Thursday 30 July 2020

La tempesta prima della calma

Una cosa che non apprezzo molto di me è che, passata la tempesta, mi guardo indietro e penso con fastidio che le mie reazioni siano state eccessivamente drammatiche. Il che non è scorretto, ok, ma credo che rientri nel pattern negativo di delegittimare le mie emozioni e non considerarle abbastanza importanti o valide da esistere.
Nelle scorse settimane ho toccato il fondo della nevrosi come non mi capitava da anni. Mi sono sentito genuinamente in trappola in una vita nella quale non c’è una cosa, grande o piccola, che vada come si deve, in cui anche fare qualcosa di semplice è una lotta estenuante. Ho avuto un desiderio strisciante che tutto finisse (pur, per fortuna, non sentendo di voler istigare direttamente questa fantomatica fine) perché davvero, esistere mi pesava troppo.
Il trigger di questo meltdown è stata la spedizione del pacco di roba estiva da Trieste: già aver dovuto disturbare Giulia mi ha messo ansia nonostante fosse stata lei a proporre di mandarle la chiave di camera mia così che potesse preparare e spedire tutto. Ma beh, da una parte QUALCUNO ha riaperto le ferite lasciate da Quella Luana e ancora non mi sono del tutto ripreso, dall’altra sapevo di aver lasciato camera in uno stato imbarazzante e che col passare dei mesi la situazione sarebbe stata solo peggiore. È per questo che ho procrastinato moltissimo la spedizione della chiave, così alla fine ho beccato proprio il periodo in cui TNT era in subbuglio: focolaio di covid, sindacati inferociti, spedizioni bloccate ad oltranza e poi difficoltà a smaltire tutto l’accumulo.

Il fatto è che io volevo la mia roba, dannazione. Volevo riceverla nei tempi indicati dal servizio per cui ho pagato, senza dovermi sbracciare con mille telefonate, entrare in ansia al pensiero che si perdesse, o temere che Giulia pensasse che la ritenevo in qualche modo responsabile della situazione o che non apprezzassi il tempo e le energie che aveva speso a fare la spedizione. Oh, e come intuibile da ciò che ho scritto nello scorso paragrafo, ovviamente pensavo che fosse colpa mia per aver aspettato tanto a mandare la chiave.

Davvero, tutto questo macello ha causato una reazione a catena nella mia testa a causa della quale sono stato male come nemmeno ricordavo fosse possibile, tanto che ho perfino snappato male a Katia quando ha cercato di scuotermi facendomi notare che stavo cercando deliberatamente un pattern di negatività in qualunque situazione e nutrendo ulteriormente il mio malessere.

Comunque, alla fine il pacco è arrivato (ieri, con due settimane di ritardo) e il peggio è passato. Anzi, gli impiegati degli hub del Nord Sardegna sono stati di un’umanità e professionalità incredibile nel tentare di rintracciare il pacco (che si è scoperto essere rimasto bloccato a Padova perché quegli imbecilli erano riusciti a staccare l’etichetta con l’indirizzo), mettere fretta ai colleghi per farlo recapitare, tenermi aggiornato a ogni passo e perfino darmi i loro contatti personali in modo da essere sicuri di trovarmi a casa per la consegna. Di quello sono genuinamente grato, anche senza il “something something. ogni situazione ha i suoi risvolti positivi e ogni periodo buio ha un aiuto inaspettato” o altre perle di positività tossica.
In realtà non me ne frega nulla, di aver imparato qualcosa da quest’esperienza o meno, di esserne cresciuto o meno, di aver resistito eccetera: mi sento liberato di un enorme peso sono solo contento che la tempesta sia passata e di potermi godere un briciolo di calma finalmente.

Saturday 18 July 2020

Parliamo seriamente di privilegio bianco

Chiariamo una cosa: è vero, essere accusati di “white privilege”, privilegio bianco, fa schifo; non c’è dubbio. Noi bianchi non l’abbiamo chiesto: ci siamo semplicemente nati e fa schifo che ci si rinfacci qualcosa su cui non abbiamo controllo. Sembra ingiusto essere ritenuti colpevoli di qualcosa che non abbiamo attivamente cercato o che non commettiamo deliberatamente. E sì, ci sono bianchi che lo sfruttano apposta, ma che dire di quelli che non lo fanno?

Ma sapete cosa fa ancora più schifo? Essere del tutto svantaggiati. Esserlo per davvero, nel quotidiano: quando si cerca una casa o un lavoro, quando si deve scegliere se fare figli in base a cosa si può offrire loro, o quando ci si trova in una situazione di vita o di morte.
Quando ciò che si è mette in svantaggio, beh, fa più schifo di quando ci ricordano che sotto alcuni punti di vista la nostra vita è più facile.

E attenzione, ho detto “più facile”, non “facile”.
Essere privilegiati non significa che tutte le nostre vite sono rose e fiori. Non toglie validità alle nostre emozioni negative, né agli ostacoli che dobbiamo superare o agli sforzi che dobbiamo compiere per vivere la vita che vogliamo. Significa solo che non abbiamo un ulteriore livello di difficoltà in cima a quelle che già dobbiamo affrontare.
E fra l’altro, si può perfino essere privilegiati sotto alcuni aspetti (bianchi) ma svantaggiati in altri (non eterosessuale). È una scala con varie gradazioni già senza tener conto delle sensibilità e forza d’animo individuali.

Per cui, cari bianchi, la prossima volta che ci sentiamo infastiditi quando qualcuno sottolinea il nostro privilegio bianco, magari proviamo a reindirizzare il fastidio. Non puntiamolo contro la persona svantaggiata che ce lo fa notare, miriamo al sistema che crea questa situazione.
Non è colpa nostra se siamo nati bianchi e troviamo ingiusto che ce lo si faccia pesare? Beh, facciamo sì che smetta di essere un problema. Impegnamoci, pretendiamo che tutti abbiano un punto di partenza equo nella vita a prescindere da come e dove sono nati, invece di far finta che sia già così.

TL;DR: quando vi rinfacciano un privilegio, non gonfiate il petto strillando che vi trattano male. Reindirizzate il fastidio alle norme sociali che danno agli altri una situazione di vita svantaggiosa. Non importa se l’avete chiesto o meno, se ci speculate sopra o meno: è un’ingiustizia, ed è quello che dovrebbe farvi arrabbiare, non quando vi fanno notare che non siete voi quelli che la subiscono.

Cocoon

Ho una confessione da fare: in quarantena non stavo poi così male.
 
Certo, c’erano giorni in cui avevo attacchi d’ansia alternati a momenti di depressione più profonda del solito, e tuttora mi guardo indietro e vedo due mesi di buco completo nella mia vita proprio come ci sono stati nel blog. Però era un malessere di provenienza esterna: preoccupazione per il disastro economico che pende sulla testa dell’Italia, per un virus la cui gravità si rivelava pian piano, per i morti, per la diffusione a macchia d’olio in tutta Europa.

Ma la quarantena in sé, quella non mi è pesata. Non poter uscire per me era non dover uscire. Non poter incontrare le persone per me era non dover inventare scuse per non farlo.
E tutta Italia ferma era, per me, io che non rimanevo indietro.

A una certa la Mater ha anche constatato con meraviglia quanto stessi gestendo bene la situazione: non mi appendevo ai soffitti in preda alla frustrazione, non guardavo fuori dalla finestra con desiderio, non mi lamentavo di essere chiuso in casa. Ho abbozzato un sorriso, ma non le ho detto che il mio stile di vita non è poi cambiato così tanto rispetto a prima. Anche perché come pensiero è agghiacciante: significa che in questi anni, specialmente gli ultimi due, la mia depressione è davvero peggiorata.

E infatti, non a caso, ora che siamo in fase di semiriapertura ho iniziato a sentirmi più ansioso. Mentre gli altri, le persone normali, iniziano a riprendere in mano la loro vita, tornano a uscire, viaggiano, s’incontrano, soprattutto vanno al lavoro, io ancora uso il virus come scusa per starmene chiuso in casa e non muovermi da Alghero, aggrappandomi con unghie e denti a ciò che resta di quel senso che mi dava la quarantena, di essere racchiuso in un bozzolo comodo, morbido e caldo, protetto da un mondo che improvvisamente non è più troppo veloce per me.

Sono un grandissimo egoista, ma una parte di me quasi aspetta con trepidazione la seconda ondata.
Sono diventato uno di quei mostri che, nel malessere, preferiscono far sì che tutti gli altri si abbassino a star male come loro piuttosto che cercare di migliorare se stessi.

Wednesday 15 July 2020

Ulteriori nevrosi da imbiancatura

Se pensavo che trasferirmi temporaneamente in un’altra stanza mentre imbiancavo la mia camera da letto fosse l’apice dell’ansia immotivata, mi sbagliavo di grosso: pare che questo titolo se lo sia aggiudicato la cucina smontata.

Siamo al terzo giro di imbiancatura. Il secondo – corridoio e sgabuzzino – è andato relativamente veloce grazie al fatto che le stanze sono piccole. È stato fisicamente faticoso perché le giornate erano afose, le stanze prive di finestre e io con la pressione sotto i piedi, ma a livello psicologico è andato tutto bene: ho evitato il salotto, in cui abbiamo accatastato tutta la roba dello sgabuzzino, ed è stata la Mater a occuparsene, a decidere cosa buttare e cosa no, a rimettere tutto in ordine, perché è lei che tiene organizzata quella parte della casa.
La cucina invece mi sta mangiando vivo. Forse è perché non tutti i mobili possono uscire e ora stanno in mezzo alla stanza ed è difficile perfino raggiungere i tovaglioli. Forse perché i piatti sono da una parte, le pentole dall’altra e le posate in una terza ancora. Il fatto sta che non solo cucinare, ma addirittura anche solo entrarci a mangiare una pizza mi fa avere un attacco d’ansia fatto e finito. È il caos più totale. È la scomodità nelle piccole cose. È un disastro. Probabilmente il fatto che la Mater sia un genio nell’organizzazione domestica e mi abbia abituato a una cucina disposta in modo che ogni singola cosa fosse facilmente rintracciabile anche solo a logica ha reso lo shock ancora più intenso. E il fatto che ogni singola stanza della casa sia piena di utensili non aiuta.

Ah, e in tutto questo, i pensili ormai erano tenuti assieme dal solo wishful thinking e ne abbiamo quindi ordinati di nuovi. Ergo, non solo parte della roba rimarrà sparpagliata per casa finché non arriveranno i pensili nuovi dal Continente, ma il servizio di ritiro dei rifiuti ingombranti si attiverà a venire a smaltire quelli vecchi non prima del 31. Agosto, non luglio. Praticamente dobbiamo stare un mese e mezzo con il corridoio invaso dai pensili vecchi e fare lo slalom anche solo per andare in bagno (ho già un livido da ieri notte). Mi chiedo come la prenderebbero al comune se decidessimo noi di pagare la tassa dei rifiuti con un mese e mezzo di comodo.

Comunque, domani è prevista l’imbiancatura e almeno parte dell’incubo finirà. Già solo rimettere la credenza al suo posto e liberare il centro della stanza sarà un grande contributo alla mia sanità mentale. Riportare quanta più roba possibile al suo posto sarà un altro passetto.
Ah, e comunque ieri sera, mentre mangiavo la pizza, mi si è chiuso lo stomaco, ma dalla gioia, perché sono trovato un DM su Instagram. Da Karen Elson. Ripeto, THE Karen Elson, che mi ringraziava per aver creato il suo Sim su The Sims 4 (avevo messo un po’ di Sim di cantanti famose sulla mia galleria e avevo condiviso gli screenshot su Instagram taggandole)!
Cioè, non so se mi sono spiegato: Karen Elson si è presa un minuto e mezzo per scrivere a me e ringraziarmi per una sciocchezza del genere! Insomma, perfino nelle tenebre più nere c’è sempre una qualche luce!

Tuesday 7 July 2020

Talk shit, get hit

Vorrei chiarire un piccolo dettaglio che i vari bigotti e troll qualcosa-fobi sembrano aver malinterpretato: quando un millennial si triggera e dice che trova offensiva qualche sparata di dubbio gusto che discrimina qualche minoranza, non significa che gli fa venire voglia di rannicchiarsi in un angolino e piangere; significa che vorrebbe prendere il cretino per i capelli e sbattergli la faccia contro la scrivania finché il naso non gli sporge dalla nuca.
Quindi, davvero, la battuta dei piccoli fiocchi di nevi troppo sensibili per stare al mondo inizia a puzzare di rancido, visto che l’immagine mentale che i “fiocchi di neve” hanno in testa è, nella maggior parte dei casi, questo:

 
Ecco, io in questo stato d’animo mi ci sto trovando moltissimo quest’anno, e per motivi che non hanno direttamente a che fare con me. Sono arrabbiato. Di più, sono furioso. Non riesco a tollerare che la società stia regredendo a questo punto. Prima che divenisse chiaro che avrei passato almeno la prima metà dell’anno dalla Mater, mi ero già anche preparato mentalmente a vari scenari che mi sarebbero potuti capitare in viaggio verso Trieste quando impazzava la xenofobia verso i Cinesi, così da non trovarmi pietrificato e intervenire se avessi assistito a scene di prevaricazione.
Allo stesso modo, sono stato piuttosto vocale sui social media per quanto riguarda gli avvenimenti di giugno, sia le proteste contro le violenze razziste negli Stati Uniti, sia l’uscita di testa della Rowling. Non ho postato tanto quanto altri, ma il fatto è che preferisco parlare seriamente che condividere meme a casaccio. Dopo tutto, mi rendo conto di vivere in una echo chamber, circondato da persone che la pensano come me: non ho davvero bisogno di convincere nessuno né fare appello a buoni sentimenti o empatia. Al contrario, il mio obiettivo, quando posto, è fornire degli spunti di discorso a persone che la pensano già come me, così che abbiano qualche munizione per rispondere al fuoco quando si trovano a pattugliare i confini della echo chamber.

In tutto questo, una parte di me si chiede perché abbia preso così a cuore la battaglia contro la transfobia nello specifico.
Credo che dipenda dal fatto che la comunità trans è una minoranza costretta ad affrontare ancora più pregiudizi, vessazioni, microaggressioni e difficoltà sociali, economiche e legali di quanto faccia io, uomo gay ma cisgender. Non riesco a non empatizzare. Non saprò mai, a livello emotivo, cosa significhi essere trans, ma mi rendo conto a livello intellettuale che già in partenza è una difficoltà in più da affrontare, senza nemmeno considerare il macrocosmo al di fuori della persona.
E mi rendo anche conto di quanto pervasiva sia la transfobia nel quotidiano, di quanto anch’io, prima di fermarmi a riflettere, buttassi con estrema disinvoltura il termine “travione” in giro: non nel riferirmi alle persone trans, ma per descrivere un certo modo di vestire, certe caratteristiche del viso (specie femminile), la voce che mi veniva quando avevo mal di gola. Una battuta senza intenti offensivi, ma basata su un pregiudizio che oltretutto mescolava cose alquanto diverse fra loro.
Ecco, è per questo che trovo importante sostenere la causa anche se non mi coinvolge personalmente: proprio perché è stata talmente invisibile fino all’altro ieri che finivo per alimentarla senza nemmeno volerlo davvero.

Alcune cose sono più scusabili quando manca la consapevolezza, ma non per questo fanno meno male a chi le riceve. Per questo trovo importante estendere il più possibile la consapevolezza: così che chi non lo fa apposta possa smettere, e chi invece lo fa deliberatamente possa ricevere tutti i ceffoni che merita.