Saturday 18 January 2020

Trip the station, change channel

In realtà non c’è molto di nuovo da dire rispetto al mio post di due anni fa su chi si lamenta della musica italiana ma continua imperterrito a guardare Sanremo.
A questo giro non è la musica, è la conferenza stampa di Amadeus che ha fatto inalberare il mondo progressista in una maniera che non so nemmeno se sia pretenziosa o legittima. Ma onestamente, che Amadeus non trovi nulla di meglio da dire su donne che sono lì specificamente in veste di eye candy non è davvero colpa sua, il problema è a monte. Sì, in TV è giusto che ci vada la gente telegenica, ma che si limiti a fare da complemento di arredo, uomo o donna che sia, è diventato di cattivo gusto nel 2020.
E da grande detrattore del Festival che, sotto sotto, prova una grandissima schadenfreude nel vedere il backlash che si sta scatenando, devo dirlo: sulla questione del presunto motto fascista si sta scadendo nel fazioso. “Ho tante amiche donne” è una difesa stupida e screditata da secoli, ma “me ne frego” è un’espressione talmente di uso comune che l’ho scoperto adesso, che lo disse anche LVI. Davvero, con tutta l’antipatia per Sanremo, stiamo esagerando.

In compenso, sapete qual è la buona notizia? Qualcosa, nel nostro piccolo, possiamo farlo tutti. Per cominciare, sollevare un polverone ora, sì, ma senza confondere l’albero con la foresta: non è Amadeus, non è la conferenza stampa, è il sistema stesso a essere fallato e necessitare di un bel cambio di rotta.
Ogni tanto, però, servirebbe anche sfatare il mito degli Italiani che sono bravi solo a lamentarsi delle cose che non vanno ma, quando si tratta di rimboccarsi le maniche e mettere in atto le soluzioni, improvvisamente hanno la memoria corta. Vi dà fastidio il modo in cui le donne sono state impacchettate nella scenografia del palco? Vi dà fastidio l’ipocrisia stessa di aver “ampliato la presenza femminile” ingaggiandone non so quante, ma relegandole a comparse intercambiabili al fianco del maschio dominante? Ottimo: Sanremo non si tiene in piedi da solo. Ci sono sponsor che ci investono soldi e che contano sui milioni di persone che guarderanno la kermesse per recuperarli. Iniziate a deludere loro, così ci penseranno due volte, la prossima volta, prima di finanziare ‘sto baraccone, e chi lo gestisce dovrà per forza adeguarsi ai gusti del pubblico.
Perché lamentarsi ora e poi incollarsi al televisore e gonfiare ulteriormente la bolla mediatica intorno a Sanremo commentando ogni singola cosa non serve a nulla. L’unica vera soluzione contro una TV davvero stupida è questa:

O mio dio, c’ero ai tempi quando Madonna era artisticamente rilevante: SONO PROPRIO VECCHIO.

Friday 17 January 2020

Ansia da prestazione

La Mater ha il vizio di farmi iniziare la giornata con uno spropositato info dump. Il che è già fastidioso normalmente, visto che appena sveglio ho bisogno di una mezz’ora buona per avviare il sistema operativo, scendere a patti col fatto di dover affrontare un altro giorno, abbandonare le fantasie del dormiveglia, controllare i social media per ritardare il nuovo giorno, eccetera.
Ovviamente, il mio fastidio aumenta ulteriormente quando quest’info dump si riferisce agli impegni che, nonostante le abbia detto mille volte di smettere di farlo, ha già preso per me senza nemmeno consultarmi, specie con terze o quarte persone.

La mia giornata di oggi è iniziata con un massiccio attacco d’ansia per una variazione su questo tema: la Mater non ha preso impegni direttamente per me, ma ha promesso a uno del gruppo di Pokémon Go locale (di cui sono admin) che l’avremmo loggato su un telefono secondario per fargli il raid EX di Regigigas visto che non poteva venire; solo che dovevamo già loggare un altro giocatore che, pur avendo ricevuto il biglietto, è partito perché non vive stabilmente qui.
Senza dilungarmi, avevamo abbastanza telefoni per tutti, ma entrambi i giocatori erano loggati con Google sullo stesso dispositivo, quindi qualcuno andava spostato sul secondo. Il primo era irraggiungibile causa lavoro, l’altro non particolarmente tech-savvy e difficilmente in grado di coordinarsi con noi per fare la verifica di sicurezza richiesta da Google sul suo telefono per permetterci di fargli il log in senza problemi. Quindi il rischio che, promettendo troppo allegramente e velocemente, la Mater finisse per scontentare qualcuno era alquanto concreto, e la cosa mi ha causato un attacco d’ansia che si è protratto finché non sono riuscito a guidare il giocatore poco tech-savvy e farlo accedere al secondo telefono. Hurrà, tutti salvi.

Quindi, che cosa abbiamo imparato quest’oggi su Alessandro, bambini?
Buona parte della mia ansia deriva dalla mia percezione delle aspettative altrui nei miei confronti e del giudizio che ne consegue. Perché l’idea di deludere me stesso, alla fin fine, non mi preoccupa più di tanto – quella è regolare depressione. Ma l’idea di vedere la disapprovazione e la delusione negli occhi di qualcun altro davanti al quale mi sono sopravvalutato mi paralizza. Peraltro, so che sono aspettative totalmente falsate e proiettate da me stesso, ché chiaramente se ci fosse stato un disguido tecnico tipo non riuscire a loggare uno dei due non se la sarebbero presa e non mi avrebbero incolpato direttamente, but still.

Comunque questa è un’altra di quelle epifanie di cui non so che fare. Fantastico, ho appurato che non mi preoccupo nemmeno più di deludere me stesso perché ormai è la mia condizione esistenziale di default, ma poi? Come risolvo il mio problema con gli altri per riuscire a essere solo depresso e non anche ansioso?

Monday 13 January 2020

Non ho l’età

Ho detto spesso, nel corso degli ultimi dieci anni, che per tutti dovrebbe arrivare un momento in cui si è troppo cresciuti per identificarsi in una sottocultura. L’ho sempre inteso più in senso mentale che fisico: certo, vedere i metallarozzi di mezza età con la pancetta che sporge dai pantaloni in pelle e il codazzo di capelli lunghi intorno alla pelata non è un bello spettacolo, ma lo è ancor meno ascoltare i pregiudizi che rotolano fuori dalla loro bocca.
Gli stereotipi associati ai vari metallari, rapper, goth, emo, hipster e chi più ne ha più ne metta sono un trampolino, un punto di partenza: si trova un tipo di estetiche e una visione del mondo a noi affini e ci si costruisce sopra una personalità che comprende, e non si limita a, quegli aspetti. Da ragazzini è normale e scusabile identificarsi fortemente con la sottocultura scelta, farne un motivo di orgoglio e fare la guerra alle altre cricche, ma dopo una certa età diventa ridicolo.

D’altro canto, è pur vero che, dietro la scelta, c’è un’affinità di base che non sparisce con la moda, e nemmeno con l’evoluzione personale: nel mio caso, l’adolescente / ventenne che ascoltava solo roba gotica (anche a costo di slabbrare la definizione per includerci le cose variegate che in realtà gli piacevano), si truccava male, si vestiva anche peggio e girava con le borchie, era lo stesso bambino che, vedendo un passaggio a livello, esclamava giubilante: “Mercoledì si sarebbe buttata sotto il treno” del tutto ignaro che gli adulti lì intorno rabbrividivano, e lo stesso trentenne che ama ancora lo smalto nero, odia prendere il sole e ascolta ancora volentieri gli Evanescence, i Within Temptation, i Theatre of Tragedy e tutta la cricca (sul perché anche il metal sia gothic ho scritto un post anni fa; se cinque anni dopo avete ancora da ridire, siete il genere di imbecilli di cui mi lamento nel primo paragrafo).

Il trucco, quindi, sta nel trovare un equilibrio, nell’imparare a non rinnegare parti di se stessi a seconda dei confini di una sottocultura (sia quelle che si trovano fuori, se vi si vuole aderire, sia quelle che si trovano dentro, se se ne vuole prendere le distanze), e a non aggrapparsi ad esse con unghie e denti quando diventano obsolete nel percorso di crescita.
Ironicamente, però, a questo giro è proprio il lato fisico a spingermi ad abbandonare uno dei capisaldi della mia gothness residua: non si tratta di pancetta né di pelata incipiente, quanto del fatto che il mio fisico non regge più bene l’inverno. La temperatura va giù, l’umidità va su, e mi ritrovo subito col ginocchio sinistro e la scapola destra doloranti (il primo me lo sono sfasciato grazie all’incompetenza del prof di ginnastica del liceo, la seconda non ne ho la minima idea). Nonostante essere magro mi conceda il privilegio di girare col pigiama in pile sotto i vestiti, il freddo mi entra comunque nelle ossa e mi fa tremare. E mentre cammino è ancora sopportabile, perché probabilmente è anche colpa del fatto che a Trieste vivo in un appartamento col riscaldamento, ma stare seduto in casa qui ad Alghero, al freddo con solo la stufetta alogena o il condizionatore, mi fa assiderare ed entrare in letargo. La pelle mi si secca e devo metterci quintali di crema. Le labbra mi si screpolano se non ci metto sopra il balsamo prima di uscire. E la depressione peggiora (sì, perfino peggio!) con l’accorciarsi delle giornate e l’arrivo del brutto tempo. Mio dio, come sto diventando mainstream, ma il punto è che, a trent’anni suonati, il mio corpo sta cambiando e non regge più botta durante l’inverno.

In tutto ciò, il vero problema è che, oltre a non reggere più il freddo, continuo a non reggere affatto il caldo e odiare profondamente l’estate. Ho perso la mia dimora senza trovarne un’altra perché, ancora una volta, non mi va bene nulla. O forse sono io che non vado bene a nulla. TL;DR, tutto ciò mi fa sentire come se non avessi un posto tutto mio al mondo.
Il che, a ben vedere, è molto gotico.

Tuesday 7 January 2020

Only human, after all

Con i roghi in Australia, è tornato puntualissimo il guilt-tripping nei confronti di quelli che, l’anno scorso, si sono preoccupati per Notre Dame, perché di quello tutti parlavano e tutti hanno cacciato i soldi, mentre della mia cena che si è bruciata al microonde, brutti ipocriti, a nessuno è fregato. Nulla di diverso, in sostanza, da ciò che è successo lo scorso agosto con l’Amazzonia (e con la Siberia, ma in misura minore… se vogliamo ripagare con la stessa moneta), ma aver scoperchiato di nuovo quella latta di vermi mi ha offerto diverse considerazioni da aggiungere al mio rant sulla “cultura dell’invidia” (l’atteggiamento per il quale se qualcuno ha più di me, la mia prima reazione non è cercare di migliorare me stesso ed elevarmi al suo livello, ma distruggere lui per portarlo al mio).
In ordine sparso, sono giunto alla conclusione che:

1) La partecipazione di chi sminuisce l’impatto di una tragedia per attirare l’attenzione su un’altra non è sincera.
Se non hai l’empatia necessaria per capire perché il rogo di Notre Dame abbia scatenato una simile risposta emotiva nell’opinione pubblica occidentale, ho seri dubbi sulla tua capacità di sentirti coinvolto in una qualsiasi altra tragedia, che sia l’Amazzonia, la Siberia o l’Australia. Per solidarizzare è necessaria la capacità di immedesimazione, che hai chiaramente mostrato di non possedere: l’unica conclusione logica è che vuoi cavalcare l’onda della tragedia più recente con un’opinione “controversa” per attirare l’attenzione su di te a discapito della tragedia stessa (a cui stai facendo un pessimo servizio). Di conseguenza, sei una persona orribile.

2) Il Tragediometro è inutile.
Non è una gara a quale tragedia abbia maggiore o minore impatto. L’empatia non è una torta, non ha una quantità finita: può essere estesa a più di una tragedia, senza che per farlo la si tolga alla precedente. Spesso non è nemmeno una questione di quantità, quanto di differenza: diversi eventi colpiscono diversamente, ma entrambi possono essere altrettanto tragici.
Fra l’altro, decidere retroattivamente che una tragedia meritava una reazione minore della successiva è intellettualmente disonesto e piuttosto stupido. È molto più dignitoso ammettere che di quell’altra non ti fregava nulla e per quello ti dà fastidio che

3) Criticare la generosità è meschino.
Sul serio la prima cosa che ti viene da criticare è che qualcuno abbia donato di tasca propria dei soldi per la collettività? Non le cause di quell’incendio, non le cause di questo, ma che ci sia stato qualcuno a cui fregava qualcosa di Notre Dame e ha sborsato soldi per il restauro. Che problemi hai? Ti rode che quei soldi non li abbiano dati a te? Fatti un esame di coscienza.

4) Siamo solo umani, dopo tutto.
Qui sarò io ad andare controcorrente, ma considerare una tragedia ambientale intrinsecamente peggiore di una culturale è stupido e dimostra una completa incomprensione del ruolo che noi, come specie, abbiamo sul pianeta. Sono cose diverse ma hanno lo stesso valore, e hanno valore unicamente perché noi esseri umani glielo diamo.
La “natura”, la biosfera, la vita terrestre in generale, andrà avanti a prescindere da noi: alla peggio, stiamo potando l’albero tassonomico come molte altre estinzioni hanno fatto. Qualunque ecosistema stiamo distruggendo (foreste, laghi, barriere coralline), se ne formerà uno nuovo al suo posto; qualunque specie facciamo estinguere, col tempo se ne evolverà una nuova che occuperà quella nicchia. Cioè, cavolo, perfino il sarcofago del reattore di Chernobyl è diventato un ecosistema! Ci vuole molto hybris da parte nostra per credere che stiamo avendo un impatto definitivo.
L’ambiente che dobbiamo proteggere è quello attuale, la fragile nicchia ecologica che permette alla nostra specie di prosperare: i cambiamenti che apportiamo renderanno difficile la nostra sopravvivenza, non quella della vita in generale.
Non solo: considerare ogni singolo ecosistema e ogni specie che contiene preziosi e da preservare a tutti i costi è un concetto puramente umano, perché all’evoluzione frega nulla della sopravvivenza delle singole specie. Non ci interessa preservare la Barriera Corallina per la natura, ma per appagare il nostro concetto, puramente teorico e artificiale, di biodiversità. A pensarci bene, non è poi così diverso da voler preservare un monumento artificiale: entrambe le cose rendono la nostra esistenza, la nostra esperienza del mondo quella che è.
Abbiamo bisogno di proteggere il nostro ecosistema, ma a che pro sopravvivere senza la nostra cultura, senza le cose belle, artificiali e naturali, che abbiamo intorno?
E comunque, una cosa non disturba l’altra.

Sunday 5 January 2020

The Phantom Limb

Truly, madly, deeply, sadly
Dead and gone.
Canvas burning, spark a yearning,
Carry on.

I feel, yet I reach into thin air.
You heal to your heart’s content.

A volte, quando la notte mi alzo per andare in cucina a bere mentre sono qui ad Alghero, mi ritrovo ad allungare la mano verso il divano. Quando Murka era viva, la cercavo delicatamente a tentoni nel buio finché non la trovavo acciambellata: allora le accarezzavo la pancina, lei magari si svegliava, sbadigliava, mi annusava e si riaddormentava. Solo dopo tornavo in camera e mi ricoricavo.
Non passava notte in cui non lo facessi: semplicemente, non riuscivo a contemplare l’idea di essere nella stessa stanza con Murka senza darle attenzioni, senza almeno accarezzarla, anche se stava dormendo.

Searching deep within you for strength to continue
Through sinew and bone.
Never mind mending damaged nerve endings,
I’m accident-prone.

I feel, yet I reach into thin air.
You heal to your heart’s content.

In questi piccoli momenti, sento ancora la presenza di Murka. È simile ma al tempo stesso diverso, ad esempio, dalla volta della busta di carta: il senso di disorientamento è uguale, ma mentre lì mi prendeva un tuffo al cuore ogni volta che realizzavo che la sagoma che vedevo con la coda dell’occhio non era Murka, quando mi allungo a cercarla nel buio la realizzazione è graduale e subentra la rassegnazione.
Un paio di volte l’ho fatto deliberatamente: ho affondato le dita nella stoffa del divano, fredda, vuota, per sentire che Murka non era lì. Lo sapevo, che non l’avrei trovata: non ero in trance, mezzo addormentato, convinto che ci sarebbe stata, ero sveglio, cosciente, consapevole che è morta da cinque anni. Ma ho comunque voluto portare a termine quel movimento, che ho iniziato senza davvero pensarci, nonostante il risultato diverso.

I have had a thousand days to wither,
Missed the point of no return.
I have made my changes for the bitter
And watched your painted likeness burn.
It could not save me, nor you,
The passers-through, no matter
Who might make it to the end,
It did not save you.

È un attimo di automazione, un gesto che ho abituato il mio corpo a fare, come camminare, respirare, suonare il pianoforte. Il mio braccio ricorda ancora che, nel buio, andando in cucina, era suo dovere accarezzare Murka. È diventato parte di ciò che sono.
Murka è un po’ un mio arto fantasma: ha fatto parte di me da sempre, e la consapevolezza della sua assenza non può cancellare in un secondo tutte le azioni che ero programmato a fare per lei. Così come quando si perde un braccio si tenta ancora di muoverlo, a volte si sente addirittura prurito, solletico o dolore là dove non c’è più nulla.
E la cosa un po’ mi consola: magari significa che a strada per guarire dal dolore della sua perdita è ancora lunga, ma almeno non la dimenticherò. Fa parte di me in una maniera troppo viscerale perché possa accadere.

I stare at the limb as its precious skin becomes illusion.
These bones are at home and I’ll keep on cherishing them.

I feel, yet I reach into thin air.
You heal to your heart’s content.
I still feel, yet I reach into thin air.
You heal to your heart’s content, heart’s demand.

Wednesday 1 January 2020

Roar


È assolutamente irrazionale, lo so, ma a questo gito sotto sotto sono un po’ entusiasta del Capodanno. L’unico motivo è che sono iniziati gli Anni Venti, e una qualche parte di me spera che, esteticamente e spiritualmente, possano riportarci ai veri Anni Venti. Quelli del secolo scorso, con le fingerwaves, i lustrini, le frange, il trucco pesante, le piume di struzzo e i turbanti. Gli Anni Venti di Agatha Christie, dei viaggi archeologici in Medioriente, della spensieratezza, del gin, del jazz, del charleston, del cinema muto, delle sedute spiritiche.

Che poi, di avvisaglie degli Anni Venti ne abbiamo avute ultimamente, specie qui in Italia, ma quelle sbagliate. Siamo al giro di boa, al centenario di ciò che ha innescato la pagina più buia della già difficile storia europea: abbiamo la possibilità di riportare indietro il glamour e la bellezza di quel periodo senza per forza ripeterne gli errori.
La situazione attuale non è rosea, ma oggi è Capodanno. Di più, è l’alba di una nuova decade: voglio essere positivo. Voglio crederci, voglio pensare che saranno dieci anni di flapper e progressi sociali. Così come gli Anni Dieci sono iniziati bene e sono crollati verso la metà, questi Anni Venti possono iniziare dal fondo e risalire.

Abbiamo solo bisogno di crederci, convincerci e agire. Magari finiremo ad amare questi Anni Venti quanto abbiamo amato gli scorsi.