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Friday, 24 December 2021

E come da tradizione…

Ero convinto che la terapia d’urto dell’anno scorso avesse curato la Mater, che essersi trovata a doverselo fare lei, l’albero, gliene avesse fatto passare la voglia. Non ha parlato di farlo fino a tre giorni fa e, anche avendomi fatto portare giù le scatole, non si era mossa.
Invece ieri, emergendo dalla mia tana per barcollare verso il bagno, avevo visto i rami in salotto – l’albero era montato ma ancora non aperto né decorato; e oggi, mentre io giravo per questioni di Pokémon Go da parte di entrambi, lei l’ha addobbato imperterrita. Però ha barato: ha messo solo le luci e le ghirlande senza palline o cianfrusaglie varie.
“Perché ora che tocca farlo a te, lo trovi incredibilmente tedioso.”
“No, non è vero! È che da sola non ho il tuo occhio.”
Certo. Chissà che l’anno prossimo finalmente si arrenda. L’importante è che continui a non coinvolgermi, così anche la mia Melania interiore resta sopita.

Parlando d’altro, stasera sembro la hotline per disperati in ansia per il cenone / pranzo con il parentame, e la cosa ha confermato le riflessioni che ho diligentemente fatto anche quest’anno sulla mia antipatia nei confronti del Natale. In realtà si tratta di un’espansione di quelle del 2017, ma ho isolato la parola che mi urta di più quest’anno, ed è “famiglia”.
Più ancora che per la gente che arriva e ti punta una pistola alla testa per farti essere felice or else, il Natale mi urta per la pressione sociale che pretende la (temporanea) disgregazione delle nostre famiglie elettive per costringerci a tornare a relazionarci con i nostri consanguinei, che ci piaccia o no. L’idea pervasiva è che, in questo periodo di grande gioia e bontà, i legami che ci siamo creati, le comunità che abbiamo scelto, gli spazi sicuri che ci siamo ritagliati non valgano nulla in confronto alla semplice linea di sangue che ci è capitata.
Nel caso peggiore ci ritroviamo seduti a tavola tra l’anziana zia bigotta che traccia i solchi intorno all’altare in ginocchio e il cugino prete che è finito sui giornali per un attacco transfobo a una certa personalità pubblica, di fronte allo zio complottista che è il più sveglio di tutti e l’altro cugino, che, a trent’anni suonati, tentava di strapparti i secchielli di lego di mano durante il trasloco e che rimpiangi di non spinto giù dalle scale fingendo che ti fosse sfuggito il secchiello di mano. Tutta gente, vuoi per questioni personali, vuoi per l’archetipo che rappresenta, normalmente eviteresti come la peste – in effetti, tutto il resto dell’anno lo fai – ma che la Magia del Natale ti costringe a sopportare solo perché ci condividi parte del corredo genetico.
Nel caso migliore, se riusciamo a sfangarci il parentame, rischiamo di ritrovarci soli perché il nostro sistema di sostegno e il piccolo mondo che ci siamo creati al di fuori dei consanguinei è incastrato coi propri parenti serpenti, e a me personalmente la cosa irrita.

Poi non nego che esista anche gente fortunata in cui le due sfere coincidono o sono quantomeno compatibili, eh! Se la vostra famiglia non è problematica, vi volete genuinamente bene e vi incontrate con piacere, by any means go for it!
Ma sto sentendo tanti di quegli amici o conoscenti stressati perché hanno problemi con i parenti, perché soffrono di nevrosi e questi incontri affollati pesano su quel lato, o che hanno legittime preoccupazioni di natura sanitaria per via del covid che sono ignorate per una stupida tradizione, e le loro voci sono silenziate perché “fa brutto” non passare il Natale con i parenti.
A questa mia impressione si aggiunge che l’emergenza globale e il precedente inasprimento dei contrasti politici hanno reso i grandi raduni di gente randomica se non per la parentela ancora più infiammabili, e stanno comparendo molti post, ad esempio rivolti a persone LGBTQ+, che danno consigli su come affrontare il periodo festivo mantenendo intatta la propria salute mentale.
Evidentemente il problema è reale e colpisce diverse persone. Se esistono post su come affrontare le feste, evidentemente si parte dal presupposto che siano un impegno che non si può ignorare, ed è una cosa assurda!

Ripeto: sono felice per le famiglie davvero armoniose, auguro loro tanti Natali da trascorrere gioiosamente insieme tra lucine, cenoni e regali. Ma ritengo sia fondamentale che nella sensibilità pubblica inizi ad esserci spazio anche per chi queste cose non le ha, o non se ne interessa. Normalizziamo non voler fare nulla a Natale. Normalizziamo dire: “Guarda, non ho molta voglia di venire al cenone, non me la sento”. Normalizziamo incontrare i parenti che ci vanno a genio, dire: “Mi farebbe molto piacere vederti, ma la presenza dello zio omfobo e del cugino prete renderebbe la serata spiacevole; ti va di prenderci un caffè in settimana?”. Normalizziamo che, se davvero vogliamo vedere qualcuno dopo tanto tempo perché gli vogliamo bene, esistono anche altri giorni.
Normalizziamo scegliere con chi condividere la gioia delle feste.

Per onestà intellettuale, aggiungo che, ovviamente, la mia visione delle feste è pesantemente influenzata dal rancore che nutro verso buona parte dei miei parenti. Sono nella posizione privilegiata di avere scuse plausibili per non incontrarli (i.e.: vivo lontano, passo il Natale con la Mater invece che col ramo paterno della famiglia), ma sentire la pressione sociale di farlo mi urta. Vedere miei amici sotto quella stessa pressione sociale – per quanto la loro situazione sia diversa, nel bene o nel male – mi fa arrabbiare. Magari c’è anche un pizzico d’invidia per chi invece ha una famiglia normale.
Però davvero, spostiamo la priorità dal concetto di famiglia al benessere delle persone che la compongono. E se qualcuno si offende, iniziamo a spostare il peso del giudizio sociale su di loro e sulle pretese che si arrogano sul tempo e la salute mentale altrui.

Wednesday, 10 November 2021

Mille piccoli graffi

Ieri notte il Mac mi ha tirato un nuovo numero: si è ibernato come ogni tanto fa (con la batteria nuova è meno frequente, ma sono più che altro io che ormai mi sono desensibilizzato e non batto più ciglio) e, quando l’ho riacceso, mi è sparito il wi-fi. Ho provato a riavviarlo e mi ha detto testualmente: “Wi-fi non disponibile, nessun hardware installato”. Ho fatto un bel respiro, l’ho proprio spento e quando l’ho riacceso era tornato tutto a posto. Sgradevole perché non me l’aveva mai fatto, ma nulla di che.

Oggi mi sono svegliato e, intercettando il flusso di coscienza che continua imperterrita a vomitarmi addosso mentre ancora non so nemmeno come mi chiamo, l’ho raccontato alla Mater.
La sua risposta? “Beh, ci credo, sta acceso da quando ti svegli a quando vai a dormire.”
Chiaro: è colpa mia che lo accendo e lo uso, non del fatto che ormai è nel suo decimo anno di vita.
E allora ho pensato: “Gee, I wonder why io mi colpevolizzi letteralmente per qualsiasi cosa.”
È sottile, apparentemente innocuo e a prima vista nemmeno irragionevole, ma oggi qualcosa ha cliccato nella mia testa e me ne sono reso conto: sono cresciuto con una fila interminabile di microattacchi come questo, di attribuzioni più o meno implicite di colpa per cose che sono o solo marginalmente collegate, o del tutto indipendenti dal mio corso d’azione. È tutto ciò che ho conosciuto nella mia vita, e non è quindi sorprendente se il mio primo pensiero, quando succede qualcosa, è trovare il punto in cui io ho sbagliato e fustigarmici sopra.
Però oggi bravo me, che ho immediatamente individuato e isolato il pattern senza lasciarmelo affibbiare né interiorizzarlo – e, anzi, riconoscere che è un comportamento abituale da parte della Mater.

Oh, e visto che siamo in tema, giusto tre giorni fa ho confessato a Katia di aver dovuto fare uno sforzo cosciente per non leggere ulteriori motivi in una cosa completamente scollegata da me che mi ha detto. E perché? Sempre perché sono cresciuto con una madre il cui metodo di comunicazione preferito, quando qualcosa non andava, era fare la passivo-aggressiva, e la cosa ha marchiato a fuoco nella mia coscienza che non posso fidarmi delle cose che mi vengono dette, c’è sicuramente qualcosa da leggere tra le righe, devo capire da solo qual è la cosa sbagliata che ho fatto, o quella giusta che non ho fatto.
Anche lì, ho riconosciuto il pattern e l’ho isolato, perché a volte la gente ha semplicemente i cavoli suoi e non dipende dalle mie presunte mancanze, ma non fidarsi della trasparenza di nessuno, soprattutto le persone più vicine, è davvero stancante.

TL;DR, ora che la mia generazione è in fase procreativa, ragazzə: ricordatevi di non essere mai genitori passivo-aggressivi e di non abituare lə vostrə figliə ad assumersi colpe che non dipendono da loro. Altrimenti tra venti o trent’anni saranno adultə copertə di cicatrici emotive incapaci di abbassare la guardia, rilassarsi e affrontare un problema senza fustigarsi.

Monday, 2 August 2021

Questione di fisica

Sorprendentemente, a me il fai da te piace. È una di quelle attività che sono estremamente riluttante a iniziare e rimando, rimando, rimando a più non posso, ma quando finalmente mi decido non solo ottengo buoni risultati, ma mi ci diverto pure. Trapano, martello, cacciavite, pinza sono tutti strumenti che so tenere in mano e usare senza problemi. E ne vado pure orgoglioso, probabilmente perché Il Guasto non è invece particolarmente bravo in questo, e saper fare meglio di lui qualcosa che, stereotipicamente, sarebbe più nelle sue corde mi dà soddisfazione a prescindere.
E poi c'è anche l'orgoglio di quando si presenta un qualche problema e io mi scopro in grado di risolverlo ragionandoci sopra e applicando le conoscenze apparentemente randomiche che ho in testa.

Case in point: oggi ho preso in mano il trapano per appendere diversi oggetti in giro per casa: attaccapanni in corridoio e in bagno, una mensolina in plastica nella doccia per tenere su shampoo e saponi vari, e poi la sbarra con i ganci per appendere gli utensili da cucina più grossi (mestoli, schiumarole eccetera). Nulla di particolarmente impegnativo, tranne che per l'intervento in cucina, visto che era sulle piastrelle. Tecnicamente lo era anche quello nella doccia, ma lì ho potuto trapanare sulla fuga e cavarmela così.
In cucina, invece, sulle prime ho avuto difficoltà a lavorare perché, in primo luogo, per uno dei buchi ero proprio all'angolo con le conseguenti difficoltà di manovra, e poi perché la mattonella è scivolosa e dura da scalfire.
Quando poi ho postato su Instagram in molti mi hanno suggerito la soluzione in questi casi: un pezzetto di nastro isolante che fa attrito e tiene la punta ferma, e passa la paura. Non avendoci pensato, invece, ho ripescato le mie conoscenze di fisica dal liceo: a parità di lavoro, minore è la superficie su cui ci si concentra e maggiore è la forza che vi si applica. Quindi ho sostituito la punta del trapano con una più piccola che, senza difficoltà, ha prima sbeccato e poi forato la piastrella, dandomi la traccia per intervenire con la punta delle dimensioni adatte alle viti. E voilà, in men che non si dica i tasselli sono entrati nel muro, ho avvitato la barra al suo posto e la cucina è diventata ancora più funzionale.

Sono cose sciocche di cui inorgoglirsi? Forse, anche perché parte di me si sente così in risposta agli stereotipi che solitamente si hanno dei gay (quando cerco di avere un rapporto neutro nei loro confronti: è valido sia distaccarsene, sia abbracciarli, sia zigzagare la cosa). Forse perché, mentre Il Guasto lasciava i quadri appoggiati a terra per mesi prima di prendere in mano il martello (e la Mater non lo faceva lei stessa per pura testardaggine), mi fa sempre piacere one-upparlo. Forse perché prendere il trapano e bucare il muro (a maggior ragione le piastrelle!) è una sfida alla mia ansia paralizzante da perfezionismo, perché sembra qualcosa di irreparabile che se a storto è un casino, mentre poi ho le abilità per mettere i tasselli perfettamente dritti e ricordarmelo a lavoro fatto è una bella sensazione.
Però è bello riuscire a fare queste cose, specie quando si applicano le proprie conoscenze teoriche che, nel sentire comune, sono spesso contrapposte alla manualità.

Friday, 4 June 2021

Vaccinando

E niente, da oggi sono effettivamente vaccinando. Sono aperte le prenotazioni qui in Sardegna e sono riuscito a districarmi per il vaccino. Il pomeriggio del dieci giugno dovrei ricevere la prima dose di… boh, da noi non lasciano scegliere perché siamo una regione pezzente, ma avrò la prima dose.
In teoria se ne parlava già da ieri, tant’è che ho ripetutamente tentato di accedere al sito e compilare tutto, solo per trovarmi ogni volta il messaggio che non rientravo in una fascia avente diritto. Ieri sera ho anche provato tramite l’ATM delle poste ma né io, né una ragazza trentaquattrenne che era lì a smanettare allo sportello siamo riusciti a cavarne un ragno dal buco. Oggi a pranzo è passato il postino (che suona sempre due volte da noi perché la Mater è l’unica che gli apre senza insultarlo) e ho tentato tramite lui, ma mi ha confermato che il sistema non era ancora stato aggiornato e lo sarebbe stato verso le sei del pomeriggio.
Poi in realtà la Mater è riuscita a infilare i miei dati poco dopo pranzo, ma non mi è arrivata nessuna conferma. Così, dopo un po’ di incertezza e scambio di idee con un conoscente su Instagram, ho riprovato non appena Beatrice mi ha detto di esserci riuscita (alle sei meno un quarto) e ta-dah, data fissata.

È da quando ho cliccato e ricevuto la conferma via SMS che continuo a zompettare su e giù per casa. Ho addirittura chiamato Katia perché avevo bisogno di parlarne un po’ e sono riuscito a calmarmi solo allora. Credo sia la prospettiva di smettere di essere un potenziale pericolo per me stesso e per gli altri ogni volta che esco di casa a essere così entusiasmante. Del resto, da quando la Mater ha ricevuto la prima dose ho iniziato ad provare un po’ di sollievo, misto sempre all’impazienza per quando riceverà la seconda dose e trascorreranno le due settimane di precauzione perché l’immunizzazione sia completa, così non dovrò preoccuparmi più per lei (e magari non dovrò nemmeno più temere scenate come quella dello scorso aprile). Anche se tutto il corollario continuerà a essere un casino, sapere che le probabilità di ammalarsi, specie in maniera grave, sono notevolmente ridotte è una grande consolazione.

In tutto ciò, non mi sfugge l’ironia del fatto che avrò la prima dose il giorno dopo che la Mater avrà la sua seconda, né tanto che, di questo passo, sia io, sia lei, che è più giovane di lui di otto anni, saremo immunizzati prima di mio padre. La prima è una questione di disorganizzazione della regione quando si vaccinavano i più anziani, l’altra è lui che è… beh, Il Guasto. Per inciso, doveva tornare dalla Turchia in questi giorni ma non ho la minima idea di quando, precisamente, se lo stato dei trasporti pubblici gli permetta di farlo, o se abbia intenzione di vaccinarsi o meno una volta qui.
Beh, sono problemi suoi. Uno dei motivi per cui avevo vissuto il suo viaggio e la sua testardaggine come un insulto personale era proprio che lui fosse uno di quelli a cui stavano offrendo il vaccino e le sicurezze che comporta su un piatto d’argento e li avesse rifiutati così, mentre io avrei dovuto aspettare chissà quanto. Ora che sono ufficialmente vaccinando, lui può fare quel che vuole.

Saturday, 24 April 2021

Bambini grandi

Non so cosa sia stato. Forse la lentezza con cui ho abbassato entrambe le posate. Forse il lampo omicida che mi ha attraversato lo sguardo. Forse la combinazione tra lampo omicida e oggetti acuminati in mano. Il fatto sta che la Mater ha sùbito fatto marcia indietro sulla richiesta che io comunicassi al Guasto delle spese per l’installazione del gas e del riscaldamento in casa e gli chiedessi i documenti necessari per richiedere le agevolazioni di stato, e si è proposta di farlo lei stessa.
Di nuovo, dopo le ultime settimane ho seri dubbi che abbia la sensibilità necessaria per rendersi conto di quanto vicino io sia al punto di rottura e che dover mediare tra lei e il suo ex non avrebbe aiutato, quindi devo davvero aver fatto un’espressione tale da farle tornare in mente i discorsi su quanto mi sia rotto le scatole di far loro da cuscinetto. O forse, dopo che l’ultima volta non le ho fatto sconti sulla mia rabbia per come finisce sempre per tirarmi in mezzo e lasciare a me le conseguenze, ha pensato che fosse il caso di risparmiarsi il mio muso lungo (“Osi usare i miei incantesimi contro di me, Potter?”).

Comunque, dopo i convenevoli e una breve introduzione in cui gli dicevo che bisognava parlare della casa e gli passavo la Mater, ho assistito alla scena surreale di sentirli parlare tra di loro con toni civili e in maniera costruttiva. Due bambini grandi che non hanno più bisogno della baby sitter! Francamente non ricordo proprio quando fosse stata l’ultima volta in cui avevano parlato direttamente: mi viene in mente quando siamo andati tutti assieme a comprare il condizionatore per camera mia, ed era un paio d’anni prima che mi trasferissi a Trieste! C’è perfino stata una vaga cordialità nel chiedersi come stessero, di questi tempi, e alla fine si sono accordati su tutto e lui ha accettato senza trascinare i piedi di fare la sua parte.
Naturalmente la Mater non si è lasciata sfuggire l’occasione di trollarlo un po’. Con l’espressione e il tono di voce della gatta che sta per saltare sul bancone della cucina a rubare la fettina lasciata a scongelare, lo ha informato di essersi prenotata il vaccino, gli ha ricordato che hanno aperto uno hub in Paese, gli ha dato tutte le istruzioni su come fare anche una volta tornato e dopo aver saltato la chiamata del suo anno, e ha chiesto con finta innocenza come stesse andando in Turchia ora che hanno chiuso tutti i voli perché la situazione è fuori controllo. Il tutto ignorando bellamente me che le gesticolavo di starsene zitta e chiudere la chiamata finché eravamo in vantaggio e avevamo ottenuto ciò che volevamo, prima che lui cambiasse idea.
La cosa esilarante, però, è stata notare che il Guasto ha ancora palesemente timòre della sua ex moglie perché, lungi dalle filippiche che gli ho permesso di fare il mese scorso, i suoi tentativi di controbattere sono stati molto affannosi, brevi e decisamente patetici, e lei se li è gustati con malcelata soddisfazione fino a rosicchiare l’osso come faccio io con le alette di pollo speziate dei Mastri d’Arme.

Nonostante ciò, la telefonata si è conclusa in positivo e ci siamo portati a casa la vittoria. Non solo, i miei genitori si sono comportati – lo ribadisco! – da bambini grandi capaci di dialogare direttamente senza bisogno che io faccia da intermediario.
Capisco il rifiuto categorico della Mater di dargli i suoi contatti visti alcuni incidenti immediatamente post-divorzio quando al vecchio numero arrivavano telefonate oscene, ma d’ora in poi sarò ben disposto a ospitare le chiamate, non di più. Per cortesia, signori, il contenuto sbrigatevelo da soli senza la baby sitter. Siete adulti e vacc– ok, questa è un po’ fuori luogo, ma il succo l’avete capito, no?

Friday, 23 April 2021

Yeah, right

È molto, molto difficile gestire un disturbo mentale quando le persone che ci sono più vicine sabotano costantemente ogni sforzo. Case in point, la Mater che nell’ultima settimana e mezza ha trovato qualsiasi scusa, dalla più stupida alla vagamente credibile, per sbattermi fuori di casa almeno dieci minuti ogni singolo giorno.
La cosa interessante è che, ogni volta che qualche suo amico o amica si ammala di qualcosa, lei è in prima linea a leggersi una pubblicazione scientifica dopo l’altra per capire di cosa si tratta, come è meglio muoversi, che suggerimenti può dare, in che modo può essere d’aiuto (e non parlo di Dr. Google laureato all’Università della Vita, eh, proprio pubblicazioni serie). Chiaramente, questo disturbo non se l’è preso con le mie, di condizioni, perché magari avrebbe quantomeno imparato che un attacco d’ansia ha sintomi fisici e oggettivamente misurabili. Poi si chiede perché sono mesi che mangio tra un conato e l’altro a causa dello stomaco perennemente teso.

A me non importa che questa zona rossa sia all’acqua di rose. Non m’importa che tutti siano in giro e nessuno controlli, né che io e la Mater siamo cauti e non andiamo in mezzo alla gente. Io so che, a uscire per futili motivi, anche solo sotto casa, anche solo brevemente, sto facendo una cosa sbagliata. Sto correndo un rischio inutile sia di ammalarmi, sia di beccarmi una multa e che, se anche davanti alle autorità dovessi cavarmela, lo farei mentendo. Non sto andando da Mauri’s a comprare una bacinella, non sto andando dal fruttivendolo, non sto andando da Saponi & Profumi, sto assecondando mia madre che vuole uscire. E questo mi fa stare male.
Ma la Mater no, la Mater al massimo ci ride sopra. Ahah, l’altro giorno abbiamo incontrato una pattuglia che ci ha superati e ha svoltato nella via dove stavamo per svoltare noi; io l’ho pregata di tornare indietro e prendere la parallela, ma no, lei ha continuato a sfilare trionfante lì, tanto quelli erano impegnati con un ragazzino che aveva fatto non so cosa con qualche bicicletta. E poi ci ha riso sopra con un’amica, che io ero fuori di me dall’ansia perché non mi ha nemmeno fatto la cortesia di cambiare leggermente percorso per evitarmene una fonte diretta e concreta.
Che poi, perché le do corda? Perché francamente ho i nervi troppo a pezzi per sopportare i suoi musi lunghi e la sua passivo-aggressività: almeno con l’ansia so cosa trovo e so che è tutta nella mia testa, mi sono detto. Però il risultato è che quando devo uscire per motivi seri, tipo andare a fare la spesa, non ho più le forze fisiche e mentali per sostenere la situazione e ta-dah, meltdown!
 
Oggi le avrei torto il collo. Andiamo sempre entrambi perché lei entra in negozio a prendere la roba e io poi porto il carrello a casa. Già ha il vizio di fermarsi ogni tre metri perché mai si dica che, già che è fuori di casa, non ne approfitti per aprire Pokémon Go. Già ha il vizio di farlo soprattutto nei punti dove passa più gente, quelli che io cerco di superare il più velocemente possibile per sentirmi almeno un briciolo più al sicuro. Non solo, oggi ha anche minacciato di attaccare briga. Eravamo in un punto affollato, da entrambe le parti stavano arrivando persone senza mascherina (cosa che mi triggera un misto d’ansia e incazzatura), non potevo attraversare la strada a meno di mollare la spesa lì perché era il viale a due corsie con l’aiuola nel mezzo che non avrei potuto superare col carrello, e mi sentivo in trappola. E lei che fa “Adesso gli dico di mettersi la mascherina, a quelli!”. Cioè, in quella situazione mi mancava solo dover fare da babysitter a lei perché non si mettesse a litigare e urlare per strada.
A quel punto, semplicemente l’ho mollata lì. L’ansia che mi ha fatto accumulare non-stop per due settimane ha raggiunto il punto di rottura e si è trasformata in vero e proprio attacco di panico. Sono tornato indietro, ho svoltato l’angolo e ho fatto il giro dell’isolato pur di evitare tutto quello stress, il tutto cercando senza successo di respirare normalmente. Che facesse il cazzo che le pareva, lei: ne avevo fin sopra i capelli per occuparmi pure di lei. Ho marciato verso casa a un passo talmente veloce che, nonostante io avessi il carrello, lei non riusciva a starmi dietro, e quando gliel’ho mollato per portare entrambi gli account di Pokémon a prendere due missioni rare vicino a casa – una scusa per camminare un altro po’ e sfogare l’ansia – mi ha anche detto che ero “odioso” a comportarmi così.
Pardon me, bitch?
Comunque, la cosa si è risolta con me che, una volta solo, mi sono sfogato mandando due audio in cui, a forza di ringhi e grida, raccontavo a Katia quello che era successo, poi sono tornato a casa e ho sfogato il picco di adrenalina passando l’aspirapolvere in tutta casa in meno di un quarto d’ora. Poi mi sono sdraiato sul letto, sono crollato esanime e ho dormito per un’oretta e mezza fino a cena.

E niente. Come canta Pescy, “I’m reaching a new level of not giving a fuck”: da oggi in poi non m’importa se mette il muso e fa la stizzosa, non ho più intenzione di uscire di casa se non per la spesa finché siamo in zona rossa. Perché nulla, nulla è peggio di come sono stato oggi pomeriggio. Che si arrangi se vuole cercarsi scuse per passeggiare e si sente sola. Sa benissimo che la mia salute mentale è precaria sotto le migliori condizioni, sa che la pandemia non aiuta minimamente, e nonostante ciò non si mette il minimo problema a riguardo. Non solo se ne frega completamente di evitarmi fonti di ansia, ma è prontissima anche a crearmele lei. E allora no, cara mia, non ci sto più. Visto che chiarmente sono l’unico a cui interessa del mio benessere psicologico, mi concentrerò solo su quello.

Tuesday, 13 April 2021

Turchia portami via

Stupido io che ogni tanto ci riprovo.
Qualche giorno fa ho di nuovo sentito il Guasto, e inizio a pensare che questa faccenda di andare via in Turchia in piena pandemia sia più una scusa per non dire nuovamente che il vaccino mamma mia.
A sentire lui, lì va tutto bene. È tutto sicuro, non c’è nessun rischio, la gente è cauta ma la vita procede normale e il virus non c’è; giusto oggi, Breaking Italy ha pubblicato un paio di statistiche sulla Turchia, che è il Paese in orbita europea col più alto indice di contagi, tanto che perfino la Russia ha chiuso tutti i voli per non peggiorare ulteriormente la propria situazione. Cioè, stando alle grafiche presentate dal buon Shy, la situazione è questa:



Solo ieri, i nuovi casi positivi in Turschia sono stati più dell’intera popolazione di Alghero: c’è posto per altre tre o quattro volte il paesino del Guasto.



Qui invece la curva dei contagi per milione di abitanti paragonata a quella della Germania. Sta andando decisamente tutto bene, ve’?
 
E no, stavolta non è perché si beve la propaganda di regime dell’ennesimo dittatore per partito preso: anzi, Erdocoso non ci sta affatto simpatico perché sta bombardando il confine del BFF del Guasto, ché ci sono i Curdi – e guai a toccare la Siria e al Guasto, non ci vede più.
No no, a ‘sto giro il regime non ci piace, quindi la scelta di credere al fatto che non ci sia il virus in Turchia ha a che fare col complotto del virus in sé. È un modo per convincere se stesso che non ci sia da preoccuparsi e che possa continuare a giocare al complottista che ha capito tutto.
Per contro, l’idea che, quando tornerà, “ne parleremo” e “vedremo” quando e se si vaccina è solo l’ennesima bugia che quell’uomo mi ha detto da che mi ha messo al mondo.
Io onestamente inizio a essere esasperato. Non so nemmeno perché mi stia a preoccupare per lui.

Sunday, 21 March 2021

Genitore uno e gen– I can’t even

Io… io non ce la faccio. I can’t. Davvero. I can’t even.

La filippica antivaccinista c’è stata, a colpi di “Adesso sperimenteranno sui bambini – capisci?! Vogliono usare i bambini come cavie!”, ma non è stata il piatto forte della telefonata. Il vero motivo per cui il Guasto voleva parlare con me più a lungo, con più calma e con una linea più stabile dell’internet mobile turco a bordo di un pullman era per chiedermi di raggiungerlo lì in Turchia perché vuole presentarmi un paio di ragazze.
Che di nuovo, pover’uomo, non è colpa sua, sono io che non ho le forze di affrontare la battaglia che sarebbe un coming out con lui e il resto della sua famigliola bacata (ho un cugino che è finito sui giornali per le sue esternazioni omotransfobiche, btw). E capisco che magari spera semplicemente di infilarmi a lavorare lì e sistemarmi così, ché l’età avanza e avrà paura di lasciarsi dietro un figlio che è un casino. Ma che visione distorta di me e/o del mondo deve avere se pensa che la Turchia possa offrirmi un futuro e una qualità della vita soddisfacenti?
Fra l’altro, anche tralasciando le differenze culturali che renderebbero il mio benessere psicologico in Turchia alquanto improbabile, mi urta che non mostri il minimo riguardo nemmeno per la mia salute fisica nel breve termine. Cioè, per andare lì dovrei fare almeno due scali, più tutti i trasporti pubblici di terra, con possibilità di contagio che, tampone o non tampone, si moltiplicano. E una volta lì, “Al massimo te ne stai in casa”, grazie tante, con lui che a quanto pare fa il pendolare in pullman e rischia di portarmi il virus.
Ma è scemo? È demenza senile? Semplicemente non si rende più conto di come si faccia a stare al mondo?

Alla fine, ho deragliato il discorso e chiuso la chiamata chiedendogli di mandarmi le foto di queste fantomatiche ragazze e di farmi un video in cui mi mostra il suo appartamento. Questo l’ha messo di buonumore perché ho finto di interessarmi alla sua vita lì e anche per quest’anno ce la siamo scansata.
Se non altro la costernazione comune mi ha fatto passare l’arrabbiatura con la Mater: perfino lei ha ammesso che, dei due, quello più sfortunato sono io, perché da un marito si può sempre divorziare, da un padre no.

Genitore uno e genitore due

Sorpresa sorpresa: la chiamata col Guasto, che ho fatto come seconda cosa appena sveglio (dopo aver pranzato) e ho tentato di buttare su un blando: “Auguri! Qui fa un freddo bestia, lì?”, si è conclusa con: “Adesso sono sul pullman, sto tornando a casa. Ci sentiamo fra un paio d'ore e parliamo”.
Così a naso, ha sentito la Ziaccia, quella gli ha detto che sono preoccupato, e adesso mi toccherà sorbirmi un'altra tirata no-vax alla quale dovrò annuire e sorridere come un ebete nel tentativo di evitare un'escalation.
Ribadisco: certo che la Mater poteva anche farseli, gli affari suoi.

Oh, e a proposito: lei adesso mi sta girando intorno stile squalo alla disperata ricerca di un “Ma no, dai, non è colpa tua”, un “Non sono arrabbiato”, o un “Come potevi sapere che sarebbe finita così?” che francamente mi rifiuto di darle. Gliel'ho detto in faccia: sa benissimo com'è fatto il suo signor ex, che anche se parti con le migliori intenzioni lui riesce comunque a mandare tutto in vacca, quindi poteva benissimo evitare di esasperarmi dicendomi di avvisarlo fino a farmi cedere pur di farla stare zitta. Perché tanto mica è lei, che deve averci a che fare, no! Sono sempre io! Allora, o smette di lanciarmi addosso al suo ex quando non ha assoluta necessità di comunicargli qualcosa, o si assume le sue responsabilità e sbroglia lei i casini che crea. Se ha tanto a cuore che quello lì non crepi di covid, che gli telefoni e ci parli.
 
Personalmente, sono stufo di trovarmi sempre in mezzo a due persone che non dovrebbero avere più nulla a che fare l'uno con l'altra. L'unica decisione sensata che abbiano mai preso è stata quella di divorziare, perché averci a che fare in combo sarebbe decisamente al di sopra delle mie capacità.

Friday, 19 March 2021

Il Guasto

Secondo un detto russo dell’epoca pre-cellulari, “Gli uomini sono come i telefoni pubblici: o occupati, o guasti”. Quando un’amica della Mater litigava con suo marito, prendeva ispirazione da questo detto ed esordiva le chiamate strillando: “Tutti guasti!”. Da lì, il passo successivo è che il soprannome coniato per il Procreatore dalla Mater e la sua amica è “Il Guasto”. Proprio per antonomasia. E considerando i numeri che ha tirato per tutti gli anni della separazione e del divorzio, era pienamente meritato.
D’altro canto, se non fosse stato guasto, la Mater non avrebbe divorziato da lui, giusto?
 
Ed è proprio la Mater, che i cavoli suoi non se li sa fare, ad avermi infilato nell’ennesima brutta situazione. Stavolta non perché ho dovuto fare da cuscinettro tra loro, ma perché ha letto la notizia che il paese del Guasto aveva pubblicato il calendario per le vaccinazioni degli anziani e mi ha suggerito di approfittare della telefonata d’obbligo per la festa del papà e avvisarlo, così da permettergli di tornare in tempo per fare tutto.
“Grande errore. Grande. Enorme.”

Gif obbligatoria perché l’amore per Giulia Roberts è l’unica cosa che io e il Guasto abbiano in comune.

Se la sua partenza per l’estero coi tempi che corrono me ne aveva dato il sospetto, la lunga filippica antivaccinista che ha attaccato me l’ha confermato: è del tutto partito di capoccia sulla faccenda del covid. E lo è, fra l’altro, a correnti alternate: il momento prima il virus è tutta una montatura e nei vaccini c’è soluzione fisiologica, quello dopo i vaccini sono pieni di veleno che non funziona contro la malattia ma causa la morte nel sessanta percento dei casi.
Ora, avendo due genitori anziani ho imparato da tempo che non vale la pena di sprecare energie nel far cambiar loro idea, specie lui, che è molto ignorante. Ma alcune delle sparate che ha fatto erano talmente oltraggiose che non ce l’ho fatta, a trattenermi, e ho tentato discretamente di controbattere, solo per sentirmi rimandare a video pubblicati su “Faccebùc” da luminari di cui “i giornali non parlano”. Cioè, davvero, uno ad uno tutti gli argomenti del complottista medio, sono sconvolto.
Così, quella che doveva essere una rapida telefonata di finti auguri è diventata un’incubo che non finiva mai e che ha confermato che non importa quanto basse siano le mie aspettative, lui riuscirà sempre a deludermi.

Riattaccato il telefono, il male di vivere e lo spirito autolesionista erano tali che ho di nuovo dato ascolto alla Mater e ho chiamato la Ziaccia per avvisare lei sulle date. Trovandola inaspettatamente cooperativa, ho dato sfogo alla mia frustrazione circa il suo signor fratello (mascherandola da preoccupazione) e ho scoperto di sfondare una porta aperta, con lei esasperata da mesi per le sue sparate antiscientifiche, assolutamente contraria al viaggio in Turchia, rassegnata perché, giustamente, “Ma cosa potevo fare, legarlo al letto?”, e alquanto seccata dalle serate brave di lui a bere vino fatto in casa in cantina con gli amici e rigorosamente senza mascherina. Se non altro, comunque, non sapeva che fossero uscite le date e mi ha ringraziato tanto per averla avvisata perché non vede l’ora di vaccinarsi: magari con questo stunt mi sono guadagnato un po’ di punti testamento.

E niente, al momento sono ancora frastornato. Dalla stupidità del Guasto, dal fatto che perfino la Ziaccia, campionessa di scemenze catto-integraliste, stia dimostrando più buonsenso di lui, dall’aver trovato comprensione in un membro di quella famiglia. Per quanto sia contorto, sentirmi dire dalla Ziaccia che capisce la mia preoccupazione e frustrazione mi è stato in qualche modo di conforto: se persino lei è d’accordo, quello sbagliato è davvero lui. Non che cercassi più alcuna validazione in quella famiglia, dopo che non ricordo chi di loro aveva detto (con ironia involontaria, vista la valenza che la parola ha assunto per me): “Ormai è guasto anche lui, che se lo tenga” di me e della Mater dopo che tutte le battaglie legali erano fallite. Ma perché non godersi quel breve momento in cui non sono io quello sbagliato? Tanto durerà poco, perché so già cosa succederà.
Eh già, perché quel che è peggio è che non posso nemmeno dirmi: “Vabbè, tanto la festa del papà capita una sola volta l’anno, sono a posto per altri trecentosessantacinque giorni”. No, perché il compleanno del Guasto cade fra due giorni, quindi dovrò sentirlo di nuovo a breve. E sicuramente per allora avrà sentito la Ziaccia, che gli avrà riferito delle mie preoccupazioni, caricandolo a molla per una filippica antivaccinista.
Potevo farmeli, gli affari miei, no?

Sunday, 31 January 2021

Pandemia e serietà

“Sai, stavo pensando…”, faccio io a cena, guardando il calendario.
“Sì?”, risponde la Mater.
“Oggi è domenica 31 gennaio. Praticamente è febbraio…”
Lei sogghigna: “Non è che, già che ci sei, rimani fino al mio compleanno?”
Ci guardiano e scoppiamo a ridere.

Questo del compleanno è un nostro inside joke: è proprio “rimanendo fino al compleanno di mamma” (ufficiosamente aspettando di vedere come si evolveva la situazione quando i primi casi sono arrivati in Nord Italia) che sono finito a stare ormai oltre un anno qui da lei invece che su da me, e francamente non è che me ne lamenti.
La battuta è poi diventata che, già che c’ero, potevo rimanere fino al mio compleanno a maggio, e infine che sono rimasto fino al compleanno dell’anno dopo. E non è nemmeno l’unico inside joke che abbiamo circa la pandemia – il più eclatante, quando si starnutisce invece che “salute“ ormai diciamo “Non ce n’è coviddi”. È quel meccanismo di difesa psicologico per cui si cerca di ridimensionare una situazione in qualcosa di risibile per non impazzire. Ma pur ridendoci sopra, prendiamo entrambi molto seriamente le norme di contenimento: usciamo il meno possibile, indossiamo sempre la mascherina (sopra il naso!), non viaggiamo, rispettiamo le norme igieniche (se già odiavo avere le mani sporche, ora provo un malessere fisico a non lavarmele dopo essere rincasato), non votiamo Renzi… facciamo la nostra parte per non finire ammalati e non aggravare ulteriormente la situazione collettiva.

In compenso, poco dopo lo scambio di cui sopra mi ha chiamato il Procreatore. “Ciao, Ale, sto andando in Turchia: non è che vuoi venire?”
E niente, fa già ridere così.
In sostanza, l’azienda per cui lavorava (e per conto della quale ha continuato a fare consulenze internazionali) sta aprendo una filiale da qualche parte lì e serviva che andasse un mio cugino addestrato dal Procreatore; il quale cugino ha subìto un intervento, così il proprietario, pur di non ritardare i lavori, ha deciso di andare lì trascinandosi dietro, in piena pandemia, un ottantenne con già problemi pregressi di sinusiti e malattie respiratorie.
Mi chiedo cosa direbbero i suoi Compagni dell’allora PCI, a sapere che ha messo a rischio la sua salute al servizio del capitalismo per beneficiare il padrone.
Per inciso, i due signori sono stati fermati all’imbarco dell’aereo per la Turchia, visto che sono partiti senza test sierologico, e si sono trovati costretti a prendere un albergo a Roma in attesa dei risultati di quello che hanno fatto lì sul posto. Complimenti, ulteriori occasioni di contagio. Che poi, il Procreatore è vecchio e tonto, posso capire, ma il padrone? Non si è informato sui documenti necessari per un viaggio internazionale, coi tempi che corrono? Non ce la posso fare.
Per non parlare del fatto che tempo qualche settimana e probabilmente l’avrebbero pure vaccinato, mannaggia a lui: che fretta c’era?

In tutto questo, nonostante le aspettative bassissime che ormai gli riservo sempre, il Procreatore mi ha deluso per l’ennesima volta. Vero, l’anno scorso a una certa ci siamo sentiti e ha iniziato a vomitare teorie del complotto sul 5G, i poteri forti e le cure nascoste, con me che, nella più totale disperazione, gli ho dato corda pur di chiudere la conversazione a suon di: “Sì, papà, ma è meglio non parlarne ora, sai… parliamone quando ci vediamo di persona senza telefoni, wink wink”. Ma qualche mese dopo, quando i casi hanno iniziato a diffondersi anche in Paese, aveva ricantato tutto e iniziato a prendere la situazione sul serio, e per un attimo ho sperato, ho sperato davvero che fosse rinsavito.
Poi a Natale ci siamo sentiti e mi ha detto che, quando fosse finita la zona rossa nazionale, ci saremmo visti “magari a pranzo in qualche ristorante”, ma ho ancora tentato di illudermi che fosse un tentativo goffo di organizzarsi per passare del tempo insieme, che per abitudine avesse pensato a un pranzo fuori. Invece no, evidentemente ha sempre continuato a non volersi rendere conto della gravità della situazione e non si meritava quel poco di credito che ero disposto a dargli.
Ecco, è questa la vera mancanza di serietà nell’affrontare una pandemia: non le battute, non gli scherzi, non le risate. È il viaggio non necessario di un uomo nella fascia più a rischio e con una storia di problemi respiratori. Andiamo bene.

Ps: quando mi sono rifiutato categoricamente di muovermi ora, lui ha parlato di “dopo la pandemia” in termini che mi hanno lasciato sottintendere un’idea di andare a vivere e lavorare lì. Nello Stato di Erdogan. Fra l’altro in Kurdistan, una zona che immagino essere assolutamente tranquilla e stabile. Ora, vero che, povero imbecille, era convinto che la Ciospa fosse la mia fidanzata e non sa di me, ma anche tralasciando il piccolo dettaglio che mi butterebbero giù da un tetto, pensa davvero che sarei disposto a rinunciare anche solo all’accesso a Internet e Netflix? Bitch, please.

Tuesday, 5 January 2021

Pasta indigesta

Nonostante l’impatto per niente positivo che ha avuto sul resto della mia vita, c’è una cosa di sono davvero grato alla Ziaccia.
In fondo alla via dove abitavamo sia noi che lei c’era una di quelle cassette grigie per i contatori elettrici; la via finiva in un incrocio a T quindi, risalendo la strada, questa cassetta stava proprio di fronte per tutta la lieve salita e si vedeva perfettamente.
Avrò avuto sì e no quattro anni: qualcuno aveva disegnato con la vernice a spruzzo nera una svastica su questa cassetta elettrica. Un pomeriggio io, che ovviamente non sapevo cosa fosse questo simbolo, ero a casa della zia, avevo carta e penna in mano per disegnare, e riprodussi la svastica.
Ho solo flash di quello che è successo dopo e, probabilmente, la mia memoria di bambino l’avrà drammatizzato più del dovuto, ma ricordo che la Ziaccia si teneva il petto e, con voce agonizzante, ripeteva: “Per carità, per carità, non voglio nemmeno vederlo, questo simbolo! Solo a vederlo mi sento male!”. La cosa che mi colpì fu che non era arrabbiata, men che meno con me. Non mi ha sgridato, non mi ha punito, era semplicemente atterrita.
Poi lei (quando si è calmata), mio padre e la Mater mi hanno spiegato insieme, a grandi linee, cosa fosse una svastica: che era il simbolo usato dai fascisti, che erano stati persone davvero cattive che avevano fatto delle cose terribili. Ma nonostante quella spiegazione, nonostante ciò che negli anni successivi ho studiato, i monumenti che ho visitato, i documentari che ho visto, le testimonianze che ho sentito, ciò che mi è rimasto più impresso circa il nazi-fascismo è la reazione della Ziaccia (che, essendo nata nel 1933, la guerra l’ha vissuta e nemmeno troppo da piccola): solo vedere il simbolo l’aveva letteralmente fatta sentire male. Avete presente Maria Von Trapp quando vede la spilla di Hans in Cantiamo Insieme? Ecco.
Le sono grato, dicevo, perché oltre al livello conscio, alla consapevolezza razionale dell’orrore che sono stati il nazismo e il fascismo, la sua uscita ha cementato nel mio subconscio il tabù assoluto del nazi-fascismo: fin da piccolo, ho imparato a considerarlo un argomento serio, terribile, da non prendere alla leggera, da non usare come battuta e da non riportare mai più in vita nel presente. Addirittura, vedere le svastiche in film o serie tv ambientati in quel periodo mi mette a disagio – probabilmente è proprio la consapevolezza che quel simbolo è stato riprodotto oggi negli oggetti di scena, per quanto a livello conscio io sappia che è una necessità di accuratezza storica e il framing condanna senza ambiguità il nazismo.

Tutta questa premessa, ovviamente, l’ho fatta per arrivare a lei, la pasta Molisana dal gusto coloniale e sapore littorio.
Credo che questo sia l’unico caso in cui mai dirò: dovrebbero esserci più Ziacce al mondo. O, per lo meno, più persone che, da piccole, hanno visto qualche parente avere un attacco di PTSD ancora cinquant’anni dopo di fronte a una svastica o un fascio littorio: forse avrebbero interiorizzato anche loro quanto profondamente il nazi-fascismo abbia ferito la psiche collettiva di chi l’ha vissuto davvero.
Non ci sono scuse. Non è un problema di marketing, non è colpa di una compagnia esterna, non è un errore in buona fede: il problema non è solo di chi ha scritto e pubblicato quel testo, ma è partito con chi ha pensato bene di recuperare i nomi del periodo fascista quando, per loro stessa ammissione, ci sono alternative, e si è esteso a tutti i gradi intermedi, tutti quelli che hanno approvato l’idea, disegnato i pacchi di pasta, supervisionato la produzione. È terribile che fra tutte quelle persone nessuno abbia avuto una zia anziana che ha impresso loro la gravità e la serietà di giocare col fascismo, che non esiste “non farlo apposta”, tanto meno farlo apposta perché non lo si ritiene chissà che problema.

Naturalmente, sono molto soddisfatto del putiferio mediatico che si è sollevato e faccio del mio meglio per alimentarlo. Non perché speri di vedere la Pasta Molisana in ginocchio pronta a dichiarare bancarotta, ma perché voglio che diventi un esempio. Voglio che sia chiaro a tutti che il fascismo non è una buona strategia di marketing, che per dieci deficienti che sono pronti a comprare il prodotto per la fiaschetta di olio di ricino in omaggio, mille sono ancora consapevoli che il fascismo è tabù.
Ricordo ancora, ad esempio, il putiferio che si era scatenato quando Barilla fece quel commento sulla famiglia tradizionale – tant’è che per un periodo ho utilizzato ironicamente “La Famiglia Barilla” per riferirmi a quell’agglomerato di disfunzionalità che è il mio clan allargato. Ebbene, Barilla è forse fallita? No, è ancora indisturbata su tutti gli scaffali ma, da allora, perfino in Italia ci si è guardati bene dal fare uscite del genere e, se anche non si sono incluse famiglie omosessuali nel marketing, per lo meno non le si è apertamente blastate (beh, a parte Stefano Dolce, ma quello non ci sta con la testa).
Il backlash funziona eccome, quindi è giusto implementarlo di fronte a casi così eclatanti: ormai è da troppo che si tenta di normalizzare il fascismo, è ora di riprendere la lotta dura e intransigente per ricacciarlo nelle fogne a cui appartiene con ogni mezzo a disposizione.

Tuesday, 24 December 2019

Let it fall

Oggi pomeriggio la Mater mi ha incastrato a fare l’albero di Natale.
Con un po’ di magheggi ben piazzati, sono riuscito a farle aprire i rami da sola e, alla fine, il mio contributo è stato sedermi accanto alla scatola e passarle gli addobbi, che lei si ingegnava ad appendere al nuovo abete finto.
Mentre tiravo fuori l’ultima pallina trasparente superstite, mi è caduta e, essendo di plastica fragile, si è rotta. Era dentro una scatolina rigida, lottare con la linguetta del coperchio e farsela scivolare di mano è un attimo. Tutto estremamente plausibile.
Eccetto che l’ho fatta cadere apposta.

Non so. Forse è il gatto che è in me. Forse era curiosità di vedere se bastasse così poco per romperla. Forse perché, delle tre palline fragili, è sempre stata quella che mi piaceva di meno e mi seccava che fosse proprio lei la superstite. Forse era un po’ di iconoclastia.
Ricordo anche quando l’ho comprata, nel 1999 all’ex Standa, con mio padre. A conti fatti, ricordo quando, dove e come ho comprato più o meno tutti gli addobbi, eccetto quelli più vecchi di me. Il festone di perline e campanelle all’Upim di Sassari nel 1994, quel giorno c’era anche la Ziaccia e la Mater mi aveva comprato anche un mini-set di Lego Paradisa. Delle palline del 1995 ne è rimasta una sola, ché all’altra già da anni si era crepato il rivestimento e si vedeva più polistirolo che colore. Quelle un po’ anonime che ci sbolognarono dei conoscenti di famiglia che dovevano traslocare sono facili da riconoscere: sono arrivate dopo che avevo comprato il gel glitter per decorare le più semplici che già avevamo. E non parliamo dei nastrini.

A una certa, la Mater ha fatto un’osservazione strana. All’ennesimo mugugno disinteressato con cui ho risposto al suo cinguettare su quanto fosse venuto bene l’albero, ha detto: “Non ti sei affezionato a quest’albero di Natale. Ti manca il vecchio”. Osservazione probabilmente aiutata dal fatto che sono cascato dal pero quando mi ha fatto notare che l’aveva già tirato fuori e addobbato l’anno scorso, cosa che avevo totalmente rimosso.
Solo che no, non mi manca il vecchio, quello che avevamo avuto fin da quando ero bambino, finché i rami non hanno iniziato a staccarsi, con ancora il ramo di fico intagliato e posizionato sulla punta del tronco dal Procreatore per mettere il puntale perché Maremma Maiala, mai che facciano un albero su cui sia davvero possibile infilarlo.
Non mi manca, dicevo, e ho anzi tirato un sospiro di sollievo quando la Mater l’ha buttato. Gli ultimi due anni l’abbiamo addobbato ed è rimasto lì spento, dimenticato in salotto finché è arrivato il momento di disfarlo.
E poi sono riuscito a ritardare di due-tre anni l’acquisto del nuovo, con una scusa o l’altra (finché è bruciato il negozio dove volevamo andare, non sto scherzando!), perché averci a che fare non fa che peggiorare il mio umore.

Ma la cosa peggiore è che un po’ mi dispiace. C’è una parte di me a cui sotto sotto mancano i tempi in cui tutta la faccenda natalizia mi entusiasmava tanto da memorizzare quando e dove ho preso quali addobbi, e ricordare in che ordine andassero messi sull’albero con la stessa facilità con cui saprei ricostruire il Faro dell’Isola Paradisa a distanza di vent’anni. Mi sembra di ritrovarmi privo di una facile valvola di sfogo e occasione per essere di buonumore che invece altre persone trovano con grande facilità. Non per la religione, non per le menate sulla famiglia – ché per la Mater almeno un’oretta al telefono la dedico quasi ogni giorno per tutto l’anno, mentre se alcuni parenti non li sento mai di sicuro c’è un buon motivo che non sparisce a Natale – quanto per me personalmente, per avere un paio di settimane di allegria, per quanto superficiale e stupida, piuttosto che aggravare ulteriormente il mio stato mentale.

Voglio chiudere con una nota un po’ più positiva: quest’anno ho partecipato alle feste giocando al Whamageddon e a meno di otto ore dal traguardo non sono ancora finito nel Whamhalla. Speriamo bene.
Oh, e oltre a godermi, come sempre, l’ottima cover di Santa Baby (aka l’unica canzone natalizia davvero onesta) di Emilie Simon che ci illustra l’unico vero significato del Natale, mi sono improvvisato singer-songwriter e ho riscritto il classico di Mariah Carey:

Every single fucking Christmas
There’s the present-buyng craze,
Boring songs about fake feelings
Saccharine as diabetes.

Fuck the toy electric trains,
And fuck the carols and refrains.
Also, fuck the candy canes:
All I want for Christmas…
…is Colton Haynes!


Sunday, 30 June 2019

Cin Cin

Stanotte fa davvero caldo: non riesco a dormire e ho entrambe le finestre spalancate. La via è silenziosa, salvo l’occasionale automobile o moto di qualcuno che torna dal sabato sera in giro; anche in camera non si sente nulla, se non il quieto ronzio del ventilatore. Di sicuro, nei palazzi vicini nessun altro è ancora sveglio.
E poi arriva. Portata dalla brezza che odora di lacca per permanente, con tutto l’impatto delle spalline che si incastrano sullo stipite della porta, più trash di Giuni Russo, più gender di Lorella Cuccarini, inconfondibile sulle ali della drum machine e del sintetizzatore Anni Ottanta:

Cin cin, cin cin, ricoprimi di baci. Cin cin, cin cin, assaggia e poi mi dici. Cin cin, cin cin, diventeremo amici: brinda alla fortuna, festeggia con noi. Cin cin!

Non posso crederci. Mi alzo dal letto, corro alla finestra e tendo l’orecchio. Mi arriva la voce di Umberto Smaila da una finestra aperta del palazzo di fronte. Ebbene sì: qualcuno dei vicini sta facendo le cinque del mattino guardando le repliche di Colpo Grosso!


Aah! Le Ragazze Cin Cin! I costumini colorati con i frutti! Le permanenti! Improvvisamente, mi sento travolgere dalla nostalgia per le mie belle serate d’infanzia negli Anni Novanta.
Perché sì, Colpo Grosso è forse l’aneddoto più divertente sulla disfunzionalità della mia famiglia: quando la Mater lavorava la sera come maestra di ballo nei paesi vicini e mi lasciava col Procreatore, lui mi mollava a giocare con le costruzioni sul tappeto e, nella stessa stanza, metteva su Colpo Grosso.
Vi lascio immaginare la gioia della Mater quando, una sera, tornata dal lavoro, le ho chiesto: “Mamma, perché le signorine si spogliano?”. “Ah, uhm… perché fanno la pubblicità alla biancheria!” chiosa lei, con un aplomb invidiabile. “Uh, che belle mutandine! Quasi quasi me le compro anch’io.”

Altrettanto divertente la volta in cui, dopo un raid nel cassetto della Mater, mi misi addosso tutti i reggiseni dei suoi costumi da bagno colorati e lei mi trovò a fare “cin cin, cin cin” davanti allo specchio. Ogni tanto mi piace dare la colpa a mio padre e all’esposizione prematura a Colpo Grosso per avermi fatto diventare gay: mi ha fatto crescere con le Ragazze Cin Cin come role model.
Ma no, è solo una battuta, so che l’orientamento sessuale non dipende da quello. Ciò di cui incolpo per davvero le Ragazze Cin Cin – che, ci tengo a sottolinearlo, nella mia vita sono arrivate prima delle Guerriere Sailor – è la mia ossessione per le serie di cose più o meno simili ma di colore diverso. Pastelli, pennarelli, le Guerriere Sailor, i Pokémon, i CD, le copertine degli album nella mia libreria musicale virtuale, i numeri di Vogue – qualsiasi cosa abbia un modulo fisso e variazioni cromatiche come distinzione. E sì, sono piuttosto sicuro che la cosa si estenda perfino al mio magnum opus, gli Infernal Lords, ognuno con un suo colore tematico e tutti con le cornicette uguali: praticamente ho tentato di ricreare una serie di Ragazze Cin Cin sataniche!

Comunque, ci tengo a spezzare una lancia in favore di Colpo Grosso: io lo ricordo come piuttosto innocente, tutto considerato. Vero, c’era Smaila che, in mezzo alle giovane pulzelle, ghignava e si arricciava i baffi come un gatto che è rimasto chiuso in pescheria. Vero, alla fin fine si trattava di signorine che si spogliano. Ma, nel complesso, l’intera faccenda risulta meno exploitative di quel che può sembrare – sicuramente molto meno della valletta seminuda in qualche programma in prima serata, o dell’accarezzatrice di materassi, o della hostess a un evento sportivo.
Perché gli altri programmi ti piazzano una ragazza seminuda per invocare un erotismo da quattro soldi nella speranza di aggiungere valore a un prodotto dei quali non sono sicuri; in Colpo Grosso, invece, il prodotto era l’erotismo. Un erotismo low-key, più un provocare, un ammiccare intrigante più che volgare. Le ragazze Cin Cin non erano una semplice decorazione sul gioco, erano il gioco; e i concorrenti, che pure si spogliavano, sia maschi che femmine, facevano altrettanto parte del gioco. Certo, il tutto era a beneficio dello sguardo del pubblico da casa, ma lì in studio non si andava a creare quella brutta dinamica con i concorrenti vestiti e la valletta in lingerie senza motivo: il livello era più o meno lo stesso.
E forse, la cosa più divertente del programma è che, capezzoli al vento a parte, si manteneva sempre al di qua di una certa linea. Era come una provocazione, un flirt costante per tenere sulla corda ma non andare al dunque. Che, a dirla tutta, è la parte più divertente in ogni cosa.

Sunday, 26 May 2019

Inaspettata assoluzione

Tutte le famiglie sono complicate, anche quelle non disfunzionali. La mia, che disfunzionale lo è stata per la maggior parte della sua storia, riserva sempre nuove sorprese. È da relativamente poco che sto realizzando quanti livelli di complessità ci siano, e che la situazione non è bianca e nera come mi sembrava da piccolo, specie nel puntare il dito su una o sull’altra parte.
Però, fra le varie cose che pendono innegabilmente e oggettivamente a favore della Mater, c’è il modo in cui i due ex hanno tentato di influenzare il mio rapporto con la controparte: la famiglia di mio padre ha cercato attivamente di mettermi contro mia madre col beneplacito (o, per lo meno, col tacito assenso) di mio padre, mentre mia madre ha sempre tentato di incoraggiarmi ad avere un rapporto quantomeno civile con mio padre.
Alla luce della redistribuzione delle colpe che ho dovuto fare, è evidente che, nell’usarmi come mediatore fra loro due, la Mater ha finito inevitabilmente per espormi all’inaffidabilità e meschinità di mio padre. Però, dall’altra parte, ha sempre cercato di mitigarla, di incoraggiarmi a vederlo, a parlare con lui, a volergli bene, di sottolineare le cose che faceva per me. E no, non sono ingenuo: fin da ragazzino mi rendevo conto che lo faceva perché, essendo una giurista, era il modo più sicuro per evitarsi grane in tribunale. Parlandone molto dopo, l’ha anche ammesso candidamente: l’ha fatto per quello e per evitare che, diventato adulto, le rinfacciassi che mi aveva impedito di costruirmi un rapporto con mio padre, perché riteneva fosse importante che lo avessi.

La cosa che mi ha sorpreso, però, è che qualche sera fa mi abbia confessato di sentirsi in colpa per non essere riuscita a farmi instaurare un buon rapporto col Procreatore. Avrebbe potuto fare di più, mi ha detto, e questo le è pesato fin da quando si sono separati.
Sinceramente, io sono cascato dal pero.

Quando ero piccolo, ricordo che ero sempre felice quando, d’estate, mio padre ci raggiungeva al mare per il week end, perché sapeva costruitre le mura dei castelli di sabbia meglio della Mater.
E niente, questo è quanto. Questo è il miglior ricordo d’infanzia che ho di me e mio padre.
Ricordo anche la volta che ho imparato che le cuticole non si tirano via a mani nude: ero con lui nel bar del corso – quello con gli archi dentro – ed ero talmente annoiato mentre lui parlava con i suoi amici che avevo iniziato a tirarmi le pellicine alla base delle unghie, scoprendo con le cattive che sanguinano e fanno male.
Ho mille ricordi di quando la Mater mi portava a spasso in paese la domenica, verso la stradina bianca che scendeva giù dalla collina, sopra la vallata con quel grande abete, in centro a vedere il larice all’ingresso del paese, o a salutare “la mia amica quercetta”, o a raccogliere i fiori di tiglio. Non ho nulla del genere con mio padre.
Tutte le volte che si andava in campagna, era sempre la Mater a staccare un po’ dal raccogliere le olive o le ciliegie per fare una passeggiata nel bosco, cercare i funghi con me, osservare gli animaletti, addirittura arrampicarsi su per la collina di fronte alla vigna perché un vecchio pilone in cemento mi sembrava chissà cosa e volevo vederlo da vicino. Lui non si è mai staccato da ciò che stava facendo per assecondarmi un quarto d’ora. E non certo perché la Mater mi monopolizzasse: anche lei lavorava e spesso mi doveva lasciare con lui, che invece se ne stava a guardare la TV mentre io giocavo per conto mio sul tappeto.

Tolti i castelli di sabbia, i primi ricordi di me e mio padre davvero insieme li ho, cronologicamente parlando, da dopo il divorzio. Avevamo le storielle a puntate che mi raccontava sugli animaletti del bosco e della campagna, i giochi, i giri in macchina in cui ogni pulsante era un qualche gadget supertecnologico… oh, e ovviamente i viaggi a Salsomaggiore e perfino all’estero. Ma fin da piccolo ho pensato che fosse too little too late. Ha iniziato a occuparsi di me solo quando non ha avuto altra scelta, quando doveva fare bella figura col giudice, e mentre con una mano dava, con l’altra toglieva. Le storielle degli animali del bosco le ricorderei con molto più piacere se non fossero state intramezzate dalle sue sorelle che mi facevano pressione psicologica perché odiassi la Mater. I viaggi mi sarebbero sembrati meno un tentativo di metterci una pezza con i classici “grandi gesti”, se non fossero arrivati anni dopo quegli episodi.

Così, mi sono trovato, a trent’anni appena compiuti, a spiegare alla Mater che il massimo che ha potuto fare per incentivare il rapporto fra me e mio padre è stato proprio non mettergli i bastoni fra le ruote. Di più non poteva.
In primo luogo perché, con la scarsa attenzione che lui mi dava finché erano sposati, mio padre non ha fornito molto materiale con cui lavorare alla costruzione. In secondo luogo perché, a divorzio in corso, è stato lui stesso ad auto-sabotarsi fino a che non è stato troppo tardi.
E soprattutto perché, semplicemente, la Mater non poteva fare il lavoro per lui. Non era lei a dover costruire per mio padre il nostro rapporto, se lui non ci si è mai impegnato finché poi è stato troppo tardi, e anche lì ha fatto il minimo sindacale.  Non può sentirsi responsabile per come sono andate le cose fra me e l’altro genitore, quando la responsabilità di costruire un rapporto è strettamente individuale: lei si è impegnata per costruirne uno con me, lui no. Fine.

Eravamo in Piazza Unità, di ritorno da Fiorellino, quando siamo arrivati a questo punto del discorso, e la Mater si è letteralmente fermata sul posto a fissare il vuoto in preda all’epifania. Era sorpresa perché non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista: poteva sopperire alle mancanze pratiche del suo ex, a tutto il livello educativo, economico, logistico… ma non a quello umano. Quello è una responsabilità individuale e ognuno deve coltivarlo per sé.
Mi ha detto che si è sentita liberata da un peso.

E onestamente, a me è anche dispiaciuto per lei: è vissuta per ventiquattro anni portandosi dietro un senso di colpa che non avevo idea che avesse. Anzi, a ben vedere non aveva proprio ragione di esistere. Se avessimo affrontato prima il discorso, magari se ne sarebbe liberata prima.
Beh, meglio tardi che mai.

Tuesday, 20 February 2018

Ampellibe

Ci rinuncio. Non riuscirò mai a dire “Alpenliebe” in scioltezza dentro una frase: dovrò sempre fermarmi un secondo a rifletterci sopra. Anche di questo, come di mille altri tic, ringrazio mio padre: già la sua proprietà dell’italiano è dubbia, figurarsi del tedesco, così le caramelle sono diventate le “Ampellibe” (singolare: “Ampelliba”) e da che ho memoria, intorno ai tre anni, per me si sono chiamate così e non mi sono mai abituato alla pronuncia corretta.
Il primo pacchetto me lo comprò lui un pomeriggio in un bar in centro. Non ricordo se è stato lo stesso giorno in cui ho letto per la prima volta (la scritta “BAR” in verticale nell’insegna verde su bianco – era nuvoloso), di sicuro non era lo stesso giorno né lo stesso bar in cui ho imparato che le cuticole alla base delle unghie non si strappano a mano, ché fa un male cane ed esce il sangue. Ma il periodo era quello.
Divago. Dicevo: il primo pacchetto me lo comprò lui un pomeriggio in cui avevo sui tre anni così, per farmi un piccolo regalo. Non sono mai diventate un’abitudine, sono rimaste una cosa rara che mi si prendeva ogni tanto; non per premiarmi di qualcosa, ma così, tanto per. Un po’ come l’“acqua minerale”, ovvero il bicchiere di acqua frizzante che prendevo al bar (mi piaceva accompagnare mio padre al bar proprio per bere l’acqua frizzante, ed ero convinto che la vendessero solo ai baristi e non alla popolazione generale; continuo a divagare).

Comunque, eccomi qui, quattro settimane dopo il post volutamente fumoso. Le liquirizie Amarelli non si sono rivelate una buona soluzione perché ne ho abusato in un momento di stress e hanno peggiorato la situazione facendomi impennare la pressione. Così, nei giorni successivi ho riempito la bella scatolina di latta con stampa Art Nouveau di Ampellibe e ho usato quelle. Tanto ora le fanno senza zucchero, i miei denti hanno ringraziato.
Le Ampellibe sono ottime candidate perché è ciò che sono sempre state: un piccolo, effimero piacere fine a se stesso. Il loro gusto è indissolubilmente associato a quello. 

In questi giorni, la mia risolutezza vacilla. Mi preparo a scendere giù, so che sarà una bella prova per i miei nervi (sia il viaggio in sé, sia la permanenza, sia le faccende che probabilmente dovrò sbrigare) e i miei livelli di stress stanno di nuovo impennando.
Ci sono stati altri momenti in cui ho vacillato, a parte il meltdown per la carne andata a male.  Da bravo overachiever, mi aspettavo di esserne bellamente fuori dopo una, due settimane, passato il picco immediato, e mi sono colpevolizzato per avere ancora quella nostalgia. A quel punto mi sono detto che Roma non è stata costruita in un giorno e se perdere vecchie abitudini fosse così facile, lo farebbero tutti a destra, manca e centro e non ci sarebbe bisogno di tutta la caciara che ci si costruisce intorno. Questo mi ha dato la giusta prospettiva e la forza di proseguire per il sentiero, certo che i risultati arriveranno col tempo e la costanza.
Il trucco, come dicevo, sta nello slegare i piccoli momenti quotidiani. Cucinare e lavare i piatti; lavarmi e asciugarmi i capelli; finire di scattare le foto; fra una puntatina e l’altra la notte; uscire rotolando dalla Grande Shanghai; buttare giù una palestra di Pokémon Go. Alcune di queste cose le faccio meno volentieri di altre, e per quello avevo bisogno di darmi un premio; le altre avevano solo bisogno di una chiusura soddisfacente. Ecco, le Ampellibe sono diventate quel piccolo premio o epilogo per qualche giorno, finché ho deciso di farne a meno. Hanno aiutato a costruire un altro pezzetto di Roma.
Adesso dovrò affrontare la madre di tutte le situazioni che richiedono gratificazione: il viaggio. La partenza, la pausa a Mestre, l’arrivo, tutti momenti che hanno bisogno di essere scanditi. E ci sarà la notte in aeroporto. E poi lo stress di essere giù. Prima giù era più facile, ma da quando ho creato una quotidianità di piccoli rituali anche lì, non saprei. La ritualità qui l’ho in buona parte smontata, lì dovrò ricominciare daccapo con ancora più stress sulle spalle.

Ma posso farcela. Al massimo mi comprerò le Ampellibe e andrò avanti con quelle.

Saturday, 17 February 2018

Ridistribuzione delle colpe

Altro post che, probabilmente, non vedrà la luce del sole. O al massimo la vedrà fra qualche mese assieme all’altro: vero che sono sfoghi che scrivo principalmente per me, per non continuare a rimuginarci caoticamente sopra, ma ci sono anche epifanie che preferisco conservare in forma scritta (e non solo nelle bozze); d’altro canto, sono questioni che non mi sento ancora di esporre su internet, per cui un buon compromesso è segnarmi le date e buttarli fuori in silenzio quando altri post li avranno scalzati dalla prima pagina, senza troppa visibilità.
Ma andiamo in ordine.

L’altro ieri al risveglio mi sono trovato un messaggio della Mater che, campionessa di tatto e savoir-faire come sempre, ha scritto: “Ale, devo parlarti urgentemente”. La cosa migliore da scrivere sapendo che tuo figlio soffre di disturbi d’ansia, ve’?
Ora, da una parte c’è il fatto che il suo uso di “urgente” e derivati è molto, molto liberale e può significare di tutto da “Il palazzo ha appena preso fuoco” a “Aiuto, non so che squadra schierare per buttare giù una palestra in Pokémon Go”. Considerando che di solito tende alla seconda, un “fottesega della tua urgenza” ci sta tutto, come con la storia dell’“Al lupo, al lupo”. Ma se fosse davvero qualcosa di serio?
Ribadisco: soffro di disturbi d’ansia. Lei lo sa benissimo. “Urgente” è una parola che mi triggera come poche. Potrebbe evitarla e scrivermi direttamente di cosa si tratta – e fottesega se è troppo pigra per digitare e preferirebbe sentirci a voce, sa che non è il mio metodo di comunicazione preferito. Specie perché ne abusa e quei quindici minuti diventano, nel caso migliore, quarantacinque, in quello peggiore si arriva al doppio nonostante le dica a più riprese che devo fare qualcosa, o devo uscire, o sarei dovuto uscire dieci minuti fa, o dovrei già essere lì. Da dieci minuti. (E no, cara mamma, non è che ci si sente raramente quindi hai più cose di cui parlare, perché lo fai anche quando ci si sente a distanza di due giorni).
Il fatto che si inventi urgenze con tanta leggerezza mi irrita, perché significa o che non considera il mio disturbo una cosa reale che non andrebbe provocata, oppure lo usa deliberatamente per spingermi a telefonarle ed evitarsi il messaggio articolato. Not cool in ogni caso, perché mostra che non ha la minima considerazione per come sto.

Il motivo per cui mi sono rovinato l’intero pomeriggio prima di esplodere invece che cedere, telefonarle e chiederle quale fosse l’urgenza, oltre al fatto che avevo da fare e non volevo proprio sprecare un’ora e mezzo al telefono con lei, è che sentirci a voce mi avrebbe costretto a rivelare la data del mio volo per scendere a votare… che non avevo ancora prenotato. Perché, fosse per lei, sarei dovuto scendere praticamente già subito, o comunque in tempo per il suo compleanno (un giorno che preferirei tenermi buono per Katia, visto che è anche il suo), mentre io ho preferito posticipare.
Comunque, dicevo, alla fine sono esploso sotto forma dei messaggi su cui parte di questo post è basato e ho incanalato quell’incazzatura nella forza che mi serviva per prenotare i voli. Almeno una cosa è fatta. Ancora non ho sentito la Mater perché devo solo decidere se dirle la verità – che scendo il 27 perché voglio ridurre il più possibile il tempo da trascorrere lì – o giustificare la data “tarda” inventandomi uno shoot a Bologna che poi salterà all’ultimo momento perché la modella si beccherà una brutta influenza.
Sì, la mia vita famigliare è basata su bugie bianche (e non), ma non ho proprio voglia di subire tutto il drama ingiustificato che tirerà fuori sul fatto che non voglio passare più tempo con lei, invece che chiedersi perché.

Ad ogni modo, alla fine cede lei e mi scrive qual è l’urgenza: c’è una riunione di condominio in arrivo e le serve entro martedì una foto della ricevuta di un acconto che ha pagato mio padre.
Ok, almeno è davvero un’urgenza, stavolta.
Solo che ricordate il discorso sul non avere la minima considerazione per come sto? L’anno scorso le ho chiesto chiaro e tondo di smetterla, per favore, di tirarmi in ballo ogni volta che deve comunicare col suo ex marito, e farlo direttamente da sola. È spiacevole, è sempre qualcosa che riguarda la casa e i soldi e, francamente, ci sono momenti in cui eviterei volentieri di avere a che fare con lui.
Ma, più semplicemente, sono stanco. Davvero, sono stanco di farlo. E da qui scoperchiamo il vaso di Pandora.
È molto difficile rivalutare un decennio e mezzo di vita, mettere in questione fatti che si considera assodati e ridistribuire le colpe, ma la realizzazione di come questa sia l’ennesima in una serie infinita di occasioni in cui ho dovuto fare da tramite per mia madre con mio padre mi ci costringe.

Agli occhi di un bambino di sei-sette anni, la mamma ha ragione e il papà torto. Lei cerca di sopravvivere a un divorzio inaspettatamente pubblico, lui è quello che scatena l’avvocatessa, gli psicologi, gli assistenti sociali, le sorelle, mezzo paese contro di lei, travolgendomi nel processo. O, come ho avuto modo di concludere dopo ulteriori avvenimenti, probabilmente mi ha travolto di proposito per ferire lei per procura.
Il fatto è che la situazione iniziale era davvero questa, con lei che cercava di difendere se stessa e me e lui che cercava di attaccare lei e me. L’ho subita da bambino e col tempo si è cristallizzata in una narrazione in bianco e nero che mi ha accompagnato per il resto della vita: lei è quella buona, lui quello cattivo. Il fatto che, ogni tanto, anche dopo dieci cazzo di anni, lui se ne uscisse con una nuova trovata per infrangere la precaria tregua che andava a crearsi non ha deposto a suo favore; ma è anche vero che, mentre lui ha continuato a cercare di usarmi come proiettile per colpire lei, lei l’abitudine di usare me come buffer nel rapportarsi a lui l’ha presa presto e in fretta. Che fosse recapitargli una lettera, comunicargli le spese condominiali, riferire il parere su che sport dovessi fare per la schiena, i costi della gita scolastica, fare “Look, the pie!” mentre si va tutti insieme a comprarmi il computer o il deumidificatore per la camera, ho sempre dovuto fare da ambasciatore.
E poi, siamo onesti: dico spesso che ho iniziato presto a sentire il dovere di “difendere” la Mater evitando di dare occasione all’avocatessa stronza di combinarne un’altra. È così che sono diventato un overachiever che cade a pezzi come se fosse l’apocalisse alla prima défaillance. Ma davvero un bambino di sei-sette anni è capace di formulare un pensiero così complesso? Inizio a chiedermi quanto fossi io che osservavo e traevo conclusioni, e quanto invece abbia ricevuto pressioni sull’essere perennemente impeccabile. Ricordo quattro o cinque scivoloni che furino accolti con drama a non finire, e creare drama pur di spingere a fare o non fare qualcosa, fosse anche solo per sfinimento, è il modus operandi della Mater in generale.
Per cui, sono giunto alla conclusione che ho davvero bisogno di rivalutare la storia della mia famiglia e trasformarla in una scala di grigi. La Mater non è un essere di pura incorruttibilità senza colpe che ha sempre e solo cercato di proteggermi, e lui non è il male incarnato che è sempre stato l’aguzzino. Fermo restando che la bilancia delle colpe pende sempre nettamente a sfavore di lui, qualcuna va spostata sull’altro piatto. Del resto, se mi sono accorto che la Mater mi usa come buffer perché me ne sono improvvisamente sentito molto, molto stanco, evidentemente l’ha fatto ben più che una volta di troppo.
In tutto ciò, chiediamoci come mai, secondo il terapista, oltre al terrore dei conflitti ne ho anche uno della fine in generale – di tutto, dai rapporti ai progetti – perché la percepisco come un processo lungo, doloroso ed estenuante per evitare il quale mi rifiuto spesso anche solo di iniziare qualcosa.

Per concludere, com’è andata a finire la faccenda della ricevuta? Mi ha scritto lui chiedendomi di passargli delle foto che GLI HO GIÀ PASSATO ALMENO SEI O SETTE VOLTE e che di sicuro continua ad archiviare come un deficiente nella parte sbagliata del computer, così ho colto l’occasione per chiedergli anche la ricevuta. Me la manderà domani sera quando torna in paese, e io la inoltrerò alla Mater.
Ma è mai possibile che due adulti autosufficienti non riescano a fare delle semplici azioni come tenere in ordine la loro roba o contattarsi a vicenda senza la mia supervisione?

Tuesday, 13 February 2018

Shell shock

Questo post probabilmente non vedrà mai la luce del sole, ma sento il bisogno di buttar fuori un po’ di cose.
Che in questo periodo stia davvero male credo sia evidente. Era tanto che non postavo così frequentemente o personalmente: sento la necessità di sputtanare su internet ciò che provo come facevo a diciassette anni pur di trovare sollievo, il che la dice lunga. Il fulcro del mio malessere è che mio padre si è svegliato e ha deciso di chiarire in che condizioni è la mia vita sulla soglia dei ventinove anni.
Risposta concisa: un fallimento totale. O, perlomeno, in tutti i campi che contano davvero.

Dovrei dirglielo, vedere come la prende, sperare che le conseguenze siano gestibili e agire di conseguenza. Il rischio è dover diventare un essere umano funzionale nel minor tempo possibile. Adesso. Quando ogni cosa dentro di me non fa che urlare che ormai è troppo tardi. E vabbè.
È lui che si è fatto vivo a Capodanno levandomi quel poco di forze e concentrazione che pensavo di mettere nel fare i primi passi per essere meno un casino. Giorni dopo che sono sgusciato via dalla telefonata, mi ha mandato una mail che, nella paura, ho letto talmente di fretta da vederla molto più ostile e perentoria di quanto non fosse realmente, scatenando una reazione a catena di nevrosi che ha toccato il fondo a fine gennaio, quando dovevo capire se ci sarebbero state o meno conseguenze immediate.
In realtà, sia prima sia dopo che gli ho scritto due righe promettendogli un chiarimento, così come quando ci siamo sentiti (sempre via mail) per altre faccende, i suoi toni sono stati stranamente concilianti e ragionevolmente preoccupati. Una parte di me ha la guardia alzata e non si fida: in realtà, quest’improvvisa propensione all’ascolto è una trappola e, al momento meno opportuno, ne combinerà un’altra delle sue lasciandomi col culo per terra – stavolta del tutto. L’altra alza gli occhi al soffitto e dice che sto esagerando, che il suo ramo d’ulivo potrebbe essere genuino… per il semplice fatto che ormai è troppo vecchio e stanco per macchinare qualcosa, non perché sia cambiato e diventato affidabile come padre o uomo.
C’è poi l’incognita della Mater, con cui dovrei comunque discutere la faccenda, non per altro per i risvolti pratici. O meglio, il “te l’avevo detto” è una certezza che vedo arrivare con nitidezza da settecento chilometri; l’incognita è quanto drama lo accompagnerà.

Il vero motivo per cui continuo a rimandare il tête-à-tête con mio padre, comunque, è un altro: dopo ventitré anni di Cortina di Ferro emotiva fra di noi, sarebbe la prima volta in cui gli parlo davvero di me. Di me-persona, non me-figlio che ottiene un risultato dopo l’altro. Me, Alessandro, un essere dotato di emozioni, insicurezze, paure, difetti. E quell’altra parola che non riesco nemmeno ad ammettere.
Siccome ho la tendenza a colpevolizzarmi per il fatto di non saper stare al mondo, mi è stato fatto notare a più riprese che il problema è ciò che mi è o non è stato insegnato: come gestire le emozioni, i fallimenti, i colpi di testa, la pressione, i rapporti umani. La parola che non voglio ammettere è “vulnerabilità”. Ciò che mi è stato insegnato è che la vulnerabilità è o un lusso che non mi posso permettere, o una debolezza che può essere facilmente sfruttata per ferirmi alla prima occasione buona. Sono ventitré anni che vivo così. Ventitré anni che nascondo qualsiasi cosa non vada per paura di vedermela o rinfacciata da una parte o ingigantita e infilata nella lettera di qualche avvocato, nella sentenza di qualche giudice, nell’ennesimo bisticcio famigliare trasmesso in paesevisione dall’altra.

E sì, lo so che i tempi dei tribunali e delle comari pettegole ormai sono passati. La Bergavvocata è andata in pensione da chissà quando, mentre in paese i pettegolezzi succulenti sono quelli di venti ore, non anni, fa. Ma il pensiero di permettere a me stesso di essere vulnerabile, specialmente davanti alle due persone che mi hanno insegnato che guai ad esserlo, specialmente mio mio padre… è inconcepibile. È contrario a quello che è diventato il mio modo di essere, a ciò che ho fatto per la schiacciante maggior parte della mia vita. E sì, una parte di me, quella più irrazionale (o forse razionale) ci crede pure, che stia agendo per preoccupazione nei miei confronti e non seguendo qualche complotto, che se mi lascio andare non si scatenerà l’apocalisse. Ma è talmente tanto tempo che mi sono programmato per lo scenario opposto che, semplicemente, non so da che parte iniziare. Se penso di doverci parlare, che ne so, domani, il mio cervello si spegne. Non è qualcosa che riesco anche solo a immaginare. Non dopo tutti questi anni.

Per cui sì, forse è per codardia che sto continuando a prendere tempo. Ma anche per questo: fare questo passo, mostrarmi vulnerabile, è un’idea per abituarmi alla quale ho bisogno di un po’ di lavoro. Mi sento come un veterano in shell shock: per quanto mi si continui a dire che la guerra è finita, per quanto io per primo sappia che non c’è pericolo, al primo rumore forte sono pronto a buttarmi sotto una panchina e coprirmi la testa aspettando un’esplosione. Il cerotto va tolto con uno strappo netto e veloce, non c’è dubbio; il problema è che devo reimparare i movimenti per farlo.
In questo caso, devo reimparare (a velocità record) a concedere a me stesso di sentirmi vulnerabile e a permettere agli altri – specialmente i miei genitori – di vedermi in quello stato. Senza scusarmi per questo, senza nascondere le mie responsabilità ma senza insabbiare quelle che hanno avuto anche loro nel rendermi la massa di nervi a pezzi che sono diventato.

Sunday, 20 November 2016

Momenti

Giusto a titolo informativo: c.v.d., a Roma è andato tutto bene.
La mia organizzazione è stata impeccabile (anche se il B&B mi ha lasciato senza wi-fi), ho catturato un fottìo di Pokémon fra cui anche l’Exeggcute meraviglia assoluta che mi serviva per far evolvere Exeggutor, ho trovato uno Psyduck che nuotava nella Fontana di Trevi e, soprattutto, ho catturato il mio primo Jynx. Per la serie, “Dovevo veni’ a Roma pe’ cattura’ er mignottone”.
 
The Only One by GothicNarcissus The Only One 2016 by GothicNarcissus

Anche passare per Bologna non mi ha dato alcuna difficoltà, stanchezza a parte (treno alle 6:45 del mattino), e ho anche trovato un passaggio un po’ più presto del previsto che mi ha permesso di prendere un Intercity senza cambio e arrivare a Trieste in tempi umani e con poca fatica.
A parte questo, Claudio mi ha regalato il libro del primo anno del suo corso di norvegese e, finalmente, le mie mire autodidattiche iniziano ad avere una direzione precisa. E con Katia non solo siamo andati dal giapponese più buono in cui abbia mai mangiato, ma siamo anche andati a vedere Animali Fantastici e Dove Trovarli come ci eravamo ripromessi. Ovviamente, poi, non esiste che io vada a Roma e non passi al Cimitero Acattolico per una visitina all’Angel of Grief, ormai è una tradizione.

Una foto pubblicata da Alessandro Narciso (@gothicnarcissus) in data:

La cosa che mi ha sorpreso di più, comunque, è essermi più o meno goduto la giornata col Procreatore. A parte le solite, inevitabili fonti di frustrazione, tipo il campo magnetico che sembra avvolgerlo e che gli rende repellente qualsiasi superficie pedonabile a favore della carreggiata più vicina (giuro che l’ha fatto anche a Times Square, in mezzo al traffico di NYC).
È che penso che tutti ci rendiamo conto che nessuno può scegliersi i genitori e non incolpiamo gli altri di ciò che fanno in pubblico, ma ho perennemente il terrore che faccia qualche faux pas sociale mentre è con me; fortunatamente, il suo grande momento è andato liscio e nessuna delle mie previsioni più nefaste si è avverata. Una piccola parte di me si è perfino sentita orgogliosa di lui ed è stata quasi sincera nell’incoraggiarlo; un’altra è stata genuinamente felice che ci abbia tenuto tanto alla mia presenza lì. Come uomo è emotivamente stitico e non mostra grande affetto; siamo costituzionalmente agli antipodi, con lui che è un uomo manuale e io che sono cerebrale. Non abbiamo mai avuto molto terreno comune su cui costruire un vero rapporto, per questo per me è stata una novità frastornante. In realtà è da qualche mese che mi sembra che non recitiamo più il ruolo di padre e figlio ma condividiamo davvero dei momenti. Non so se genuinamente fosse contento che io fossi lì con lui, ma l’idea che lo sembrasse ha colpito una qualche parte atrofizzata del mio quorycino. Mi fa strano accorgermi che, dopo tutti questi anni, mi importa, ma ne sono davvero felice.
E fra l’altro, girare Roma con lui non è stato nemmeno particolarmente noioso: posto che ho tenuto il naso sepolto in Pokémon Go per buona parte del tempo e gli occhi incollati ai monumenti per il resto, e che lui non è decisamente un buon compagno di gite artistiche come lo è la Mater, a cui queste cose interessano davvero e con cui posso condividere il mio entusiasmo, almeno ha saputo dove portarmi e ho apprezzato gli aneddoti che mi ha raccontato; mi sono perfino trovato a raccontargliene qualcuno io, dalle volte in cui sono stato a Roma in precedenza.
È proprio questo che è cambiato: le ultime volte che ci siamo visti abbiamo parlato un po’ di noi, non solo di politica estera e interna, del tempo che fa e delle ultime notizie al TG. Mi ha raccontato qualche episodio di quando era giovane, e l’ho ascoltato volentieri. Non so perché mi senta nella posizione di tentare questo approccio, di provare a conoscerlo seriamente: forse davvero non mi frega più niente del momento in cui se ne inventerà un’altra, mi volterà le spalle e mi farà del male per l’ennesima volta, come nove anni fa. Almeno quei piccoli momenti me li posso (e voglio) godere. Al diavolo se mi rendo vulnerabile per la prossima piazzata.

O mio dio, ho mica appena centrato il nocciolo della mia nevrosi nei confronti delle relazioni umane partendo dalla vera e propria radice del problema? Che sia la volta buona che riesca a far partire il defrost?
Urge che chiami lo psicanalista e prenoti una seduta per capirci qualcosa.