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Thursday, 3 February 2022

Messaggi che mai saranno spediti

Mi visita un profilo su Romeo: interessante, lascio qualche like alle foto e vedo un po’ i suoi amici. Uno è carino, visito il profilo; da lì ne visito un altro, sempre di bell’aspetto. E mi trovo davanti la descrizione più stupida di sempre, specie per un trentatreenne, letteralmente mio coetaneo.
Are you ready to question everything?
 
Here is what I’m looking for: Empathy, Honesty, and Beauty.
 
I own the perfect contraceptive: an unvaccinated body. Press the [x] button ASAP to escape. :)
 
My outside might appeal to some of you,  but just wait till I crush that with my personality. :)
INFP-A in case you were wondering.

Not all the infinites are the same in size: there are more Real numbers between 0 and 1 than there are Natural numbers going into infinity. Proven by Cantor’s Diagonalisation Proof.

The magic word of the 21st century to ward off any interest: unvaccinated. A dream-come-true period for all sociologists to come.
Gioia bella. Da dove comincio?
Tralasciando la scorreggina matematica messa lì giusto per darsi un tono… quell’incipit lì sembra quasi inoffensivo, finché non si contestualizza col resto. Ma andiamo con ordine.
Dovessimo ipoteticamente chattare e dovessi tu confessarmi di non essere vaccinato aspettandoti una reazione negativa a priori da parte mia, probabilmente il tuo gusto per il drama e l’autocommiserazione sulle prime rimarrebbe frustrato.
Non ce l’ho con i non vaccinati in sé e per sé. Se alla luce di qualche condizione o patologia pregresse, il medico dice a qualcuno che non è il caso che si vaccini, io ne ho il massimo rispetto e, anzi, posso guardarlə negli occhi e dirlə con sincerità che a me importa. Che non potrò fermare la pandemia o prometterlə di proteggerlə dal contagio, ma ho fatto tutto ciò che mi è umanamente possibile per non contribuire deliberatamente al rischio: ho sempre rispettato il distanziamento sociale, osservato i lockdown e, soprattutto, mi sono vaccinato.
Se invece, come quell’incipit suggerisce, si tratta semplicemente di fare le bizze e i capricci per sentirsi “speciali”, “più svegli” e “più furbi”, beh, allora mi spiace ma no, non provo nessun rispetto. Siamo nel 2022, questa situazione va avanti da due anni, a questo punto non ci sono più scuse di disinformazione e ignoranza, è una scelta deliberata. Fra l’altro, trovo enormemente ironico che a cercare empatia sia uno che, pur di vivere la sua fantasia da protagonista, da eroe che si oppone all’oppressione del sistema, mostra un tale egoismo e mancanza di riguardo verso chi il vaccino davvero non può farselo.

L’altra cosa che mi urta particolarmente di questa presentazione è quando fa “autoironicamente” la vittima. Da una parte, sembra un suo atteggiamento in generale, perché se ti rendi conto di essere una persona sgradevole e, invece che lavorare su te stesso, scarichi la responsabilità sugli altri, c’è qualcosa che non va, come ci insegnò a suo tempo il nostro amico svedese incel.
Dall’altra, è il voler scaricare sugli altri quelle che sono solo le conseguenze di una sua scelta deliberata. Se essere non vaccinato è una cosa che allontana i potenziali partner, la colpa non è dei potenziali partner e tu non sei in diritto di lanciarti un pity-party mascherato da autoironia. Francamente, se uno fa sesso casuale non protetto con molti partner e si rifiuta di fare terapie preventive come il PrEP, credo che non ci sia nulla di sbagliato se un potenziale nuovo partner preferisce lasciar perdere. I mezzi per proteggersi ci sono, rinunciarvi è una scelta; qui è la stessa cosa.

E niente, questo è un post che ho scritto semplicemente perché non è nel mio stile attaccare briga con gente che non mi scrive per prima, ma avevo bisogno di sfogarmi un po’. Sono come messaggi che ho scritto ma non spedirò mai al cretino qui. Che continui a vivere nella sua piccola bolla in cui lui è un eroe della libertà e tutti noialtri siamo cattivi e ottusi perché non lo accettiamo.

Friday, 10 September 2021

Evanescence, dieci anni dopo

Sono passati dieci anni e credo sia il caso di parlare di Evanescence.
Non la band, non l’EP del 1998, ma l’album che porta questo titolo perché – lo sostengo ancora – Pescy & co. non avevano idea di cosa inventarsi.
Del resto, ho postato per il decennale del mio primo ascolto di Fallen, per quello dell’uscita di The Open Door, quindi perché rompere la tradizione? Dieci anni fa ad oggi Evanescence veniva diffuso illegalmente su internet (con un mesetto buono di anticipo rispetto alla pubblicazione, cosa che mi fece sghignazzare non poco) e sento di aver qualcosa da dire a riguardo.
 
Ovvero, col senno di poi ammetto che potrei essere stato eccessivamente duro con quell’album. Almeno un pochino.
Con questo no, Stefano, non sto dicendo che Evanescence fosse segretamente un bell’album fin dall’inizio: resto fondamentalmente dello stesso parere che espressi ai tempi (qui rifinito e approfondito come recensione vera e propria per Armonie Universali), al massimo alleggerirei un po’ il giudizio su un paio di brani. Però sarei sleale a non ammettere che lo espressi in maniera molto più dura del necessario e misi fin troppa enfasi sui lati negativi delle canzoni per pura Schadenfreude e pettiness.
Evanescence non è un buon album, ma non è la macchia indelebile sulla cultura musicale occidentale che cercai di farne all’epoca. A volte, vuoi per le circostanze, vuoi per stanchezza artistica, vuoi per la fretta, una band pubblica un album brutto: pace, ce ne si fa una ragione e si spera in quello successivo. Perché, quindi, tutta quell’acredine?

Beh, con dieci anni di maturità in più posso ammettere che il mio principale problema con Evanescence è che detesto non avere ragione. La sua stessa esistenza, a prescindere dal contenuto, mi urta perché ha smentito le mie teorie secondo le quali Pescy volesse lasciar morire gli Evanescence di incuria per dedicarsi al progetto solista, che ero pronto a sbattere in faccia con somma soddisfazione alla gentaglia del fanclub.
Che poi l’album fosse oggettivamente carente è stata una fortunata (quanto prevedibile) coincidenza, un bonus che mi ha permesso di ammantare di validità e critica musicale seria un’antipatia viscerale e personale. Per questo ho spolpato e rosicchiato la critica a quel disco con lo stesso gusto che riservavo alle alette di pollo dei Mastri d’Arme: perché avevo la scusa perfetta per farlo a pezzi a ragion veduta senza essere tacciato di parzialità. Ma sì, il vero motivo per cui criticare quella produzione opaca e cacofonica, quel songwriting insipido, quel sound generico e quegli arrangiamenti superficiali mi portava così tanto piacere è che rosicavo perché non avevo avuto ragione sul futuro della band. Quello, più il desiderio segreto di convincere quanta più gente possibile che quel disco non fosse necessario, così da sentirmi dire: “Cavolo, Alessandro, quanto sarebbe stato meglio se avessi avuto ragione e si fossero sciolti davvero!”. O che l’evidente mediocrità del prodotto fosse il colpo di grazia e la band si sciogliesse subito dopo.
Beh, a riguardarla dopo tutti questi anni, l’intera situazione era piuttosto ridicola. Me l’ero presa a morte per una futilità incredibile – se anche Pescy avesse messo la band in pausa a tempo indeterminato per fare le cose da solista, anche cinque, sei anni di silenzio non ne avrebbero necessariamente decretato la fine. E comunque, non fu poi molto tempo dopo che i miei gusti musicali maturarono e io stesso giunsi alla conclusione che un suo album solista synthpop sulla Luna (sempre per citare Stefano) sarebbe stato molto interessante.
 
Comunque sia andata con il non-split della band, ci tengo a sottolineare che in retrospettiva ho avuto ragione su praticamente tutto il resto circa il disco, come le interviste di Pescy hanno man mano rivelato esplicitamente o tra le righe: lei voleva dedicarsi al progetto solista, è stata la label a richiamarla (verosimilmente per via dei We Are The Fallen), le ha tirato dietro il materiale solista che aveva riconvertito di corsa ad album degli Evanescence, e poi hanno dovuto riscrivere tutto in fretta e furia – e da qui il disco è uscito com’è uscito.
 
Volendo dare un giudizio meno caustico, avrei comunque fatto fuori Siccoviroll Siccoviroll e The Other Side perché sono indegne, Made Of Stone continua a non potersi sentire (e non capisco perché i fan la adorino tanto), e Erase This avrebbe avuto bisogno di un vero ritornello.
Per il resto, se spengo il cervello e faccio finta forte forte che sia un’altra band, quasi quasi perfino Du Uocciuocciuon non è così insopportabile; buttata in radio ci sta, e forse non mi farebbe più perdere l’erezione per poterci alzare senza dare nell’occhio dalla panchina di Parco Sempione su cui stavamo limonando quella volta.
Sono anche abbastanza deciso a salvare Say You Will: non è un granché, ma nemmeno attivamente offensiva (perlomeno finché Pescy non tenta di cantarla live).
Droppate quelle tre canzonacce e incluse invece le quattro bonus track, avrebbe potuto essere un album decente degli Evanescence: non il loro migliore, sempre prodotto malissimo, ma ben sopra la sufficienza risicatissima che gli diedi ai tempi.
 
Quanto alla band, col senno di poi, sono tutto sommato contento di non aver avuto ragione: una volta fatta pace con Pescy, non mi sarei privato per nulla al mondo né di Synthesis, specie per come ha riportato in vita le canzoni di Evanescence, né tantomeno di The Bitter Truth.
Comunque, ritengo che l’intera epopea de La Pescivendola e dell’album peggiore di una delle mie band preferite sia una delle esperienze che più mi ha fatto crescere come fan e ascoltatore di musica: ho imparato che gli artisti hanno diritto a un loro arbitrio e una loro vita privata, che le loro creature possono anche sparire, ma i ricordi rimarranno sempre, che evolversi e cambiare idea è positivo, e che l’industria musicale è più complessa di “Ommioddio, se gli Evanescence non fanno un altro album entro tot tempo non avranno più i soldi per fare dei bei videclip e dovranno rassegnarsi a Pescy che fa jogging sul Brooklyn Bridge la sera per smaltire il matrimonio” (perché un rancore è per sempre, DeBeers™).

Ps, lo ribadisco per Stefano e Lukas: io sono stato perfido, ma Evanescence continua a essere un album brutto.
E per controbilanciare a questo mio momento di sincerità, ricordiamoci di quella volta che Pescy è cascata come una pera cotta sul palco.
DU UOCCIUOCCI– SBAM!


Thursday, 24 June 2021

Perdonami, Britney

Sono sempre stato troppo cool per Britney Spears.
Fossi stato una ragazza, da adolescente avrei avuto un caso terminale di not like the other girls, e questo ovviamente comprendeva il prendermi troppo sul serio per non ignorare completamente il mondo del pop e il suo gossip. Voglio dire, ascoltavo gli Evanescence, io! Poi grazie a loro ho scoperto i Within Temptation, da lì sono entrato nel tunnel del metal, e il massimo di musica “leggera” che mi concedevo erano i Delerium, di cui comunque preferivo album e canzoni più epici, corali e mistici, mentre non gradivo particolarmente il “troppo pop” Chimera.
Col mondo del pop ovviamente avevo dei riluttanti contatti – YouTube non c’era ancora, quindi dovevo passare i pomeriggi con MTV in sottofondo ai compiti (se e quando li facevo) in attesa che passassero gli Evanescence in mezzo a tutta quella “spazzatura”. Poi ok, avevo un debole per Kylie Minogue e Gwen Stefani, ma non lo davo a vedere, così come avevo messo da parte i CD di Alizée, Avril Lavigne o le Sugababes (anche se nel loro caso era stato il cambio di line up a farmi disinteressare).
Intorno al 2006, poi, il mio pool musicale “serio” si era ampliato con The Open Door e i Delain, poi sono arrivati i The Gathering, col risultato che nel 2007 vivevo largamente nella mia bolla, dove arrivavano a malapena echi lontane del meltdown di Britney Spears.

Con questo, però, non voglio dichiararmi innocente dell’aver contribuito al male collettivo che è stato fatto a Britney. Magari ancora non frequentavo assiduamente internet e non l’ho fatto pubblicamente, ma in privato ai tempi di Toxic le ho fatto tantissimo slutshaming, perché non concepivo che lei fosse famosa solo perché metteva i costumini succinti mentre le vere cantanti, quelle che hanno la voce e si scrivono le canzoni da sole, non lo erano. Chiaramente era tutta questione di sex appeal, che disdicevole! Anzi, lo dicevo pure in russo: “Бритни Спирс это блядь”. Va’ là, che campione della vera musica.
Col senno di poi me ne vergogno molto. Alla fine la mia era solo invidia perché i miei musicisti preferiti non avevano la visibilità e le possibilità di Britney – avrei fatto meglio a fare le mie cose e non pensare proprio a lei, se non mi piaceva.

Fra l’altro, erano gli Anni Duemila e io ero un adolescente: le guerre tra sottoculture erano una cosa reale. Ero “fuori di testa ma diverso da loro” quindici anni prima dei Måneskin, non potevo concepire che “il pop”, ovvero “il mainstream” potesse non essere “il nemico”. Nel 2007 rimasi shockato quando Amy Lee intervenne su EvThreads per condannare un videoclip che un fan aveva fatto montando immagini e video del meltdown di Britney su Everybody’s Fool, ed esprimere solidarietà e sostegno alla collega. Ma come, pensai, Amy era nella posizione di lanciare il “te l’avevo detto” più grande della storia, eppure si mostrava così compassionevole? Fu quello uno delle prime crepe che si aprirono nel mio estremismo musicale, se non ancora ad ascoltare le popstar quantomeno a riconoscere perfino quelle che non mi piacevano come, beh, esseri umani. Esseri umani che non se l’erano cercata, se i paparazzi davano loro la caccia.
Per inciso, Everybody’s Fool è una canzone che parla dello stardom in generale, di quanto distruttivo e ingannevole sia, ma è impossibile non farsi venire in mente un paio di nomi. Anche se l’intento non era di fare slutshaming ma, piuttosto, far capire alle sorelline minori di Amy che lo stardom pop non era genuino sotto tutto il glitter, mi chiedo cosa ne pensi Amy adesso.

In ogni caso, pian piano mi sono dato all’eclettismo musicale, ho imparato a riconoscere che anche nel pop c’è del buono e, col tempo, ho anche acquisito una certa dose di rispetto e simpatia per Britney. Non è una brava cantante, non è (più) chissà che ballerina, ma è pursempre un’icona. È innegabile l’impronta che, costruita a tavolino o no, in playback o no, per meriti non solo suoi o no, ha lasciato sul mondo del pop. E poi, come ebbi già modo di scrivere, apprezzo che non si prenda troppo sul serio e scherzi anche sulle proprie carenze artistiche. Ho persino sei sue canzoni – sei! – sull’iPod, pensate un po’ (paragonate al gran totale di una sola di Laña, ad esempio).
Ed è proprio per questo che, nel giorno in cui è emersa l’inequivocabile verità sullo stato in cui verte la sua vita da quando è sotto la custodia del padre, non posso non sentirmi in colpa per come anch’io ho partecipato al circo perverso che è risultato nel meltdown che l’ha relegata in questa situazione.
 
Certo, posso dirmi di non essere, se non altro, colpevole di aver consumato avidamente e, quindi, foraggiato tutti quei siti e giornali scandalistici che, per fare profitto sulla sua caduta, finivano inevitabilmente per peggiorare la situazione. Non ho cercato maniacalmente le notizie, non ho pagato direttamente né fornito click a quelle pubblicazioni perché, semplicemente, Britney Spears era un argomento troppo al di sotto di me. In un certo senso, la mia arroganza mi ha salvato dall’avere una coscienza ancora più sporca… ma è anche il motivo per cui, in quegli anni, non mi sono mai soffermato a considerare Britney un essere umano e provare empatia nei suoi confronti. Era la sgualdrina che rubava la scena ai miei musicisti, come si permetteva?
E sì, era ormai il 2014, erano passati sette anni, ma ricordo che avevo riso letteralmente fino alle lacrime giocando a 2048 edizione Neyde, in cui ogni nuova mattonella mostrava una Britney sempre più pazza. Giuro, non riuscivo a smettere di giocare né di ridere. Ed è stata una cosa molto crudele che ora rimpiango.

Per cui no, non voglio saltare sul carro del #FreeBritney facendo finta di non aver colpa. Oggettivamene, ne ho meno di molti altri e posso dire di non aver mai mangiato dalle mani di Perez Hilton e quella gentaglia. Ma le ho comunque dato immeritatamente della troia, ho riso di lei e, in generale, ho ignorato la sua umanità. Quando è scappata a Las Vegas per un matrimonio durato quarantott’ore, ho disapprovato la sua superficialità invece che chiedermi se ci fosse un motivo perché si comportava così. Quando l’hanno fatta a pezzi per quella performace sottotono agli MTV Video Music Awards, sapevo che era probabilmente sotto ansiolitici e antidepressivi, ma non ho detto nulla di quanto fosse ingiusto deriderla.
Non so se sia troppo tardi per dire che trovo orribile che sia stata prigioniera di una custodia del genere per tutti questi anni. Non so se sia ipocrita farlo ora, dopo aver fatto parte del rumore di fondo che l’ha fatta crollare, anche se solo nel mio privato. Non so se la vera ragione perché siamo tutti così interessati alle sue vicissitudini giudiziarie è perché speriamo che un lieto fine lavi la nostra coscienza collettiva del male che le abbiamo fatto allora, e che ha continuato a ricevere per tutti questi anni come diretta conseguenza.
In ogni caso, a prescindere da quelle che sono le mie opinioni sulla sua musica, mi dispiace che abbia sofferto, e mi vergogno per il contributo che ho dato. Perdonami, Britney, per non essermi fermato prima a riflettere sull’unica cosa che davvero contava:
Leave Britney alone.
She’s a human
.”

Friday, 16 April 2021

Something something social media

Potrei aver appena disinstallato Twitter dal telefono. Ops.
Sono ancora lì, profilo e tutto, e ho ancora l’accesso attivo dal computer, ma credo di aver bisogno di un bel periodo di detox. Che poi, per anni Twitter l’ho avuto ma l’ho a malapena usato; poi Trump si è preso il covid e mi sono fiondato lì per partecipare alla Schadenfreude collettiva. Poi ci sono state le elezioni americane, quel magnifico cassonetto in fiamme, e sembrava che non ne avessi mai abbastanza. Ho iniziato a twittare i miei “snarky one-liners”, ho sguazzato in quello di Mrs. Betty Bowers, America’s Best Christian, di Bette Midler e di vari altri, e pian piano è diventato l’ennesimo vizio, peggio delle app di dating.
Il problema è che come ambiente è fondamentalmente tossico, un po’ come Facebook, che frequento sempre meno, ma per certi versi ancora più esacerbato, forse per la limitazione dei caratteri con cui esprimersi.
Oh, e i cancel party. Mi si era rivoltato un pochino lo stomaco già per quello di Armie Hammer prima di scoprire che c’era del merito dietro; poi quello perfettamente immotivato a Tom Ellis (solo che un cancel party solo italiano lascia il tempo che trova); ora Lindsay Ellis, che è stata l’ultima goccia. Un paio di conversazioni sono degenerate in insulti e parolacce già alla prima risposta, mi è stato dato del subumano per aver fatto le condoglianze alla regina Elizabeth perché le è morto il marito… Quindi niente, per quanto mi piaccia andare a blastare in tempo reale i conservatori americani o i peggiori politici nostrani, mi sono reso conto io stesso di quanto già poche settimane di frequentazione abituale a novembre mi avessero reso più aggressivo e spietato: preferisco fermarmi prima che la cosa mi sfugga del tutto di mano.
Che poi, meno Twitter significa più Instagram, che non è molto meglio. Solo che il medium visuale si presta meno al flame gratuito (chi ha voglia di leggere le caption anyway?) e i commenti sono un filo più macchinosi, il che rende fruire di un feed infinito di contenuti meno tossico. Con le dovute precauzioni: è da qualche giorno che medito di fare l’ennesima pulizia di account di bellocci che non postano più che le solite, trite e ritrite thirst trap. Non c’è salvezza da nessuna parte.

Per quanto riguarda i crociati delle cancellazioni, comunque, trovo molto stupido ritrovarmi colpito dal fuoco amico, ma ancora non penso che pretendere responsabilità da parte degli altri sia una cosa intrinsecamente negativa. Poi c’è gente che usa questo ideale come scusa per dar sfogo alla propria aggressività ed evitare le ripercussioni morali delle proprie parole, ma lì c’è poco da fare. È ben diverso dalla gente la cui stessa ideologia consiste nel nuocere agli altri. Quindi no, questa lagna che si sta cercando di zittire tutto e tutti continua a essere una grossa scemenza.

Quanto a Twitter, ho silenziato le conversazioni in questione, fatto un ripulisti di risposte inutili, donato due spicci al GoFundMe della ragazza trans che mi ha insultato (per la soddisfazione che sappia che alla sua transizione ha contribuito anche un subumano che ha fatto le condoglianze a Elizabeth II; si può essere petty anche facendo del bene), bloccato di nuovo Rose McGowan per non essere tentato di incazzarmi per le stronzate che spara, e adesso penso che farò ciò che fa la gente sana e andrò solo a sbirciarci un po’ di porno ogni tanto. Per quanto abbia bisogno di una valvola di sfogo in questo periodo, ho più bisogno di ridurre la tossicità dell’ambiente che mi circonda.

Sunday, 27 December 2020

Counting my blessings

Sono uno che odia profondamente la gara della sofferenza: sentirmi dire che c’è chi sta messo peggio di me non mi dà nessuna consolazione, non risolve i miei attuali problemi e, anzi, mi fa sentire delegittimato nelle mie emozioni. Il che aggiunge, al disagio che già provo per il problema in sé, rabbia nei confronti di chi usa il luogo comune.
A volte, però, non guasta rimettere le cose un po’ in prospettiva quando il paragone nasce spontaneamente – perfino quando questa arriva dritto dalle app di dating.

Dato che la Sardegna è praticamente il deserto, specie con i filtri stringenti che metto io, mi capita di scrollare l’elenco di PlanetRomeo fino ad arrivare non solo in zona Roma ma, dato che l’aera di ricerca non è una linea ma un cerchio, addirittura in Tunisia e Algeria.
Ho notato che, come nelle varie zone d’Italia, anche dall’altra parte del Mediterraneo i profili tendono ad avere motivi ricorrenti su base geografica: quelli tunisini e algerini sono la non-impersonazione di celebrità. In sostanza, stando all’elenco di Romeo, il Nordafrica sarebbe pieno di adoni da calendario, attori più o meno famosi, modelli di Vogue Hommes e altri esemplari di manzi che improvvisamente hanno deciso di andare in vacanza da quelle parti, imparare la lingua locale e… oh, no, se non altro buona parte di questi utenti scrive, in inglese o francese, che la foto non è loro.

Inutile dirlo, i profili fake sono tutt’altro che un fenomeno unico di lì, eh: qui in Sardegna una volta ho trovato un presunto Matthew Djordjevic; a Trieste mi è capitato un Richard Madden che, quando gli ho dovuto spiegare le frecciate a tema Game of Thrones (non sapeva nemmeno chi fosse il suo “prestavolto”!), mia ha assicurato di essere “più bello” di Richard (“E chi sei, allora, Natalie Dormer?”).
Ma ci sono differenze: per prima la diffusione capillare, per seconda l’ammissione immediata di non essere loro in foto. Perché solitamente, quando uno si finge più o meno maldestramente un quarto di manzo, lo scopo dell’illusione è farsi mandare nudes dal malcapitato di turno: sapere già in partenza che la foto è falsa non dispone alla fiducia.
Quindi non posso fare a meno di chiedermi: cosa li spinge a fare una cosa del genere?

Di sicuro il bisogno di anonimato: date le circostanze socio-politiche e legali, dichiararsi è impossibile. E no, non è un’esagerazione o uno stereotipo inventato da noi Occidentali: ho chattato con un ragazzo tunisino e se n’è lamentato ampiamente.
Il compromesso fra nascondersi e assecondare il desiderio è quindi entrare in chat nella maniera più anonima possibile. Ma per quello basterebbe un petto decapitato, un paesaggio o qualche altra immagine randomica, come è costume diffuso qui in Sardegna. (L’opzione di non mettere nulla è più adatta a Grindr, dove il filtro foto è limitato al pacchetto premium, mentre PlanetRomeo permette di non far comparire in elenco i profili senza foto anche in versione base).
Ciò però non spiega un trend così specifico – la foto altrui, ma subito smentita. Purtroppo, il mio conoscente aveva come immagine un disegno esoterico, quindi non ho potuto chiedergli come ragionino i finti manzi magrebini e posso solo tirare a indovinare.
 
Certo, un bell’uomo cattura lo sguardo più dell’ennesimo tramonto sul mare e attira, quindi, più visite. Ma né quello né la semplice voglia di farsi mandare nudes, che sicuramente è un altro fattore, bastano: come dicevo, i finiti Richard Madden nostrani fanno orecchie da mercante quando si fa notare la loro menzogna, men che meno ammetterebbero subito di non essere loro in foto.
Temo che in questo caso si tratti del desiderio di essere qualcun altro – o, più specificamente, il desiderio di non essere se stessi. Forse più ancora che voler attirare gli sguardi o fingersi alti, col fisico scolpito e i lineamenti cesellati, la foto profilo dichiaratamente falsa è una fantasia, un what could have been. È un desiderio di evasione, di essere un uomo più libero e meno odiato – perché subire tutta questa repressione, alla lunga, avvelena anche lo spirito più anticonformista che lotta per sentirsi in pace con se stesso.
Normalmente, i fake mi fanno arrabbiare – principalmente perché mi sento insultato nell’intelligenza se pensano che ci caschi. In questo caso, però, mi suscitano empatia: dev’essere davvero brutto vivere col desiderio inconscio non di avere un’esistenza migliore, ma di essere proprio qualcun altro, finire con l’assorbire un tale rifiuto verso se stessi che l’unica soluzione è proprio annullarsi e immaginarsi una persona del tutto diversa – perché di nuovo, la finzione non è a danno del visitatore, per lui è chiara e tonda.

Come dicevo, che gli altri abbiano problemi peggiori non risolve i miei, ma a volte rimettere le cose in prospettiva aiuta ad apprezzare meglio ciò che si ha. Per quanto anch’io abbia problemi di autostima, non sono così radicati da farmi immaginare di essere una persona del tutto diversa, e in questo sono fortunato. Sono fortunato per essere cresciuto in un ambiente in cui sì, essere un adolescente gay era difficile, ma non mi ha lasciato traumatizzato così profondamente.

Friday, 25 December 2020

Vecchi pettegolezzi

Fun fact, quest’anno ho onorato lo spirito festivo passando il Natale a malignare.
Beh, in parte: l’inizio è stato segnato da un attacco d’ansia low-key del tutto immotivato, poi io e la Mater abbiamo passato il pomeriggio a grindare in tandem per passare al livello 43 di Pokémon Go, poi ho scattato una foto ed è parlandone con Veronica che siamo finiti a fare le ciabattaie. Per inciso, la deduzione che come i tuoi amici si comportano con gli altri alle loro spalle è un ottimo indicatore di come si comporteranno con te alle tue è assolutamente vera: qualcuno una volta aveva notato che ogni volta che mi incontrava scatenavo un vortice di malvagità sopra le nostre teste rivolto a tutti quelli che ci avevano fatto torto almeno una volta; beh, guess what.

Comunque, il fatto che fra un paio di settimane saranno passati due anni dal secondo e penultimo punto di rottura non significa che io sia meno rancoroso, specie ora che, disseppellendo vecchi pettegolezzi, ho avuto un’epifania: prima dell’incidente che ha sfasciato tutto, qualcuno è venut* a trovarmi esattamente quattro volte; tutte e quattro nel giro di meno di un anno; anno nel quale ci provava con una persona dalle mie parti.
Fondamentalmente sì, le mie visite sono state ricambiate un gran totale di cinque volte in quasi dieci anni, di cui una per proposta famigliare e quattro perché stava correndo appresso a terze persone. Poi non avevo ragione a vedere un vero e proprio pattern di disparità di interesse e disponibilità che andava avanti da anni.

Quest’epifania, comunque, mi ha amareggiato ma non mi ha ferito; non ho idea di cosa ciò dica circa il mio processo di guarigione, ma vorrei interpretarlo come un segno del fatto che, se il rancore è la cicatrice che rimarrà lì a vita, la ferita vera e propria sta continuando a guarire.
La conclusione su cui invece sono assolutamente sicuro è che ho fatto bene a calciorotare questa persona fuori dalla mia vita.
Good riddance, bitch.

Sunday, 23 August 2020

A volte le lusinghe ritornano

Erano tanti anni che non ripensavo all’Uomo Lusingato. Un po’ perché in generale non ripenso con piacere alle cose collegate alla mia sfortunata carriera universitaria, un po’ perché semplicemente mi era sfuggita di mente la sua esistenza. Forse a una certa avevo anche provato a cercarlo su Facebook per sbirciare la sua vita con lo stesso sguardo colmo di fascino per l’orrido che ogni tanto rivolgo ai compagni del liceo di cui ancora ricordo il nome (e verso cui nutro ancora rancore – shock, lo so) ma, non avendolo mai trovato, è lentamente scivolato nell’oblio.

Comunque ai tempi ne scrissi parecchio: di come ci provai e mi rispose di essere “lusingato ma impegnato” mentre troieggiava con chiunque altro mettendo le corna al ragazzo con cui mi aveva detto poche ore prima di essere “solo amici”, di come nonostante ciò io avessi continuato a sbavargli dietro, addirittura sognando di limonarci, assistendo alla disfunzionalità della sua relazione perché facevamo parte dello stesso giro di colleghi finché non ho iniziato a disilludermi, trovarlo repellente prima mentalmente e poi anche fisicamente, e arrivare alla conclusione che fosse stata una gran fortuna aver potuto spacciare quell’unico approccio come cazzata alcolica, perché almeno avevo salvato la faccia e non gli avevo dato modo di lusingarsi ulteriormente. Da lì il mio fantastico pattern di negazione dei sentimenti romantici, a me stesso in primis, per evitare di restarci ancora male, ed eccoci al mio essere un trainwreck.

Comunque, ieri all’improvviso me lo sono trovato su Grindr. In vacanza qui, di tutti i posti. E mi pare di capire anche in compagnia, perché evidentemente certe cose non cambiano mai e quando uno è troia lo resta anche dopo dieci anni. Lì per lì non l’ho nemmeno riconosciuto subito, se non identificandolo come “bel ragazzo”, perché oggettivamente lo è (ha perfino ancora tutti i capelli in testa, e io pensavo che sarebbe stempiato presto). Ha esordito con “Long time!”, abbiamo anche scambiato un paio di battute piuttosto generiche su com’è che fossimo entrambi qui, ma la cosa è morta sul posto. Ci ho fatto un mezzo pensierino, sull’uscirci a prendere un drinketto, ma ricordo ancora bene la lezione che ho imparato con lui e non ho minimamente accennato a vederci. Lui mi ha buttato lì che stava andando alle giostre, ma ho lasciato correre e cambiato argomento, perché di raggiungerlo non avevo sicuramente voglia.
Oggi non l’ho nemmeno cercato. Domani riparte e, francamente, good riddance: considerando che l’intera faccenda è stata unilaterale, non avrebbe nemmeno senso riparlarne.
In compenso, oggi come allora, sono orgoglioso di non avergli dato altri appigli per sentirsi lusingato. È l’unica chiusura che questo vecchio discorso riemerso inaspettatamente merita.

Tuesday, 12 May 2020

Niente critiche, solo complimenti

Ho un rapporto molto complicato con i complimenti. Non dico che non mi piaccia riceverli… no, in effetti è proprio quello che dico: per lo più, mi mettono profondamente a disagio.
È un discorso che è saltato fuori  già un paio di mesi fa mentre chattavo con un conoscente riguardo le varie app di dating e compagnia cantante, e di cui ho conservato qualche screen per ricordarmi dell’epifania che ho avuto e poter tornare indietro a rifletterci sopra in un secondo momento (che è ora).

Certo, non tutti i complimenti nascono uguali e quindi non reagisco sempre allo stesso modo. Quelli rivolti al mio intelletto, alle mie abilità, alla mia opera, al modo in cui mi vesto o pettino tendo ad accettarli più volentieri, pur con le dovute riserve: si riferiscono a qualcosa su cui ho controllo e posso agire direttamente. Sono dei meriti che ho, o si riferiscono a cose che nessun altro potrebbe fare esattamente allo stesso modo, per cui sono più plausibili perfino con la mia sindrome dell’impostore.

Quelli rivolti all’aspetto fisico vanno dal suscitarmi imbarazzo a vera e propria irritazione.
Credo dipenda sempre dalla solita sindrome dell’impostore: dato che sono convinto di non meritarmeli, li ritengo automaticamente non sinceri. Deve esserci una fregatura, un secondo fine, un ulteriore motivo. E se si tratta di complimenti rivolti al mio fisico, specie sulle app di dating, il secondo fine è chiaramente portarmi a letto. Quindi automaticamente mi sento minacciato nella mia unicità perché il complimento non sincero è solo un modo per arrivare all’ennesimo orgasmo, a prescindere da chi lo provochi: io divento solo un mezzo per raggiungerlo e il complimento è un modo per fregarmi e farmi collaborare.

Ed è vero, come discorso fa molto in fretta a passare dalla scarsa autostima per cui non penso di meritarmi i complimenti alla pretesa di sentirmi unico. Probabilmente a urtarmi, nei complimenti per il fisico, è il fatto che per farli non c’è nemmeno bisogno di conoscermi bene, di sapere cosa mi piace fare e in cosa metto il mio impegno.
Altrettanto probabilmente, se li trovo così affettati e generici è proprio perché lo sono: è un modo rapido e facile per dire qualcosa di positivo senza doversi impegnare e li si può riciclare su molti ragazzi nella speranza, prima o poi, di far centro.
Per certi versi, non sorprende che finiscano per sorbire l’effetto opposto e farmi sentire insultato: davvero ‘sta gente pensa che sia così stupido da sentirmi lusingato per così poco?

Ok, questa sarà una di quelle epifanie che non vanno a parare da nessuna parte: forse alla fine non sono davvero io ch– cioè, sì, sono io, visto che i complimenti fatti da parte di amici e conoscenti li ritengo sempre frutto di compassione nei miei confronti, di un tentativo di non urtarmi mentendomi. Ma i complimenti da parte di sconosciuti, specie in contesti “predatori”, probabilmente mi urtano per motivi decisamente più concreti e intrinsechi ai complimenti stessi.
Bene, se non altro ora ho individuato su quali aree lavorare e in quali, invece, fidarmi della mia diffidenza.

Wednesday, 4 December 2019

Bottom line

Cleansing sweat,
We are just using each other,
Too depraved to stay alive
But too young to die.

Fa strano ascoltare una canzone da ragazzini pensando a quanto sia figo e edgy il testo, senza però interiorizzarlo davvero, e ritrovarsi poi anni e anni dopo a risentirla e pensare a quanto quella situazione sia familiare.

Nella mia vita ci sono svariati rapporti che considero genuini. Alcuni hanno una bottom line, vero, ma la ritengo secondaria, almeno da parte mia, all'affetto e al rispetto reciproci. Altri sono nati proprio da quella e hanno poi sviluppato tutta la parte umana. In altri, invece, si è sviluppata col tempo sulla base di interessi comuni che hanno portato all'affidarsi l'uno all'altro per seguire una bottom line condivisa. Che poi, la bottom line può essere qualunque cosa: nel mio caso ha spesso a che fare con l'espressione artistica e il contributo che i miei potenziali amici possono darle, ma non necessariamente.
Il punto è che, nonostante ci sia una componente egoistica e d'interesse, sono rapporti che vanno oltre quell'aspetto e si basano sull'apprezzare la reciproca presenza nelle rispettive vite e, probabilmente, sopravvivrebbero alla perdita della bottom line.

In tutto ciò, sto iniziando ad avere seri dubbi su quanto un rapporto possa funzionare quando la bottom line è sessuale. Cioè, ho mezzo rinunciato all'idea di un rapporto romantico e a lungo termine, ma inizio a disilludermi anche sulla semplice amicizia con benefit e chiedermi se sia davvero possibile per due persone con una potenziale attrazione fisica (specie se reciproca) essere realmente amici.
Delle mie amicizie con benefit, solo una è davvero in buone condizioni, un rapporto basato su affetto, fiducia, passioni condivise che, quando l'occasione è buona, entra anche in territorio sessuale. Coincidentalmente, è anche l'amicizia i cui benefit sono più campati in aria: a parole scoperemmo e basta, nella pratica poi ci perdiamo a seguire le mille altre cose che abbiamo in comune e non resta chissà quanto tempo se non per baciarsi qua e là.
In un altro rapporto con un ragazzo potenzialmente attraente e a cui voglio davvero un mondo di bene, invece, fin dall'inizio ho deliberatamente deciso di sopprimere qualsiasi tensione sessuale, perché non era ciò di cui lui aveva bisogno in quel momento, e perché avevo timore di ridurre il tutto a quello. Sul serio, è una persona a cui voglio un tale bene, e con cui mi trovo così a mio agio, che far passare in secondo piano tutto quello solo per qualche orgasmo non mi è sembrato valesse la candela.
Col senno di poi, probabilmente ho fatto bene: è arrivato un paio di giorni fa l'ultimo di un'interminabile sfilza di ragazzi potenzialmente interessanti, con cui ho anche molte cose in comune, che molla prontamente qualunque interesse a parlare d'altro nel momento in cui percepisce che c'è potenziale intesa sessuale ricambiata da parte mia. Tanti bei discorsi, tante riflessioni interessanti, che hanno fatto da preludio a del sexting (ottimo, devo ammetterlo) per poi sgonfiarsi completamente: se non c'è il tempo di provocarsi e farsi una sega, in pratica tanto vale non sentirsi, mi pare di capire. Pensa se fossimo effettivamente finiti a letto.
E mi vengono in mente un paio di altre personcine brillanti che, arrivate al punto del “what if”, fanno puntualmente deragliare il discorso in quella direzione dimenticando completamente l'affinità intellettuale che ci ha fatti arrivare fin lì. Che delusione.

Quindi? Cosa deve fare uno per avere una vita sessuale che sia soddisfacente sia sul lato fisico che su quello cerebrale? Se nemmeno più le amicizie con benefit funzionano, qual è l'ultima spiaggia? O mi è solo capitata una sfilza di finti intellettualoidi che erano allupati cronici fin dall’inizio e lì fuori c’è davvero qualcuno con cui è possibile parlare non solo di quanto ce l’ha in tiro al momento? Perché francamente non ho più l’età per queste stronzate.

Tuesday, 5 November 2019

Girini & compagnia

Sto per fare un’osservazione molto scontata: la mente di un bambino funziona molto diversamente da quella di un adulto.

Quando ero molto piccolo – parlo di quando i miei genitori erano ancora sposati, pensate un po’ – mi fu regalato un libro che spiegava, in un formato comprensibile e adatto alla mente di un quattro-cinquenne, come nascono le cose: i girini, gli uccellini, i gattini e i bambini. C’era un’illustrazione che spiegava che i bambini e le bambine sono anatomicamente diversi, che quando crescono diventano ancora più diversi, e che quando due persone sono adulte e si amano molto possono fare un bambino insieme. Quell’illustrazione la ricordo: erano una signora bionda e un signore bruno (coincidentalmente come la mia mamma e il mio papà) abbracciati sotto le lenzuola. Nell’illustrazione dopo, la signora aveva il pancione.
Sapevo che era così che nascevano i bambini, ma l’intero prcesso era molto vago e privo di dettagli per me: ricordo distintamente un’immagine mentale in cui questi cosettini piccoli piccoli uscivano in qualche modo dal papà, zompettavano in fila indiana sulle lenzuola, si arrampicavano sulla pancia della mamma e così poteva nascere un bambino.
Anche il concetto di “stare insieme” era molto vago e astratto per me: due persone che stanno insieme si tengono per mano, si abbracciano, si danno i baci, hanno una casa insieme, dormono nello stesso letto e si vogliono bene. Qualche volta fanno un bambino.
Ai tempi ancora non si parlava quasi per nulla di omosessualità, ma credo che, se fosse spuntato fuori l’argomento, mi sarebbe stato detto che sono sempre due persone che “stanno insieme”, si tengono per mano, si abbracciano e tutto il resto; al massimo no, tesoro, due uomini o due donne non possono fare un bambino, ne adottano uno già pronto. E la cosa sarebbe rimasta lì.
Ricordo anche che a sei anni ero a casa della mia fidanzatina Vanessa: ci eravamo nascosti sotto il letto perché la Mater era venuta a prendermi ma io non volevo ancora tornare a casa, e ci eravamo addormenati. Wow, avevamo dormito insieme, come fanno gli adulti! Eravamo entrambi piuttosto orgogliosi della cosa, perché quello era il punto massimo che due persone che stanno insieme possono raggiungere, no? Che bravi!

A casa mia, quindi, non ci sono mai state cicogne, api, fiori, foglie di cavolo o altre bugie bianche: i bambini venivano da una mamma e un papà. Eppure, non ho mai nemmeno immaginato cosa potesse essere il sesso fino a molto tempo dopo, quando il mio amico Roberto mi elargì la sua erudizione fatta sulla tv via cavo. Fino ad allora, ero a conoscenza della faccenda, ma aveva connotati molto astratti, innocenti e privi di ramificazioni pratiche.

Ricordando tutto ciò, non posso non incavolarmi pesantemente con quelli che sbandierano i bambini come scudi per i loro pregiudizi.
“Come spiego a mio figlio due uomini che si baciano?”
Nello stesso modo in cui gli spieghi un uomo e una donna che si baciano, semplice. Tanto non afferrerà nulla oltre il concetto astratto che “si vogliono bene” e “stanno insieme”, perché la mente del bambino non elabora oltre.
Se poi è a te, genitore bigotto, che turba vedere due uomini o due donne che si baciano perché li immagini subito a fare sesso (e, segretamente, senti quel languoirino in fondo alla pancia), beh, è un altro discorso. Almeno sii onesto e non nasconderti dietro il dito: è un pregiudizio tuo, il bambino non centra.
Perché, ripeto, la mente di un bambino funziona diversamente da quella di un adulto: vedere due persone che si tengono per mano, che si abbracciano, perfino che si baciano non lo espone al sesso, omosessuale o eterosessuale che sia. Non arriva a fare quella connessione, non deduce cosa faranno quando poi arriveranno a casa.
E se invece lo deducono, beh, il problema non è più la coppia che si bacia. Il problema è che gli assistenti sociali dovrebbero fare una visita a casa di quel bambino il più presto possibile,

Sunday, 30 June 2019

Cin Cin

Stanotte fa davvero caldo: non riesco a dormire e ho entrambe le finestre spalancate. La via è silenziosa, salvo l’occasionale automobile o moto di qualcuno che torna dal sabato sera in giro; anche in camera non si sente nulla, se non il quieto ronzio del ventilatore. Di sicuro, nei palazzi vicini nessun altro è ancora sveglio.
E poi arriva. Portata dalla brezza che odora di lacca per permanente, con tutto l’impatto delle spalline che si incastrano sullo stipite della porta, più trash di Giuni Russo, più gender di Lorella Cuccarini, inconfondibile sulle ali della drum machine e del sintetizzatore Anni Ottanta:

Cin cin, cin cin, ricoprimi di baci. Cin cin, cin cin, assaggia e poi mi dici. Cin cin, cin cin, diventeremo amici: brinda alla fortuna, festeggia con noi. Cin cin!

Non posso crederci. Mi alzo dal letto, corro alla finestra e tendo l’orecchio. Mi arriva la voce di Umberto Smaila da una finestra aperta del palazzo di fronte. Ebbene sì: qualcuno dei vicini sta facendo le cinque del mattino guardando le repliche di Colpo Grosso!


Aah! Le Ragazze Cin Cin! I costumini colorati con i frutti! Le permanenti! Improvvisamente, mi sento travolgere dalla nostalgia per le mie belle serate d’infanzia negli Anni Novanta.
Perché sì, Colpo Grosso è forse l’aneddoto più divertente sulla disfunzionalità della mia famiglia: quando la Mater lavorava la sera come maestra di ballo nei paesi vicini e mi lasciava col Procreatore, lui mi mollava a giocare con le costruzioni sul tappeto e, nella stessa stanza, metteva su Colpo Grosso.
Vi lascio immaginare la gioia della Mater quando, una sera, tornata dal lavoro, le ho chiesto: “Mamma, perché le signorine si spogliano?”. “Ah, uhm… perché fanno la pubblicità alla biancheria!” chiosa lei, con un aplomb invidiabile. “Uh, che belle mutandine! Quasi quasi me le compro anch’io.”

Altrettanto divertente la volta in cui, dopo un raid nel cassetto della Mater, mi misi addosso tutti i reggiseni dei suoi costumi da bagno colorati e lei mi trovò a fare “cin cin, cin cin” davanti allo specchio. Ogni tanto mi piace dare la colpa a mio padre e all’esposizione prematura a Colpo Grosso per avermi fatto diventare gay: mi ha fatto crescere con le Ragazze Cin Cin come role model.
Ma no, è solo una battuta, so che l’orientamento sessuale non dipende da quello. Ciò di cui incolpo per davvero le Ragazze Cin Cin – che, ci tengo a sottolinearlo, nella mia vita sono arrivate prima delle Guerriere Sailor – è la mia ossessione per le serie di cose più o meno simili ma di colore diverso. Pastelli, pennarelli, le Guerriere Sailor, i Pokémon, i CD, le copertine degli album nella mia libreria musicale virtuale, i numeri di Vogue – qualsiasi cosa abbia un modulo fisso e variazioni cromatiche come distinzione. E sì, sono piuttosto sicuro che la cosa si estenda perfino al mio magnum opus, gli Infernal Lords, ognuno con un suo colore tematico e tutti con le cornicette uguali: praticamente ho tentato di ricreare una serie di Ragazze Cin Cin sataniche!

Comunque, ci tengo a spezzare una lancia in favore di Colpo Grosso: io lo ricordo come piuttosto innocente, tutto considerato. Vero, c’era Smaila che, in mezzo alle giovane pulzelle, ghignava e si arricciava i baffi come un gatto che è rimasto chiuso in pescheria. Vero, alla fin fine si trattava di signorine che si spogliano. Ma, nel complesso, l’intera faccenda risulta meno exploitative di quel che può sembrare – sicuramente molto meno della valletta seminuda in qualche programma in prima serata, o dell’accarezzatrice di materassi, o della hostess a un evento sportivo.
Perché gli altri programmi ti piazzano una ragazza seminuda per invocare un erotismo da quattro soldi nella speranza di aggiungere valore a un prodotto dei quali non sono sicuri; in Colpo Grosso, invece, il prodotto era l’erotismo. Un erotismo low-key, più un provocare, un ammiccare intrigante più che volgare. Le ragazze Cin Cin non erano una semplice decorazione sul gioco, erano il gioco; e i concorrenti, che pure si spogliavano, sia maschi che femmine, facevano altrettanto parte del gioco. Certo, il tutto era a beneficio dello sguardo del pubblico da casa, ma lì in studio non si andava a creare quella brutta dinamica con i concorrenti vestiti e la valletta in lingerie senza motivo: il livello era più o meno lo stesso.
E forse, la cosa più divertente del programma è che, capezzoli al vento a parte, si manteneva sempre al di qua di una certa linea. Era come una provocazione, un flirt costante per tenere sulla corda ma non andare al dunque. Che, a dirla tutta, è la parte più divertente in ogni cosa.

Tuesday, 12 March 2019

La mia minigonna

Ci sono momenti in cui (cretini catto-bigotti a parte), per molti versi, vivo le app di dating come un vero e proprio vizio, tipo bere o fumare: non mi dà nulla di utile, mi fa sentire frustrato e incazzato con me stesso, ma non riesco a smettere. Continuo ad aggrapparmi a quella piccola quotidianità, al ritualismo di aprire il telefono, scorrere profili, vedere chi mi visita e rispondere più o meno acidamente a chi mi contatta.
Più o meno acidamente perché, a quanto pare, quando si sta online le regole della convivenza civile volano fuori dalla finestra.

Su tutte le app che frequento, il mio profilo è molto dettagliato. Tutti i campi circa le mie preferenze sessuali sono compilati, ché la curiosità e legittima, ma nella descrizione elenco, accanto ad alcune regole base per una conversazione cordiale, i miei interessi e hobby. Il messaggio è implicito: puoi soddisfare le tue curiosità circa un’eventuale intesa sessuale leggendo tutto lì, ma per arrivarci devi intavolare una conversazione interessante quando mi scrivi, per la quale ti offro molteplici spunti.
Che questo accada è piuttosto raro, e ormai nemmeno ci faccio più caso. Ma poi c’è la gente che non capisce che siamo persone, dietro i profili, e dovremmo trattarci come tali. Non sono lì per farmi deumanizzare e trattare alla stregua di un pene con le gambe, né farmi mancare di rispetto, né fare da accessorio alle parafilie altrui.
Poi è ovvio che dei casi più eclatanti mi piace parlare e ridere con i miei amici: certe cose sono talmente assurde che sembrano uscit da un b-movie. C’è chi rimane esterrefatto con me, chi se la ride, chi si incavola pure. Ma c’è anche una reazione che mi lascia sempre l’amaro imbocca. Perché da qualcuno arriva un qualche variazione di questo commento: “Vabbè, ma anche tu che stai lì, cosa ti aspetti? Cancellati e non ti scriveranno.”
Superficialmente può sembrare una domanda molto pertinente; scavando un po’, però, ha ramificazioni problematiche.

Il fatto che frequenti app di dating non significa che non debba essere rispettato. Non è che, perché sto lì, allora “me la cerco” – perché il sottinteso è questo – quando arriva il maniaco di turno.
Mi viene in mente una persona in particolare che mi ha detto questa cosa a più riprese e – sorpresa, sorpresa! – è super femminista: la minigonna non è consenso. Una donna che gira da sola la sera non è consenso. Cosplay non è consenso. Il vestito non è un invito.
Ho letto spesso post di questa persona (e di altre che mi hanno posto l’obiezione di cui sopra) in cui combatte attivamente il victim blaming nei casi di molestia. Post che ribadiscono l’importantissima, fondamentale verità che una donna deve sentirsi libera di andare dove vuole, vestita come vuole, sola o in compagnia, senza che debba temere di essere approciata malamente, molestata o stuprata. E chissà, magari è davvero andata in quel club o in quel pub perché cerca nuove conoscenze, magari anche con benefit, ma ciò non significa automaticamente che debba starci con chiunque le si offra, né che le si debba mancare di rispetto.

Ecco, mi chiedo: perché, se questo concetto è così chiaro per le donne nel mondo reale, sembra così difficile da applicare anche agli uomini che frequentano Grindr o PlanetRomeo? Cosa c’è di diverso? Perché quelle stesse persone mie amiche che con una mano combattono le molestie, con l’altra mi fanno un velato slut shaming perché sto sulle app se mi lamento di quelle che mi arrivano come vere e proprie molestie?
Il principio è lo stesso: vero, sto sulle app perché spero di conoscere persone nuove; vero, do una certa dose di disponibilità sessuale, entro gli stretti limiti che impongo. Ma ciò non significa che non mi si debba rispetto come essere umano, così come lo si deve alla ragazza in minigonna al pub.
Ad essere sincero, più delle avance maldestre o fuori luogo mi dà fastidio proprio che persone che mi si dicono vicine e si mostrano sensibili all’argomento su altri versanti reagiscano così e buttino la colpa su di me perché le ricevo. Stare su Grindr non è “cercarsela”, né più né meno che indossare una minigonna la sera.

Saturday, 23 February 2019

Miserie umane

Qualche post fa, parlando di come vedere la bandiera italiana su qualsiasi post online mi faccia suonare l’allarme sovranismo, ho accennato a come il lavoro di social media manager mi abbia messo di fronte a vari tipi di miserie umane.
Anche ripensandoci ora, a mente fredda e con la dovuta distanza, non riesco proprio a capire la logica che spinge certe persone a postare determinati contenuti sul web.

Magari non tanto la tizia con l’orribile abbronzatura artificiale che si scatta una valanga di selfie tutti uguali, sera e mattino, e li spamma senza nemmeno uno straccio di descrizione. Tralasciando la fotografia concettuale e artistica, anch’io mi faccio i selfie. Quando sono in viaggio, come ricordo; quando sono con degli amici, perché sto passando un bel momento con loro; quando sto mangiando un megagelato, perché sono felice. Ma prendere il telefono mentre sono annoiato, scattarmi selfie a caso, senza che raccontino qualcosa, e poi pubblicarli non rientra molto nelle mie corde. Capisco la logica che c’è dietro, la ricerca di validazione sul web su quanto sono (convinto, ma sotto sotto nemmeno troppo, di essere) bello, però lo trovo piuttosto triste.

Un po’ di meno capisco i post buongiornisti su Instagram. Di solito provengono da una fetta di utenza di una certa età che non si è esattamente resa conto che le gif con dedica, i paesaggi glitterati, le finte animazioni dell’acqua e cose simili sono kitsch da morire, e su quello c’è poco da fare. Ha quasi senso postarli su Facebook per salutare i quattro decrepiti che ancora non li hanno oscurati dal feed, ma su Instagram? Instagram vanilla non ha nemmeno l’opzione di condividerli e trasformarli in orribili catene di buongiorno kitsch, quindi? E a maggior ragione, che senso ha geolocalizzarli a Trieste per amplaire il bacino di utenza? Tutte domande per i filosofi.

Mi sfugge completamente, invece, la logica dietro un profilo in particolare: è un quaranta-cinquantenne con troppo pochi capelli, specie in relazione alla panza, che in russo verrebbe definito сексуально озабоченный, sessualmente preoccupato. L’aspetto l’ho dedotto dai (fortunatamente pochi) selfie che posta ogni tanto, mentre la maggior parte dei suoi contenuti sono foto di ragazze seminude e per lo più in pose provocanti. Così a caso, su Instagram. Quando gira bene, posta la stessa foto tre-quattro volte con sopra dei filtri “creativi” che aumentano il contrasto, invertono i colori, danno qualche effetto acquerello o pittura ad olio eccetera. E la cosa che mi lascia ancora più perplesso è continua a farlo mattina e sera, ogni giorno, nonostante i like che prende si contino quasi sempre sulle dita di una sola mano, nemmeno a dire che ha creato ‘sta gran community di uomini di mezza età arrapati con cui condividere i suoi bocconcini ritoccati.
Che senso ha un account del genere? È palese che quello non possa essere il suo “harem”, la sua collezione di amanti, perché dai selfie si capisce che non potrebbe permettersele né per il fisico, né per il tenore di vita: spera forse di far credere a qualcuno che dalle sue parti gira gnocca a quintali?
O vuole solo condividere la sua collezione di materiale onanistico con i suoi coetanei e, di nuovo, la geolocalizzazione serve ad attirare altri utenti? Anche qui, è una stupidaggine: se voglio farmi una sega, piuttosto che accontentarmi di immagini così blande su Instagram senza nemmeno il beneficio di entrare in contatto con le dirette interessate, vado su un sito con materiale più esplicito.
O c’è forse dietro un intento artistico sfogato schiaffando filtri preimpostati su immagini create da altri? Se è così, è un doppio insulto, a chi quelle foto le ha scattate e a chi sa davvero fare dei buoni fotoritocchi.
Davvero, se qualcuno mi sa spiegare cosa si agita in una simile testa, me lo dica, perché la logica dietro l’account di questo tizio mi sfugge completamente.

Il che da una parte è consolante: significa che, con tutti i miei problemi, non sono ancora nemmeno vicino a simili livelli di miseria umana.

Tuesday, 5 February 2019

To love, aimer, любить

Qualche mese fa ho scritto un post in preda a un improvviso e confuso stato emotivo in cui facevo una specie di confessione d’amore a una persona non identificata. Tutt’ora non so cosa pensarne.

Non so se sono solo contento o anche un po’ geloso del fatto che ora abbia una storia. Che abbia trovato una persona che l’ha aiutato a far pace con alcuni aspetti di sé, e quel qualcuno non sia stato io. Non so se ne sono davvero mai stato innamorato, o gli voglio solo molto, molto bene. A volte la linea fra amore platonico e amore romantico è tremendamente incerta.
Ci sono stati molti momenti, prima di ogni incontro, in cui ero davvero convinto di esserne innamorato. Poi ci vedevamo di persona e tutto era perfetto: ero sopreso e travolto, ogni volta, dalla naturalezza del nostro rapporto, da come tutto fosse al suo posto, senza desideri inconfessati e frustrati, senza (quasi) tensione sessuale, senza il senso che mancasse qualcosa, il solo piacere di trovarsi e trascorrere del tempo insieme. Forse ho solo voluto fantasticarci sopra, immaginare un po’ di romanticismo che non sentivo davvero, per aggiungere quella nota di piacere in più all’impazienza del rivedersi.
Non è sorprendente che buona parte delle altre lingue che conosco non facciano una distinzione tra “amare” e “voler bene”: è tutto to love, aimer, любить, ed è bello poter dire “ti amo” senza che dentro ci sia per forza quell’accezione romantica.

E comunque, ho il vizio di auto-denigrarmi. Magari mi piace pensare di essere stato l’amante silenzioso, il lupo travestito da pecora che segretamente voleva azzannargli la gola come tutti gli altri, quando in realtà sono sempre stato davvero l’amico disinteressato di cui aveva bisogno.
Però è bello che, in mezzo a tutta questa incertezza, l’unica cosa chiara è sapere di voler davvero bene a qualcuno.

Friday, 21 December 2018

C’era una volta il sesso

Visto che ho menzionato Once Upon A Time, un grande punto di dibattito nel fandom è stata la sfortunata vita affettiva di Mulan: prima sembra che le piaccia Phillip, ma lui è innamorato di Aurora; poi sembra che le piaccia Aurora, ma quella le annuncia di essere incinta (di Phillip) quando sta lì lì per dirglielo. Stagioni e stagioni dopo, sembra che finalmente ci sia un po’ di sano flirt con Ruby… che poi corre via a svegliare Dorothy Gale dalla maledizione del sonno col Bacio del Vero Ammoreh.
E la povera Mulan sta lì, a fare la guardia al calderone della pozione e sorridere felice per tutti gli amici che quagliano.

Ora, la faccenda di Mulan e Aurora poteva sembrare ancora solo una questione di arco narrativo abbandonato in una serie costantemente piagata da scritture e riscritture improvvise. E Red Riding Hood che finisce con Dorothy Gale ha tematicamente senso (la prima è una fiaba che parla di risveglio sessuale, la seconda è una delle icone gay per eccellenza) ed è più interessante da esplorare del cliché della guerriera che, oltre ad assumere un ruolo tradizionalmente maschile, è anche lesbica (o bisessuale).

C’è però un commento che è stato fatto a più riprese sulla vicenda, sul perché Mulan è sempre stata solo sottotesto mentre la prima coppia davvero LGBT è stata fra Ruby e Dorothy: “Figurati se la Disney permetterebbe mai di far lesbica una delle sue Principesse.”
E in effetti è vero: se LGBT doveva essere, sono stati due personaggi che non fanno parte del canon Disney.
Ma no, dico io, stiamo parlando di Once Upon A Time: intanto (almeno all’epoca della seconda e terza stagione) non è davvero così influenzato dalla Disney come molti pensano, al massimo prendono in prestito nomi ed estetiche, ma i personaggi veri e propri sono basati sulle fiabe originali. E anche a volerci vedere a tutti i costi l’enorme live action crossover (che poi è diventato), si prende delle libertà sui personaggi e fa affrontare loro temi abbastanza seri, anche di tipo sessuale (nel giro dei primi tre episodi spuntano fuori due gravidanze adolescenziali, di cui una di una Principessa).
E comunque, Once Upon A Time è quello show in cui un sacco di gente, comprese le Principesse Disney, ha alle spalle un body count: Biancaneve, fra tutte, compie un omicidio a sangue freddo nemmeno a metà della seconda stagione! Entro la sesta, abbiamo visto Cenerentola con in mano un fucile, e perfino Belle, Belle, ha un eccesso di autodifesa con esiti fatali. Cavolo, nella settima stagione Rapunzel diventa direttamente una villain!
Insomma, dicevo io, se la teoria delle interferenze è vera, mi state davvero dicendo che la Disney ha meno problemi a lasciare che le sue adorate Principesse diventino delle assassine piuttosto che LGBT? Che Cenerentola con un fucile in mano non danneggia il brand delle Principesse, ma Mulan e Aurora in una relazione lo avrebbe fatto? Che la violenza è più accettabile dell’omosessualità?
Dai, è chiaramente ridicolo.

Finché poi non è arrivato Tumblr. Non sto a riassumere la vicenda (lo lascio fare a Shy), ma il succo è che mi sono visto censurare un editoriale di Paolo Roversi con Naomi Campbell… in seppia, perché evidentemente il bot si è confuso e ha pensato che il tono su tono su una modella nera fosse nudo. Ed essendo un reblog – come il 90% delle cose che si postano su Tumblr, visto che è quel sistema che ha fatto la fortuna della piattaforma – non posso nemmeno appellare la decisione, perché può farlo solo il proprietario del blog d’origine che, se ancora posta, probabilmente se ne fregherà del tutto.
Ed ecco che il mio blog d’ispirazione è stato rovinato dalla censura, per non parlare di quello da fotografo in cui almeno cinque post sono stati flaggati – sul serio, cinque mie foto, la cosa meno sessualizzata che possa esistere.
Perché a quanto pare è quello che portava a Tumblr un danno d’immagine tale da farla sparire dall’Apple Store: il sesso. Non certo i blog nazisti, razzisti, omofobi, white-supremacist, o pieni di odio assortito: no, quelli possono continuare a postare indisturbati, non rovinano la pluralità e la diversità d’espressione che il management dice di voler difendere con questa caccia alle streghe. Il vero problema sono le fanart erotiche, i gif set porno e la fotografia di nudo. Non la violenza, non l’odio, non la discriminazione: il sesso.

Improvvisamente, l’idea che la Disney avesse più paura di una Principessa lesbica che di un’assassina non sembra più tanto assurda.

Thursday, 20 December 2018

Never live it down

Tolto l’uomo impossibile per cui ho reimparato a disegnare e un’altra situazione che non è chiara nemmeno a me, avrò avuto quell’unica cotta semi-seria negli ultimi quattro o cinque anni. E tutt’ora non riesco a perdonarmela.
Ma non per i soliti motivi – niente pipponi sulle persone forti che non hanno emozioni, l’ammoreh che è debolezza, il non voler mostrare troppo di me – no, niente cazzate da villain tragici di Once Upon A Time.
Anzi, ho seguito il mantra del non apparire deboli alla lettera, ho mostrato pochissimo di me e non ho affatto parlato dei miei sentimenti. È il motivo per cui le cose non sono andate in porto: se gli avessi dato un appiglio un pochino più solido, l’uomo in questione avrebbe abbandonato la barca mezza affondata su cui stava e sarebbe saltato fra le mie braccia senza battere ciglio.

Ma non è nemmeno questo, il non avergli dato abbastanza corda da conquistarlo, la parte che non mi perdono. Anzi, più ripenso a come le cose sono andate, più mi sento Keanu Fucking Reeves quando schiva i proiettili in Matrix.
È proprio essermi preso la cotta in sé che non riesco a tollerare.

Ho il vizio orribile, ogni tanto, di farmi un giro sui suoi social media, con un misto di orrore, fastidio per l’esistenza di una persona del genere e sollievo ad averla scansata. Ad esempio, ho appena passato gli ultimi venti minuti della mia vita a guardare su YouTube, con un misto di orrore e morbosa curiosità, un video talmente idiota che ho la sensazione di essere diventato più stupido per osmosi, come se la sola visione si succhiasse via il mio cervello. Un video che la persona in questione ha condiviso così, senza mezzo commento, senza apparente ironia o altri elementi che facciano presupporre che non ne condivida il messaggio.
Ed eccomi subito a chiedermi: perché? Come ha fatto a piacermi una persona del genere?

È che sono sempre stato orgoglioso di avere gusti difficili, di essere selettivo, di pretendere solo il meglio dai miei potenziali partner, come lo pretendo da me stesso. Per questo non riesco a perdonami di essermi preso una cotta per una persona così vuota. La sua timeline è una zuppa di cliché, di attivismo ostentato (condivide link, di solito quelli più “emotivi” e meno pensati, senza elaborare minimamente un commento a riguardo) in mezzo a una marea di frivolezze disarmanti. È un ragazzo che non ha davvero nulla di intellettualmente stimolante da offrire. E io sono stato lì a dargli corda, a consolarlo nei momenti brutti, a prenderne le parti, convinto che ne valesse la pena.
Certo, riguardando indietro posso dire di aver schivato la pallottola e far finta di nulla, ma nel profondo mi chiedo: perché? Come ho fatto a prendermi una simile cantonata? È lui che è peggiorato negli ultimi anni ma prima era una persona degna del mio interesse? Era bravo a nascondere il vuoto che ha dentro e, semplicemente, ora che è accasato non se ne preoccupa più? Stavo solo pensando con il cazzo?
In ogni caso, che imbarazzo. Per lui che esiste e per me che gli ho dato corda. Brr.

Friday, 1 June 2018

Love, Simon: il coming out di cui abbiamo bisogno

Love, Simon è uscito qui in Italia giusto giusto per il mese del Pride. Ci sono voluti dei mesi rispetto alla release statunitense, ma l’involontaria rilevanza tematica delle tempistiche è stata ottima, perché trovo sia un film di cui vale la pena parlare.
Perché Love, Simon è un film che rientra sotto l’ombrello del cinema LGBT, ma affronta il tema con una freschezza e leggerezza che ho trovato liberatrice.


La storia è semplice: Simon è un adolescente gay che non ha ancora fatto coming out. Stringe un’amicizia telematica e anonima con “Blue”, un altro ragazzo segretamente gay: scambiandosi email, lentamente se ne innamora. Tutto bene finché il bulletto della scuola non lo scopre e lo ricatta per farsi aiutare a conquistare la ragazza che gli piace; quando i suoi tentativi falliscono pubblicamente, diffonde le email di Simon e “Blue” per distogliere l’attenzione da sé. A Simon tocca raccogliere i cocci di questo outing non voluto, sistemare i rapporti con famiglia e amici, rinventarsi a scuola per non cedere al bullismo e tentare di riconnettersi con “Blue” che, di fronte alla pubblicità non voluta, sparisce.
Messa così, sembra la versione light per adolescenti dell’ennesimo pippone drammatico sull’omosessualità di cui Hollywood sembra tanto innamorata: essere gay è un dramma esistenziale per il protagonista, quando tutti lo scoprono le conseguenze sono terribili, la storia d’amore non potrà mai durare e, magari, alla fine uno dei due muore.
Nulla di più lontano da Love, Simon.

Perché l’orientamento sessuale di Simon e il suo coming out sono sì il filo rosso che connette l’intero film, ma non sono i perno dell’intreccio. Il fulcro del conflitto che va a crearsi nella vita di Simon si rivela essere non la reazione dei suoi cari al fatto che è gay, ma ai sotterfugi e alle macchinazioni che ha messo in atto per nasconderlo, alle bugie e mezze verità che ha raccontato loro. Il problema di Simon nella storia non è essere gay in sé e per sé, quanto il modo in cui gestisce la cosa con gli altri.
E sì, nel 2018 è ancora un po’ troppo idealistico rappresentare una famiglia in cui il padre fa del machismo ma senza malizia e, quando scopre dell’orientamento sessuale del film, capisce il suo errore e lo accetta senza problemi. Lo è anche mostrare una scuola in cui preside e insegnanti si preoccupano attivamente del benessere degli studenti (doppiamente divertente se si considera che nel cast ci sono Hannah Baker e Alex Standall di 13 Reasons Why), cercano di sostenere al meglio il ragazzo a cui è stato fatto outing. E anche la scena in cui i bulletti se la prendono con Simon e vengono zittiti dagli altri studenti non è ancora così universalmente verosimile. È fin troppo ottimistico pensare a un mondo in cui il coming out è più un problema interiore, in cui il grosso è la paura di farlo ma poi le cose vanno inaspettatamente bene.
Ma è bello vedere un film su un ragazzo gay che non è un dramma interamente incentrato su quello. Love, Simon è prima di tutto una storia di amicizia e amore con un protagonista è gay: l’orientamento sessuale ha impatto sulla storia perché è una parte di lui, nello stesso modo in cui la vita reale di una persona LGBT+ ne è influenzata in maniera anche sostanziale, ma non gira intorno a quello in ogni singolo aspetto. E se ancora è presto per vedere un mondo in cui, in una situazione simile, il modo in cui un ragazzo ferisce i sentimenti dei suoi amici fa passare in secondo piano il suo orientamento sessuale non eteronormativo, parte della normalizzazione di qualcosa passa anche dai media, quindi è bene che la rappresentazione passi anche da storie in cui i protagonisti hanno drammi che non consistono interamente in quello. La vita di Simon non è tutta essere gay: è un normalissimo insieme si scuola, famiglia, amici e una persona che gli piace, come quella di qualunque altro adolescente americano. Perché il mondo che vogliamo è proprio così, uno in cui essere gay è solo un altro dei mille, normalissimi casini quotidiani che un ragazzino deve affrontare, non la fine e l’inizio della sua vita.

Alla fin fine, Love, Simon non è una storia sul coming out, è una storia sul coming of age di un ragazzo gay. E il suo fascino sta proprio lì.

Monday, 28 May 2018

Immagini

Ieri sono tornato dopo tanto tempo su Tumblr e mi sono accorto di quanto mi fosse mancato.
I miei ultimi post risalivano a novembre 2017, ma è da almeno un paio d’anni che lo visito on and off, senza regolarità, senza seguire la dashboard e i blog che mi interessano con l’assiduità di qualche anno fa.
E in effetti è vero, Tumblr è abbastanza in crisi: come deviantArt prima di lui, è stato fagocitato dai fandom (oltre che, visto il livello minimo di censura, dal porno). Per me che seguo principalmente blog di fotografia è frustrante, dato che moltissimi hanno smesso di postare (sono ancora in lutto per la chiusura di Monochromanic, ad esempio) e la mia dashboard si è assottigliata notevolmente.
D’altro canto, il vero motivo per cui ogni tanto sparisco è che sono ossessivo-compulsivo e, se non riesco a stare dietro alla dash per qualche giorno, finisce che mi perdo sicuramente dei contenuti, la cosa mi scoraggia, si accumulano sempre più post finché tanti saluti. Per riuscire a tornare, ora, mi sono aperto uno ad uno tutti i blog che seguo, ho scorso gli archivi, aperto i post che a colpo d’occhio mi sembravano più interessanti e deciso quali ribloggare o meno. (In caso sembri un lavorone, purtroppo non lo è stato: Homotography è l’unico che posta regolarmente, seguito un po’ da Go Smoke; tantissimi sono inattivi dal 2015).

Avendo trascurato Tumblr, nei tempi recenti come fonte di media visivi mi sono rivolto sempre più a Instagram, che… eeeh, diciamo che è un’esperienza piuttosto diversa.
Il fatto è questo: sono piuttosto restio ad adattarmi ai cambiamenti delle piattaforme. Instagram sta in parte diventando un network professionale, mentre per me continua a essere il social del cazzeggio, del foodporn, del quotidiano, del BTS se proprio si scende in ambito fotografico. Per quanto riguarda me nello specifico, non riesco a convincermi a usare Instagram come piattaforma artistica, nonostante quando posto qualcosa di serio raggiunga risultati di visibilità che altrove mi sogno, perché, semplicemente, non ha il 2x3 come formato verticale, e buona parte delle mie foto invece lo sono. Ma sto divagando.
Il succo è che Instagram è il posto dove seguo cosa combinano gli amici, o al massimo stalkero le celebrità. Il tipo di immagini che ricevo nel feed è piuttosto comune, per lo più senza pretese artistiche. E poi ci sono i ragazzi carini che followi perché si sa mai che ci scappi una collaborazione, ma hanno un encefalogramma più piatto del Kansas e ti inondano di finte immagini quotidiane, in realtà studiate a tavolino, in cui non fanno che sbatterti in faccia il loro stile di vita a cinque stelle. (Per quanto riguarda il collaborarci, magari accetterebbero pure, per semplice attention whoring, ma dubito che il mio stile sarebbe adatto a loro: non me ne frega di glorificare la loro preziosa persona, a me serve trasformarli in avatar di ciò che voglio raccontare io).

Per contro, Tumblr, almeno nella bolla che mi sono creato intorno, mi propone immagini significative il cui intento è suscitare ammirazione, non invidia. Quando scorro Tumblr non vedo la vita quotidiana, non vedo il lifestyle, gli influencer o quella roba lì: ci si condivide arte. (Per la maggior parte delle persone ci si condivide porno, ok; ma, sempre per la specializzazione che faccio dei network, per quello uso altro). Ci sono eccezioni, ovvio: la qualità di Homotography, ad esempio, è colata a picco e ora il 90% di ciò che propone sta lì solo perché titilla lo spettatore omosessuale, ma scavando bene si trovano lavori artisticamente meritevoli anche lì. Ed è questo ciò di cui voglio circondarmi. Come esperienza visiva è molto più soddisfacente e non capisco, francamente, perché me ne sia privato tanto a lungo.
O forse lo capisco: perché mi riporta a tempi più felici in cui io per primo ero più creativo, meno pauroso e più disposto a saltare su un treno per fare foto come ho fatto a inizio mese. Chissà che essere tornato a casa – perché Tumblr mi fa sentire un po’ così – non mi aiuti a riportare queste esperienze a una frequenza maggiore che una volta ogni due anni.

Sunday, 11 March 2018

Diatesi

Come far capire all’utonto medio di Grindr che la sessualità non è solo una questione fisica ma anche e soprattutto mentale? Questa sì che è una bella domanda.
Ovviamente, in questo sono inclusi i ruoli sessuali. Se ricevessi un centesimo per ogni volta che qualcuno dà per scontato che io sia passivo e poi si sorprende, ché “con quel fisico non ti avrei detto attivo”, potrei comprarmi un’isola privata in Finlandia. Sì, utonto medio di Grindr, peso cinquanta chili. Sì, ho i tratti del viso delicati. Sì, non ho il vocione. Sì, il mio pene è nella media. Sorpresa: il ruolo sessuale è una questione in primo luogo mentale. Il mio corpo può sembrarti quel che ti pare, è ciò che c’è nella mia testa a fare la differenza e decidere cosa vorrò e non vorrò fare a letto.
Ecco, sono come i verbi deponenti in latino: sembrano passivi, ma in realtà sono attivi. Già, utonto medio di Grindr, esistono cose del genere. Mind = blown.


Da qui, il problema diventa mio, ed è scoperchiare la latta di vermi che è, per me, la “questione mentale”. Perché sono convinto che al mondo esistano due tipi di solo-attivi: quelli che non lo prendono perché je fa un male cane, o perché sono un pozzo senza fondo di nevrosi. Ovviamente io appartengo alla seconda categoria.
Ora, non che escluda in assoluto di fare il passivo in vita mia. È una di quelle cose che esistono nel cassetto del “un giorno, magari”, posta un’intesa di un certo tipo, la serietà del rapporto, la necessità di reciprocare un tipo di attaccamento più profondo da parte del partner e, soprattutto, un’assoluta fiducia. Nel sesso casuale, invece, lo escludo a priori per diverse ragioni.

Quella più facile da ammettere è che sono un control freak. Lo sono un po’ in tutti gli aspetti della mia vita e il sesso non fa eccezione (spesso con conseguenze disastrose, tipo non sentire nulla perché non mi lascio andare, e fingere che pornoattori levatevi). Posto il reciproco consenso, a letto sono il tipo che si impone, che guida senza molta sottigliezza la testa giù, che fa voltare, che decide quando e come far venire chi; d’altro canto, mi raffreddo subito se l’altro prova a imporsi con me.
Ho il costante bisogno di avere in mano la situazione, di conservare un margine di manovra, di essere il meno vulnerabile dei due: dare il mio corpo a qualcuno in quel modo mi toglierebbe quest’impressione e mi farebbe sbarellare di brutto.
Thanks but no thanks.

Parlando di vulnerabilità, c’è poi il problema di quando le cose finiscono. Dato che il mio presupposto è che i rapporti di questo tipo finiscano nel peggiore dei modi e qualsiasi piccolezza possa essere usata per ferirsi a vicenda (chissà come ho ricevuto quest’impressione, mh?), non potrei mai dare un’arma così potente in mano a qualcuno.
Perché è triste da dire, ma nel mondo omosessuale tutti adorano i passivi fra le lenzuola, ma al di fuori li coprono di disprezzo: nonostante tutte le battaglie e le relative conquiste, anche dentro la comunità prenderlo nel sedere è ancora vissuto come degradante. Darsi “della passiva” è l’insulto più comune, scherzoso o meno, fra gli uomini gay, la fonte di gossip più ricca e, in generale, un motivo di giudizio.
Per questo, dovesse un’amicizia con benefit finire col sangue amaro, è più difficile che uno vada in giro a dire con disprezzo “Da quello mi sono fatto scopare” che “Quello me lo sono scopato”, se l’intento è rovinare la reputazione. Fare solo l’attivo è una polizza in caso tutto vada per il peggio.

Side note, in parte ciò avviene anche col sesso orale. Solo che succhiarlo richiede una certa competenza e bravura. Per questo, l’eventualità che qualcuno, finito tutto in malora, vada a dire in giro “Quello me l’ha succhiato” non mi paralizza così. Al massimo, si sogghigna e si ribatte: “E sono pure bravo a farlo, bitch”, è più facile trasformarlo in un motivo di vanto che di vergogna.

E poi ho avuto l’epifania. Non mi ero mai soffermato a pensarci prima ma, nonostante tutto, io sono la prima vittima del pregiudizio. Già solo rileggere questo post lo prova in maniera inconfutabile: questa visione è talmente pervasiva, sia dentro che fuori dalla comunità omosessuale, che ne sono tutt’altro che immune.
Alla fine, è questo il vero motivo per cui mi rifiuto di fare il passivo: la mia mascolinità è sempre stata messa in dubbio. Sempre. Non sono mai stato Gaston, non mi è mai davvero interessato esserlo, ma sono sempre stato giudicato per questo. Una, due, tre, mille volte.
Per quanto intellettualmente sappia che i costrutti eteronormativi non siano assoluti, che ognuno possa essere uomo o donna a modo suo, che il bambino che legge i libri e ascolta la musica classica e guarda Sailor Moon e preferisce giocare in casa con le Lego e i peluche non è meno maschietto di quello che rutta, scoreggia, guarda le Tartarughe Ninja, gioca per strada e urla a più non posso, ho talmente interiorizzato queste critiche costanti che sono cresciuto estremamente insicuro della mia mascolinità. Un po’ è naturale che mi scatti il rifiuto di espormi all’ennesima potenziale fonte di giudizio, specie perché c’è una facile alternativa che, in un certo senso, funziona invece da riaffermazione della mia mascolinità.
In sostanza, oh merda, sono vittima degli stessi pregiudizi che combatto negli altri.
Non è una cosa facile da ammettere e razionalizzare. Anche se per anni e anni, fin dall’infanzia, ho lottato contro le aspettative sociali per essere me stesso nei miei termini, ho finito per cedere proprio nell’aspetto più personale della questione. Ma riconoscerlo è il primo passo per isolare e iniziare a demistificare uno stato d’animo e un modo di vedere le cose che, intellettualmente, so già essere stupidi.

Sunday, 4 February 2018

Soupir d’automne (no name to call me by)

C’era qualcosa in quelle parole che tornarono alla mente di Katherine, dopo che era uscita dall’atelier, dandole un vago senso di malinconia.
“Soupir d’automne; oh sì, mademoiselle, pare fatto apposta per voi.” Era già autunno, per lei, senza che avesse mai conosciuto, e senza speranza di conoscere più, né primavera né estate. Tutto ciò era perso, per lei, e nessuno avrebbe potuto restituirglielo.
C’è una cosa in Call Me By Your Name che mi ha lasciato l’amaro in bocca più del finale: è stata la sensazione di quanto della mia vita mi sia scorso accanto senza che provassi ad afferrarlo e godermelo.
Call Me By Your Name è una storia piuttosto semplice, quasi banale: un adolescente si innamora di un uomo più grande, passano un estate insieme fra flirt e passione, e alla fine (spoiler) lui ci rimane scottato malamente. Questa semplicità, oltre a permettere di concentrarsi sullo stile, lascia molto spazio all’esplorazione dei sentimenti dei personaggi, il che va a suscitare un grande impatto emotivo.
Ed è stato proprio rendermi conto delle emozioni provate da questi personaggi che mi ha fatto sentire molto come Katherine Grey da The Mystery of the Blue Train di Agatha Christie nella citazione di sopra: ormai quasi sulla soglia dei trenta, io non le ho mai provate e, quasi certamente, non le proverò mai.

Ci vuole una certa innocenza per essere Elio Perlman. Certo, l’amore va e viene a qualsiasi età, non lo metto in dubbio. È possibilissimo che l’anno prossimo, a trent’anni fatti e compiuti, mi innamori di qualcuno e finisca per farmi trascinare in un vortice di emozioni, sentimenti, dubbi, flirt estivi, pesche e quant’altro. Ma non sarà mai la stessa cosa.
Non ho mai vissuto un vero e proprio amore adolescenziale e non ne vivrò mai uno con quell’intensità. Sono cresciuto, la vita è trascorsa, mi sono indurito, sono diventato cinico, scollegato dai miei stessi sentimenti, diffidente verso il prossimo e cauto nelle relazioni. Non devo rendere conto a nessuno della mia vita (sentimentale e non), quindi non vivrò mai un grande amore in segreto, cercando di non farmi beccare dai miei perché omg, chissà cosa diranno se lo scopriranno. Non ho più l’immaturità per credere ai grandi gesti romantici e con ogni probabilità, se qualcuno se ne uscisse dicendomi di chiamarci con i rispettivi nomi, gli riderei in faccia, perché sono a un punto della mia vita in cui da una relazione mi aspetto concretezza, non giochi spensierati.

Seguendo il dramma di Elio Perlman, mi sono sentito come se mi fosse mancata una parte fondamentale della mia vita. Ho passato l’adolescenza aspettando il momento in cui me ne sarei andato da Alghero e avrei iniziato davvero a vivere. Non ho mai legato davvero con i miei coetanei perché mi sentivo totalmente fuori posto. Le due storie d’amore che ho avuto sono state a distanza ed è mancato loro ogni risvolto fisico. Ho saltato quasi tutta la fase dei primi esperimenti sessuali, in cui è lecito essere goffi e inesperti: il primo ragazzo con cui sono stato non ha mai saputo di esserlo e a quel punto avevo un tale bagaglio di conoscenze teoriche che ho dato una performance impeccabile come se fossero anni che facevo sesso. Non ho mai vissuto nulla di tutto ciò con l’innocenza di un ragazzino, e non so dove ciò mi collochi ora.

Così eccomi qui, a guardare un film su una storia d’amore adolescenziale e provare nostalgia per qualcosa che non ho mai vissuto. Fantastico.