Tuesday, 13 February 2018

Shell shock

Questo post probabilmente non vedrà mai la luce del sole, ma sento il bisogno di buttar fuori un po’ di cose.
Che in questo periodo stia davvero male credo sia evidente. Era tanto che non postavo così frequentemente o personalmente: sento la necessità di sputtanare su internet ciò che provo come facevo a diciassette anni pur di trovare sollievo, il che la dice lunga. Il fulcro del mio malessere è che mio padre si è svegliato e ha deciso di chiarire in che condizioni è la mia vita sulla soglia dei ventinove anni.
Risposta concisa: un fallimento totale. O, perlomeno, in tutti i campi che contano davvero.

Dovrei dirglielo, vedere come la prende, sperare che le conseguenze siano gestibili e agire di conseguenza. Il rischio è dover diventare un essere umano funzionale nel minor tempo possibile. Adesso. Quando ogni cosa dentro di me non fa che urlare che ormai è troppo tardi. E vabbè.
È lui che si è fatto vivo a Capodanno levandomi quel poco di forze e concentrazione che pensavo di mettere nel fare i primi passi per essere meno un casino. Giorni dopo che sono sgusciato via dalla telefonata, mi ha mandato una mail che, nella paura, ho letto talmente di fretta da vederla molto più ostile e perentoria di quanto non fosse realmente, scatenando una reazione a catena di nevrosi che ha toccato il fondo a fine gennaio, quando dovevo capire se ci sarebbero state o meno conseguenze immediate.
In realtà, sia prima sia dopo che gli ho scritto due righe promettendogli un chiarimento, così come quando ci siamo sentiti (sempre via mail) per altre faccende, i suoi toni sono stati stranamente concilianti e ragionevolmente preoccupati. Una parte di me ha la guardia alzata e non si fida: in realtà, quest’improvvisa propensione all’ascolto è una trappola e, al momento meno opportuno, ne combinerà un’altra delle sue lasciandomi col culo per terra – stavolta del tutto. L’altra alza gli occhi al soffitto e dice che sto esagerando, che il suo ramo d’ulivo potrebbe essere genuino… per il semplice fatto che ormai è troppo vecchio e stanco per macchinare qualcosa, non perché sia cambiato e diventato affidabile come padre o uomo.
C’è poi l’incognita della Mater, con cui dovrei comunque discutere la faccenda, non per altro per i risvolti pratici. O meglio, il “te l’avevo detto” è una certezza che vedo arrivare con nitidezza da settecento chilometri; l’incognita è quanto drama lo accompagnerà.

Il vero motivo per cui continuo a rimandare il tête-à-tête con mio padre, comunque, è un altro: dopo ventitré anni di Cortina di Ferro emotiva fra di noi, sarebbe la prima volta in cui gli parlo davvero di me. Di me-persona, non me-figlio che ottiene un risultato dopo l’altro. Me, Alessandro, un essere dotato di emozioni, insicurezze, paure, difetti. E quell’altra parola che non riesco nemmeno ad ammettere.
Siccome ho la tendenza a colpevolizzarmi per il fatto di non saper stare al mondo, mi è stato fatto notare a più riprese che il problema è ciò che mi è o non è stato insegnato: come gestire le emozioni, i fallimenti, i colpi di testa, la pressione, i rapporti umani. La parola che non voglio ammettere è “vulnerabilità”. Ciò che mi è stato insegnato è che la vulnerabilità è o un lusso che non mi posso permettere, o una debolezza che può essere facilmente sfruttata per ferirmi alla prima occasione buona. Sono ventitré anni che vivo così. Ventitré anni che nascondo qualsiasi cosa non vada per paura di vedermela o rinfacciata da una parte o ingigantita e infilata nella lettera di qualche avvocato, nella sentenza di qualche giudice, nell’ennesimo bisticcio famigliare trasmesso in paesevisione dall’altra.

E sì, lo so che i tempi dei tribunali e delle comari pettegole ormai sono passati. La Bergavvocata è andata in pensione da chissà quando, mentre in paese i pettegolezzi succulenti sono quelli di venti ore, non anni, fa. Ma il pensiero di permettere a me stesso di essere vulnerabile, specialmente davanti alle due persone che mi hanno insegnato che guai ad esserlo, specialmente mio mio padre… è inconcepibile. È contrario a quello che è diventato il mio modo di essere, a ciò che ho fatto per la schiacciante maggior parte della mia vita. E sì, una parte di me, quella più irrazionale (o forse razionale) ci crede pure, che stia agendo per preoccupazione nei miei confronti e non seguendo qualche complotto, che se mi lascio andare non si scatenerà l’apocalisse. Ma è talmente tanto tempo che mi sono programmato per lo scenario opposto che, semplicemente, non so da che parte iniziare. Se penso di doverci parlare, che ne so, domani, il mio cervello si spegne. Non è qualcosa che riesco anche solo a immaginare. Non dopo tutti questi anni.

Per cui sì, forse è per codardia che sto continuando a prendere tempo. Ma anche per questo: fare questo passo, mostrarmi vulnerabile, è un’idea per abituarmi alla quale ho bisogno di un po’ di lavoro. Mi sento come un veterano in shell shock: per quanto mi si continui a dire che la guerra è finita, per quanto io per primo sappia che non c’è pericolo, al primo rumore forte sono pronto a buttarmi sotto una panchina e coprirmi la testa aspettando un’esplosione. Il cerotto va tolto con uno strappo netto e veloce, non c’è dubbio; il problema è che devo reimparare i movimenti per farlo.
In questo caso, devo reimparare (a velocità record) a concedere a me stesso di sentirmi vulnerabile e a permettere agli altri – specialmente i miei genitori – di vedermi in quello stato. Senza scusarmi per questo, senza nascondere le mie responsabilità ma senza insabbiare quelle che hanno avuto anche loro nel rendermi la massa di nervi a pezzi che sono diventato.

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