Friday 28 February 2020

Vanitas vanitatum et omnia vanitas

Fra i 101 modi di rovinare la giornata ad Alessandro figura sicuramente una macchia arrossata e leggermente gonfia che spunta in viso, proprio sul limite dell’occhiaia. Non prude, non fa male, semplicemente sta lì, leggermente gonfia e leggermente arrossata. Non sapendo cosa l’abbia provocata, se si tratti di una puntura d’insetto o cosa, ora ho il terrore: e se non passa presto? E se mi lascia una macchia scura? E se mi sfigura permanentemente?
Ma già il fatto di essere sfigurato temporaneamente mi manda ai pazzi. L’anno scorso ho fatto praticamente un mese di clausura per colpa di un brufolo particolarmente grosso e ostico ad mandare via: ci manca solo un eczema di origine sconosciuta, o cosa cavolo è.

Sembra una scemenza, ma la mia auto-percezione è già disastrosa, quindi perdere anche solo temporaneamente quello che considero il mio unico assetto, il mio bel viso, è destabilizzante. Un po’ come quando mi avevano fatto quel tremendo taglio di capelli e la cosa mi aveva devastato per due pomeriggi di fila nonostante cercassi di ripetermi che волосы не зубы, “i capelli non sono denti” (nel senso che ricrescono). Katia, che come al solito mi ha raccolto col cucchiaino, ha dovuto prendermi da parte e spiegarmi che la cosa ha avuto un impatto così brutto su di me perché sono i capelli che danno forma al mio viso e influiscono su ciò che vedo ogni giorno allo specchio.

Ecco, qui è la stessa cosa: guardare allo specchio e vedere quella macchia arrossata mi agita. Continuo a controllare nella speranza che si stia già sgonfiando almeno un po’, mi viene una punta d’ansia ogni volta che, senza pensarci, sollevo la mano verso il viso, sia mai che sfregando anche solo per sbaglio la cosa peggiori, e lo stomaco mi si annoda ogni singola volta che me ne ricordo. È un incubo.
E intanto che aspetto che aprano le farmacie per andare a comprare qualche pomata, la giornata è rovinata.

Monday 24 February 2020

Plague Inc. Italia

La cosa è nata come battuta parlando con Katia: “Hey, io però di solito da Fiorellino mi metto a mangiare al tavolo vicino alla finestra! Non vorrei beccarmi una sassata sul piatto o in testa se i fascisti triestini decidono di fare la Kristallnacht a La Grande Shanghai!”
Poi ho avuto un brivido di orrore e sono andato a googlare se per caso ci fossero stati davvero incidenti del genere, ché a questo punto nulla è più inverosimile in Italia: per fortuna no, ma mi è saltato all’occhio un articolo de Il Piccolo in cui si parlava di autoquarantena della comunità cinese di Trieste.

Per fortuna, Fiorellino sta bene e la Grande Shanghai c’entra solo perché hanno messo una sua foto nell’articolo; il succo è che i cinesi triestini che sono rientrati dall’Asia nelle ultime settimane si sono messi di loro sponte in quarantena e subito la comunità si è attivata per formare una rete di consegna a domicilio della spesa, con lista inviata via WhatsApp e merce consegnata fuori dalla porta per evitare qualsiasi contatto fisico diretto. Semplice ed efficiente, ma basata sul senso di responsabilità individuale e di solidarietà comunitaria.

Due cose che, a quanto pare, mancano completamente agli italiani. La collettività si sta sgretolando completamente – ed è probabilmente la fase avanzata, dopo venticinque anni, del cancro partito dal berlusconismo con la sua infinita enfasi su “libertà”, specie dalle regole. Si fa un gran parlare di diritti, dimenticando che sono sempre accompagnati dai doveri.
E alla base di tutto ciò, c’è proprio la totale assenza del senso di responsabilità individuale. Un italiano che torna dalle zone a rischio non si isola per il bene comune, no: va a ristorante, al bar, in discoteca, in palestra, incontra, abbraccia e bacia quanta più gente possibile senza pensare minimamente alle conseguenze. Un italiano al cui paesino si prescrive la quarantena non rimane lì per evitare di mettere a rischio le persone a cui vuole bene, no, salta in macchina (spero, ché se era in treno sarebbe da linciare) e percorre mezzo Stivale per mettere a rischio (e far mettere in quarantena) tutta la sua famiglia e magari anche l’intero paese in una zona che ancora non era stata toccata dal contagio.
E nel frattempo, si grida all’untore puntando il dito sempre su quelli diversi, perché è una soluzione facile e d’effetto, o sulle istituzioni, che non possono passare casa per casa con malta e mattoni a murare la gente dentro. Perché scaricare la colpa su qualcosa al di fuori è sempre comodo.

Così come è comoda la reazione collettiva ora che il virus si è diffuso.
Perché, ora, tutti sono corsi a svuotare supermercati e farmacie con scene da b-movie post-apocalittico, mentre prima per la quarantena preventiva (solo degli italiani, dei cinesi chissene) si levavano i cori di proteste? Ovvio, perché il panico ci fa sentire protagonisti: c’è qualcosa di grosso che sta succedendo e ne siamo parte integrante. Ci dà quel brivido che manca alle nostre squallide, noiose vite di periferia e possiamo essere noi i protagonisti di del b-movie che la nostra stampa scadente ha cercato di vendere per guadagnare due euro in più.
La cautela, invece, ci limita, ci obbliga a stare in casa e guardare il mondo dalla finestra, ci relega alla noia con ben poco da fare se non pensare – qualcosa che, ammettiamolo, ultimamente gli italiani non sono tanto allenati a fare.

Ieri ho pensato che forse questo coronavirus sarebbe stato un’occasione per correggere il corso della nostra società, che un sonoro spavento avrebbe quantomeno messo a tacere le posizioni antiscientifiche, antivaccinise, anti-Big Pharma eccetera. Poi ho fatto un giro su internet e mi sono reso conto con tristezza che difficilmente ciò accadrà.
Se siamo il singolo Paese con più contagi fuori dall’Estremo Oriente è perché quest’emergenza l’abbiamo accolta e la stiamo affrontando, come sempre, alla carlona, senza il minimo senso di responsabilità individuale o sociale, e senza soffermarci a fare quelle due domande che, quantomeno, potrebbero farci imparare qualcosa. Non mi stancherò mai di ripetere che lo Stato siamo noi e le nostre istituzioni sono efficienti solo quanto noi permettiamo loro di essere.
Di questo passo, non usciremo mai dal pantano in cui siamo sprofondati già fino ai gomiti.

Sunday 23 February 2020

i(talia)Zombie

Col senno di poi, nonostante il mio piagnisteo, essere rimasto in Sardegna così a lungo ha dato i suoi frutti: ormai si era arrivati alle soglie del compleanno della Mater, che mi ha convinto a rimanere ancora una settimana o due… e ora almeno sono fuori dalla New Seattle italiana e posso guardare con un misto di perplessità, divertimento ed esasperazione il Nord che si cannibalizza senza correre alcun rischio. Di sicuro, non ripartirò finché la situazione non si calmerà un po’.

Che poi, la mia non è paura del contagio che, francamente, sarebbe spiacevole ma non più di una comune influenza. Ho più paura di ritrovarmi bloccato in aeroporto a Bologna, o in stazione a Mestre, o ancora all’arrivo a Trieste. Cioè, capirei: è giusto che si facciano controlli a tappeto sui passeggeri in modo da non trasportare il virus verso zone non ancora contagiate. Ma se posso evitare, evito, ecco.
E soprattutto, almeno qui i supermercati non sono stati presi d’assalto e svuotati da folle inferocite guidate dal panico. Se già fare la spesa mi mette ansia, questo sarebbe davvero troppo per i miei nervi.

Da dove sto io, l’apocalisse è preoccupante più o meno quanto lo è per Josh Wheeler in Daybreak, qualcosa che c’è, magari da un po’ da pensare, ma ha un impatto relativo sulla qualità della vita. Su a Nord invece sembra un brutto spinoff di iZombie organizzato (male) dalla Rai.
Per cui, pur avendo un sistema immunitario che mi permetterebbe di far fronte al Coronavirus senza problemi, preferisco starmene comodo in Sardegna, isolato non solo dal contagio, ma anche dal delirio pubblico. Per una volta grazie, depressione.

Saturday 15 February 2020

Gli impiccioni

Da piccolo odiavo che a pranzo i miei genitori guardassero “gli impiccioni”. A quanto pare, già allora, in tempi non sospetti, avevo scarsa stima degli organi d’informazione nazionali, perché era così che chiamavo i telegiornali. La ricordo proprio come un’antipatia viscerale, un vero e proprio fastidio fisico, un prurito, che mi prendeva appena partiva a sigla del TG1. E non era nemmeno una questione di voler piuttosto guardare i cartoni animati, quanto di non capire a che titolo quelli lì si permettessero di “impicciarsi” nelle vite delle persone e spiattellarle in televisione a tutta l’Italia.

Nel corso degli anni, non posso dire che il mio rapporto con gli organi d’informazione nazionali si sia sanato, ma è mutato a più riprese: durante l’adolescenza, il telegiornale era una buona scusa per non parlare a tavola; fra i diciannove e ventun anni, quando sono andato a vivere da solo, mi sono chiuso completamente nella mia torre d’avorio ed evitato qualsiasi fonte di notizie, tant’è che tuttora ho un grosso buco sulla fine dell’era berlusconiana e come il suo colpo di coda finale abbia esacerbato la crisi economica; poi ho superato il periodo wildiano in cui solo l’arte aveva importanza, ho iniziato a impegnarmi su diversi fronti sociali, e da lì ho avuto bisogno di essere il più informato possibile.
Al momento, pur sentendo la necessità d’informarmi, sono tornato a un cordiale disprezzo nei confronti della stampa nostrana perché, semplicemente, non la reputo capace di svolgere il suo lavoro. Nella frenetica corsa appresso a visibilità, immediatezza e profitto (ultimamente mi sto riscoprendo sempre più anticapitalista), trascura tutta la parte relativa alla qualità, come il controllo delle fonti, il limitarsi a dare le notizie senza aggiungere giudizi emotivi, il non dare autorevolezza a voci che non la meriterebbero, il non infiammare ulteriormente il dibattito pubblico eccetera.
Insomma, se non è una notizia importante strettamente nazionale, per conoscere la quale mi affido a Breaking Italy, preferisco di granlunga leggere la stampa internazionale ed estera, sulla cui serietà nutro meno dubbi.

A prescindere da questo, però, mi sono reso conto di quanto il mio modo di consumare le notizie sia diverso da quello, ad esempio, della generazione dei miei genitori, quella che ne “gli impiccioni” ci sguazza proprio.
Giusto poco fa, mentre ero in bagno, ho sentito la Mater che strillava uno dei suoi “Ossignore!” di scarso valore, quelli che ho imparato a ignorare. Perdendo tempo sul sito della Nuova Sardegna, aveva infatti letto la notizia di uno scontro automobilistico a Platamona con quattro feriti.

So what?
No davvero, quindi? Che me ne frega?

Onestamente, quando dedico il mio tempo all’informazione, guardo il quadro generale, the big picture. Mi interessa sapere di cosa si discute a livello governativo (anche se ormai qui da noi è sempre più solo caciara), quali sono le correnti etiche e morali che ostacolano o agevolano il progresso della società, qual è la situazione internazionale, quali sono state le ultime scoperte scientifiche o innovazioni tecnologiche: insomma, le cose che hanno direttamente a che fare con il mondo, col continente in cui vivo, col mio Paese, i cui effetti possono (come si è discusso) influenzare direttamente la vita mia e dei miei cari.
Ma la cronaca nera? Eccetto i rari casi in cui anche quella rientra nel quadro generale (attentati con conseguenze a lungo raggio, fenomeni sociali da sradicare, incidenti che coinvolgono servizi pubblici o luoghi d’interesse, eccetera), che mi serve sapere che tizio ha ucciso caio, che c’è stata una retata di piccoli spacciatori di marja, che si è ribaltata una macchina a Platamona?
È proprio questo che, da piccolo, contestavo agli “impiccioni”, pur senza riuscire a definirlo precisamente: la spettacolarizzazione delle vite altrui nel loro momento più difficile. Lo trovo crudele e di cattivo gusto.

Wednesday 12 February 2020

Pensateci, quando votate

C’è una breve storia che vorrei condividere.

Da qualche mese, alla Mater hanno diagnosticato il morbo di Dupuytren, una malattia degenerativa che solidifica il rivestimento dei tendini, irrigidendoli finché il dito rimane contratto e non si riesce più nemmeno ad aprirlo. Che insomma, non è piacevole, ma nemmeno la fine del mondo, visto che questo morbo è perfettamente curabile al giorno d’oggi. Oltre all’opzione chirurgica, ce ne sono anche di farmacologiche e meno invasive: una che disintegra il tessuto che si sta solidificando e libera quindi il tendine, e un’altra a base di un farmaco chiamato Collagenase che agisce durante le fasi iniziali della malattia e inverte il processo senza dolori, riabilitazione, effetti collaterali, e con pochissime probabilità di recidiva.
Fortunatamente, buona parte dei Paesi dell’Unione Europea ha stipulato degli accordi con la casa farmaceutica che produce il Collagenase in modo da acquistarlo a prezzi scontati in cambio di ordini molto estesi e poterlo quindi distribuire alle varie cliniche pubbliche. In sostanza, la compagnia trae profitto dal grandissimo numero di flaconi venduti mentre, per esempio, i cittadini italiani possono accedere alla cura senza dover impegnare la casa perché il Ministero della Salute copre le spese. Tutti sono contenti.

Tutti tranne Donald Trump, che è arrivato sulla scena internazionale a giocare a chi ce l’ha più lungo con mezzo mondo: a causa delle cosiddette Trump tariffs, la compagnia farmaceutica non fa più profitto più vendendo il medicinale a prezzo di favore ai Paesi europei, quindi l’ha ritirato dal mercato internazionale.
Alcune cliniche private hanno preso esempio dal Gloriosissimo Sistema Sanitario Americano e hanno comprato tutte le dosi su cui sono riuscite a mettere le mani e ora curano chi può permetterselo alla modica cifra di ventimila euro a operazione. Gli altri si arrangino.

Quindi, qual è il morale della storia?
No, non lancerò un crowdfunding per pagare le cure della Mater. Le alternative ci sono, semplicemente non funzionano allo stadio iniziale della malattia, quindi ci tocca aspettare comunque: o la malattia non peggiora, o peggiora e la si cura con i metodi tradizionali, o magari Trump non viene rieletto e il Collagenase torna disponibile sul mercato.
Il discorso che voglio affrontare è più generale e riguarda un piccolo dettaglio che sembra ovvio ma forse non lo è davvero: il modo in cui si vota ha conseguenze nella vita reale.

E sì, dico proprio a voi, coglioni del “voto di protesta”, “fanculo il sistema”, “laggente™ è stanca”, “non mi fido dei politici tradizionali, preferisco facce nuove”, “Make X Great Again”, “chiudete i confini”, “basta globalizzazione”, “non sono né di destra né di sinistra (ma per qualche ragione attacco solo i candidati di sinistra)”: magari vi siete sentiti fighi, vi siete sentiti edgy, vi è sembrato di aver fatto il dito medio a Il Sistema™ quando avete votato quel buffone col parrucchino o qualcuna delle sue varietà locali, ma le vostre scelte hanno avuto e continuano ad avere conseguenze dirette sulla vita delle persone. Conseguenze che mi spiace, non valgono i cinque minuti in cui vi sentite potenti per procura dopo aver dato a un folle il potere di mandare il mondo intero a puttane con un tweet.
Potrà sembrare spaventoso – e deve esserlo – ma ciò che succede ai vertici di una nazione non coinvolge solo le cose astratte e lontane, come la diplomazia o le relazioni internazionali: ha conseguenze tangibili sulle nostre vite quotidiane. Pensateci, quando votate.
E magari oggi è una signora a caso dall’altra parte del pianeta, ma domani potrebbe essere qualcuno nel vostro Paese, e il giorno dopo qualcuno che conoscete, e quello dopo ancora qualcuno a cui volete anche bene e, prima che ve ne accorgiate, voi stessi. Pensateci, quando votate.

Ai miei amici americani: spesso scherzando dico che il Presidente degli Stati Uniti dovrebbe essere eletto dal mondo intero. C’è un fondo di verità nella mia battuta perché, che ci piaccia o no (spoiler: non ci piace), ciò che succede nella Casa Bianca ha effetti anche sul resto di noi, non solo su quanti fondi Planned Parenthood riceverà quest’anno o chi avrà la libertà di rompere i coglioni agli altri su quale bagno usare. Pensateci, quando votate.

Ai miei amici europei: questo è un esempio lampante di quanto poco i nostri piccoli Paesi di periferia contano a livello globale – non possono permettersi nemmeno di curare i propri cittadini. Cosa può fare da sola l’Italia, di preciso? O l’Ungheria, la Polonia, la Slovenia, la Croazia, la Cechia, la Bulgaria, i Paesi Bassi, il Belgio, il Portogallo, la Grecia, ma perfino la Francia o la Germania? Quindi, prima di bervi stronzate come “fanculo l’UE”, “Brexit”, “vogliamo autogovernarci liberamente”, “possiamo farcela per conto nostro”, “chiudete i confini” o “proteggiamo la nostra economia nazionale” solo perché i rapidi cambiamenti globali vi fanno sentire insicuri e preferite aggrapparvi alla piccola nicchia familiare in cui sentite di essere importanti, ricordatevi che, preso singolarmente, ciascuno dei nostri paesi è troppo piccolo, troppo insignificante perfino per essere considerato un partner commerciale degno da una singola compagnia privata. Pensateci, quando votate.

Perché non lo sottolineerò mai abbastanza: ogni volta che un politico promette di mettere qualcun altro in svantaggio rispetto a voi, non sta pensando come mettere voi in vantaggio, e arriverà un momento in cui vi si ritorcerà contro. Quando sostenete politiche che tolgono a qualcuno, non aspettatevi di ricevere qualcosa in cambio: siete i prossimi nella lista delle persone a cui togliere sempre di più. Se promuovete concorrenza e inimicizia, arriverà il momento in cui voi sarete in svantaggio e ne pagherete tutte le conseguenze.
Dobbiamo pensare come una sola comunità globale se vogliamo migliorare le cose per noi stessi in primis.

Tuesday 4 February 2020

Dust Bowl

Un po’ sembra una brutta barzelletta: è inizio secolo, il clima politico è disastroso, si parla di guerra, c’è un’epidemia, la Grande Depressione non accenna ad andarsene e oggi, ad Alghero, è arrivato anche il Dust Bowl. Insomma, è un brutto amalgama delle cose peggiori degli Anni Dieci, Venti e Trenta del Novecento.
In realtà, oggi semplicemente si è levato un forte vento e Alghero è tutta scavata perché stanno posando le tubature del gas (finalmente). Un po’ dai cantieri aperti, un po’ dalle strade non ancora riasfaltate dopo l’intervento, si è sollevata un sacco di polvere che le raffiche di vento hanno felicemente schiaffato in faccia, negli occhi, nel naso e in bocca ai passanti che Mad Max Fury Road spostati. E sì, alcune delle vie (tra cui, fortunatamente, la mia) le hanno già riasfaltate, ma non penso che l’intera faccenda si sistemerà a breve: Alghero rimarrà il Midwest americano degi Anni Trenta ancora per un po’.

Ricordo che da piccolo ero convinto che lo stato di default delle cose fosse integro. Ok, non che credessi che la manutenzione fosse immediata, costante e capillare, ma pensavo che ci fosse qualche incaricato del comune o dello Stato che, ogni tanto, facesse il giro della città, vedesse cos’era rotto, dove il marciapiede era dissestato, dove l’asfalto era crepato o c’era una buca, facesse una lista e la mandasse agli organi competenti affinché intervenissero e riparassero tutto non appena si accumulavano abbastanza cose da fare. Accettavo lo stato di disordine e disintegrità, sì, ma come transitorio, pronto a essere emendato.
Avevo una mente iperattiva che inventava costantemente delle narrazioni, e le crepe nell’asfalto, le piastrelle sbeccate nel marciapiede, l’intonaco scrostato nelle facciate dei palazzi mi piaceva attribuirle al grande nemico dell’ordine contro cui io e i miei amici peluche combattevamo, un temibile buco nero che voleva disintegrare le cose belle per farle piombare nel caos (sì, lo so: licenza artistica in fisica, ma avevo cinque-sei anni ed era un gioco). Ogni riparazione avvenuta, ogni facciata restaurata, ogni giardino rimesso a nuovo era il segno che il malefico buco nero stava perdendo: prima o poi sarebbe stato sconfitto del tutto.

Un quarto di secolo dopo, il malefico buco nero sta vincendo su tutta la linea. La sua azione è particolarmente evidente ad Alghero, dove non ci sono i soldi (né pubblici né privati) per intervenire, più in generale in tutta la Sardegna che non sia Cagliari, ma è capillare e pervasiva anche nel resto del mondo. Giocare al buco nero a Roma, per dire, dovrebbe essere uno spasso oggi.
Non ricordo quando, crescendo, mi sia rassegnato al fatto che lo stato di default delle cose fosse sciupato, ma non riesco ancora ad accettare che scada nel non funzionale. Percepisco il fascino dei luoghi abbandonati, logori, decadenti – Beauty In Deconstruction, come dicono i Theatre of Tragedy – ma non tollero il disagio che deriva quando l’incuria arriva dove non dovrebbe. Odio aver mangiato la polvere tutto il pomeriggio perché nessuno è passato a ripulire le strade dopo gli interventi. Odio le pozzanghere che da anni e anni si formano su certi attraversamenti pedonali (e su cui non sono intervenuti nemmeno approfittando di dover riasfaltare per i lavori!). Non posso accettare di vivere circondato da tutto ciò.
Ma poi mi ricordo di come riesce a ridursi camera mia quando attraverso uno dei miei periodi peggiori, e allora mi chiedo: così come quella stanza riflette il mio stato interiore, la mia incapacità di intervenire, la mia accettazione di avere abbastanza spazio per passare in mezzo al disordine e di non crepare di allergia per la polvere, anche le strade dissestate e polverose sono il riflesso dello stato della nostra società?
Siamo una società depressa? Ci accontentiamo dello stato delle cose fintanto che non diventano del tutto non funzionanti, perché il nostro malessere collettivo è talmente acuto che ci toglie le forze per intervenire? Siamo ormai abituati al degrado e non riusciamo a ricordare né immaginare un modo migliore per vivere?
Ma soprattutto, come spezzare il circolo vizioso che fa sì che continuiamo a peggiorare la situazione? Perché più delle mattonelle crepate sul marciapiede davanti alla farmacia, a farmi arrabbiare è il motivo per cui sono così: la gente che ci parcheggia sopra anche se non dovrebbe, anche se non lascia più passare, anche se c’è l’incrocio, perché tanto sono solo cinque minuti, perché se no dove mettono la macchina, perché non c’è un vigile urbano che faccia il suo dovere e passi a lasciare una sfilza di multe, perché nessuno si lamenta abbastanza da fare massa critica e pretendere almeno che si mettano dei picchetti dissuasori a bordo marciapiede.

Forse viviamo davvero in una società depressa, perché la sensazione che ho avuto oggi mentre masticavo manciate di polvere è stata quella con cui combatto in molti momenti della mia malattia: pura e semplice impotenza e mancanza di speranza.

Saturday 1 February 2020

Non ho bocca, e devo urlare

Tolte le brevi uscite a Lucca e Milano, sono stato via da Trieste tre volte da quando è successo Il Fattaccio.
La prima volta sono tornato in tempi utili perché avrei dovuto iniziare. La seconda e, adesso, la terza, not so much. È febbraio e ancora non ho nemmeno guardato i biglietti per tornare da Alghero, figurarsi stabilire una data o entrare nella forma mentis della partenza.

La verità è che non solo non ho fretta, ma non ho affatto voglia di tornare a Trieste e trascinarmi giorno dopo giorno. A che pro andare lì, inventarmi qualcosa da mangiare a pranzo, poi a cena, arrivare al giorno dopo solo per poi svegliarmi di nuovo e ricominciare daccapo? Qui almeno posso abdicare alcune responsabilità: trovare il cibo già pronto, i piatti lavati, il bucato fatto, la spesa sistemata e pagata. Posso involvere completamente nell’adolescente che sono ancora dentro, invece che occuparmi di me stesso e di che direzione prendere nella mia vita alla mia età.

Del resto, i miei esperimenti di autonomia qui sono stati puntualmente fallimentari: la domenica, quando la Mater è al lavoro e devo svegliarmi e pranzare da solo, non riesco a rotolare fuori dal letto prima delle tre del pomeriggio e mettere il pranzo in tavola prima delle quattro. Semplicemente, mi sveglio e non ho le forze o la motivazione di muovermi, spostare le coperte, vestirmi, metter i piedi sul pavimento e alzare l’avvolgibile per far entrare la luce. La sveglia suona all’una, poi alle due, ma non ce la faccio proprio, continuo a starmene rannicchiato al caldo e al buio.
Ecco, l’idea di dover affrontare questa tortura ogni giorno senza che sia il pranzo già pronto a costringermi ad alzarmi non è particolarmente attraente. Non ricordo nemmeno più se sono capace di cucinare, di fare le cose, di vivere. Mi sento un blob gelatinoso. Non ho bocca, e devo urlare.