A, una band post-rock molto piacevole composta da tre ragazze e un batterista, che hanno intrattenuto il pubblico con un’ottima prova e mi hanno fatto venire voglia di approfondire la loro discografia appena avrò tempo. Terminato loro e rimontato celermente il palco, finalmente le luci si sono abbassate e, sulle prime note di Perdue Dans Tes Bras, la silhouette di Emilie si è stagliata contro il paravento in fondo al palco.

1. Perdue Dans Tes Bras
2. Des Larmes
3. Graines D’Étoiles
4. Rose Hybride De Thé
5. Paris J’Ai Pris Perpète
6. Fleur De Saison
7. The Eye Of The Moon
8. Désert
9. Menteur
10. I Call It Love
11. To The Dancers In The Rain
12. Opium
13. Dreamland
14. Rainbow
15. I Wanna Be Your Dog

16. Flowers
17. Wicked Game
18. Quand Vient Le Jour
19. Les Étoiles De Paris
Ovviamente, fatta la foto commemorativa ho subito messo via il telefono per godermi appieno l’esperienza live, e per ottimi motivi.
Tanto per cominciare, il suono era pressoché cristallino: un dettaglio semplice ma fondamentale per chi, come Emilie, fa dell’atmosfera uno dei cavalli di battaglia della sua musica. In secondo luogo, la scaletta è stata pressoché perfetta: Emilie ha suonato tutto Mue compresa Wicked Game, alcuni cavagli di battaglia storici come Désert, Flowers, Rainbow o Fleur De Saison, ma anche la mia preferita, Graines D’Étoiles.
Come album, The Big Machine e Franky Knight sono stati un po’ trascurati con, rispettivamente, due e una sola canzone estratte, ma c’era da aspettarselo: il primo perché, purtroppo, non è un fan favourite, il secondo perché è molto personale ed era ancora troppo presto per rispolverarlo. L’unico pelo nell’uovo che potrei trovare sarebbe la mancanza di Swimming, l’altra mia canzone preferita di Emilie, ma è una cosa strettamente personale.

L’allestimento del palco era piuttosto minimalista, dominato da luci calde e per lo più naturali che ben hanno accompagnato la vena cantautorale che fa da base a Mue; tuttavia, non sono mancati effetti speciali, come i giochi di luci e ombre sui paraventi che facevano da sfondo, la luce blu che ha completato l’atmosfera notturna e onirica di Eye Of The Moon, il rapido scorrere dei colori dell’iride su Rainbow, i colori psichedelici di Dreamland o le piccole chiazze di luce proiettate sullo sfondo per richiamare il titolo di Les Étoiles De Paris. L’insieme è stato molto appropriato all’atmosfera delle canzoni, ora intimo e accogliente, ora energico e colorato, ora misterioso e sognante.

La performance è stata ineccepibile, con Emilie che si è destreggiata con grande agilità fra le line vocali, spesso accompagnandosi con gli strumenti per dare a ogni canzone la veste sonora più adatta per rendere al meglio: dal piglio un po’ più rock per dare energia al pubblico, a quello più acustico e low key per lasciar posto alle emozioni, fino a qualche momento deliziosamente sperimentale. C’è stato il suo ormai iconico set di filtri e riverberi vocali da braccio, che ha effettato dal vivo la voce sui brani storici trip-hop ed elettronici come Désert, Rainbow e Dreamland; ha imbracciato la chitarra per canzoni come Fleur De Saison, Des Larmes, I Wanna Be Your Dog e Quand Vient Le Jour; e non ha mancato di sedersi alla tastiera, armata del suo metronomo touchscreen su cui variare i beat, per proporre una versione sperimentale e minimalista di Opium.
La squadra di musicisti che la accompagnano in tour è ormai ben rodata e ha reso al meglio, senza far sparire le rispettive doti sullo sfondo né rubare la scena alla vera protagonista.

Quando il concerto è terminato, ero semplicemente in estasi. Purtroppo non ho avuto tempo di aspettare che Emilie uscisse dai camerini perché dovevo correre a prendere il tram per acchiappare l’ultima coincidenza col bus e tornare in albergo, ma ciò non ha reso la serata meno memorabile. Emilie Simon è un’ottima autrice, una vocalist di enorme talento e una performer impeccabile. Per quanto ami la sua musica su disco e già solo ascoltare quelle canzoni sarebbe valso il viaggio a Bordeaux, la sua resa dal vivo è stata talmente spettacolare da superare ogni mia previsione e farmi tornare a casa arricchito e contento di aver fatto quest’esperienza.