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Sunday, 26 June 2022

Deadlocked (o il punto di rottura)

This world,
Its evil ways,
The pain that I hide:
Let’s make this happen!
 
Che poi, a pensarci bene, è un ciclo: inizio ad accumulare negatività perché non sono bravo a processarla in maniera costruttiva, passano mesi e magari nemmeno me ne rendo conto finché, d’estate, inizia ad approssimarsi il mio punto di rottura, i miei comportamenti o atteggiamenti sfuggono al controllo e diventano sempre più autodistruttivi, Katia se ne accorge, mi fa sedere, me lo fa notare e, finalmente, riesco a scuotermi un po’ e tirarmi fuori dalla crisi.
Per questa volta. Perché la cosa che mi ha davvero fatto sorridere, ieri notte, è stato rendermi conto che è un pattern che tende a ripetersi spesso proprio d’estate. Di solito più verso luglio-agosto, ma non è sorprendente che a ‘sto giro sia successo a giugno, visto lo stress di quest’anno.
A questo giro è stata una domanda piuttosto diretta che ha ricevuto una risposta altrettanto diretta.
“Senti, potrebbe essere solo una mia impressione per questo o quel motivo, ma: stai diventando più cattivo ultimamente?”
“Sì”, ho risposto subito, senza esitazione. “Sì, è vero. È una cosa che ho notato anch’io in più episodi, in queste ultime settimane. E ha iniziato a preoccuparmi.”
 
Volendola buttare sulle analogie, nel momento in cui ho sentito di non avere più le forze e la pazienza per essere una Margaery, l’idea era di lasciar libera l’Olenna e dare un po’ di pan per focaccia a chi se lo meritava. Solo che, sempre più spesso, mi sono ritrovato a pensare: “I choose violence”. E non mi stancherò mai di dirlo: essere una Cersei è mai una buona idea. Sentirsi costretti in un angolo e rispondere facendo quanto più male possibile agli altri non è una soluzione sostenibile, tanto meno lo è farne in maniera indiscriminata partendo da un vago senso di sentirsi nel giusto.
La buona notizia è che, appunto, me ne stavo già rendendo conto da solo: c’erano momenti in cui mi sentivo davvero tossico. Un po’ mi sentivo giustificato, date le circostanze; un po’ pensavo che, tutto sommato, fosse dovertente. Per lo più, era pura e semplice dipendenza da Schadenfreude. Ma sentirmi dire che la tossicità si nota così tanto e non è divertente è stata la spintarella di cui avevo bisogno per decidere che è davvero il caso di darmi una regolata, perché tentare di avvelenare la vita agli altri finisce per avvelenare anche me a piccole dosi.

Per dovere di completezza, visto che indagare a fondo le cause del mio comportamento è necessario per migliorarlo, è il caso che lo annoti: mi sento esasperato da tutto. Letteralmente tutto: ovunque mi giri c’è un motivo di rabbia. Il mondo intero, l’atteggiamento generale dell’umanità, il senso di impotenza e stagnazione, se non direttamente l’impressione che, come società, stiamo addirittura tornando indietro. Anni e anni di lotte che sembrano aver fallito completamente. I diritti civili stanno sparendo dappertutto, siamo in piena guerra, i progressi sul fronte climatico sono trascurabili... non c’è una cosa, una, che non vada male.
Così, da qualche parte lungo la strada, ho gettato la spugna.

So anche identificare il momento in cui è partita questa mia spirale verso l’incattivimento: nel 2020, quando Trump si è preso il covid e mi sono fiondato su Twitter per leggere le reazioni. E poi per aggiungere le mie.
E poi ci sono state le elezioni americane, in un momento in cui sentivo che anche le nostre destre erano in difficoltà, e allora mi sono detto: “È tempo di bullizzare i bulli”. Dare loro una dose della loro medicina, farli sentire come hanno fatto sentire gli altri per tutto questo tempo, caricare su di loro tutto il peso sociale di essere persone orribili con idee orribili.
Solo che, lungo la strada, ho iniziato a ritenere lo sforzo sociale dietro quest’idea sempre più vano. Invece che argomentare il mio sdegno, se non per far cambiare idea almeno per piantare quella vocina che rovina il “divertimento” quando la gente si comporta in un certo modo, ho iniziato a ricorrere a semplici, generici, sciocchi insulti che, in effetti, lasciano il tempo che trovano. Spiegare al fascista medio perché il suo fascismo deriva semplicemente dalla paura gli rovina la giornata molto più che sentirsi dare del povero cretino.

E tutto questo, lo ribadisco, è un semplice coping mechanism per il malessere che sento dentro. Uno che non solo non lo risolve, ma finisce per far stare peggio anche me: non mi rende poi tanto distinguibile dalla gente che ha ridotto il mondo a un posto che è una completa e costante fonte di disagio.
E io non voglio essere questo.

Qualche misura per invertire la tendenza l’avevo già presa nelle scorse settimane: ad esempio, ho evitato di infilarmi in baruffe digitali che sarebbero finite in gara di insulti, lasciato cadere discorsi che mi avrebbero irritato, scorso oltre notizie che avrei potuto commentare in maniera caustica, eccetera, limitandomi solo ai casi più eclatanti. Dovrei impegnarmi a farlo ancora di più, lasciando correre anche i casi eclatanti: alla fin fine, è uno spreco di energie che non porta a nulla. Non riuscirò a isolarmi ed evitare di occuparmi di attualità, ma non sono obbligato a dire la mia a tutti i costi alimentando la caciara che si forma intorno: posso anche solo prendere atto della cosa e andare avanti con la mia vita.
Ho anche notato che non ho praticamente bloggato quest’anno. Pensavo dipendesse dal fatto che la mia vita è piuttosto piatta (a questo punto per scelta, ma quello è un altro paio di maniche), ma la verità è che non avevo voglia di dialogare con me stesso su ciò che sta succedendo in generale. Scrivere uno stato tagliente su Facebook o cercare gente da insultare sotto i meme altrui è molto più semplice che analizzare come un avvenimento mi fa sentire e tirarne fuori un post coerente.
È però una cosa che dovrei riprendere a fare perché, appunto, non sono bravo a processare i miei stati emotivi e questa è una valvola di sfogo che mi aiuta molto. Anche per questo ho scritto questo post: ieri sera Katia mi ha aiutato a dare forma e voce alla consapevolezza che già stavo sviluppando, e qui ho deciso di cristallizzarla in forma scritta per non perderla di vista.
Ho spesso il vizio di ignorare la mia voce interiore e cercare segni esterni che me la sbattano in faccia. A volte mi faccio i tarocchi (ho smesso dal 2020, sempre perché non ho molta voglia di chiacchierare con me stesso). A volte presto attenzione alle piccole coincidenze, come la scena in The Umbrella Academy che abbiamo visto subito dopo aver parlato, in cui Allison e Diego vanno in cerca di risse con i suprematisti bianchi, o la citazione di Deadlocked dei Tristania con cui ho aperto il post, che ho trovato fra i ricordi di Facebook – entrambe descrivono bene lo stato d’animo che ha causato il mio incattivirmi e mostrano quanto sbagliato sia continuare su questa china.
Molto più spesso, è la migliore amica che sono fortunato ad avere, che quando inizio ad andare troppo alla deriva mi prende per i capelli e mi aiuta a tirarmi fuori dall’acqua alta.
Katia mi ha consigliato di scrivere una lettera a me stesso, a questo riguardo. La lettera è questa, ma non sarebbe completa se non fosse un po’ anche una lettera a lei e non si concludesse con:
Grazie, Katia.

Wednesday, 10 November 2021

Mille piccoli graffi

Ieri notte il Mac mi ha tirato un nuovo numero: si è ibernato come ogni tanto fa (con la batteria nuova è meno frequente, ma sono più che altro io che ormai mi sono desensibilizzato e non batto più ciglio) e, quando l’ho riacceso, mi è sparito il wi-fi. Ho provato a riavviarlo e mi ha detto testualmente: “Wi-fi non disponibile, nessun hardware installato”. Ho fatto un bel respiro, l’ho proprio spento e quando l’ho riacceso era tornato tutto a posto. Sgradevole perché non me l’aveva mai fatto, ma nulla di che.

Oggi mi sono svegliato e, intercettando il flusso di coscienza che continua imperterrita a vomitarmi addosso mentre ancora non so nemmeno come mi chiamo, l’ho raccontato alla Mater.
La sua risposta? “Beh, ci credo, sta acceso da quando ti svegli a quando vai a dormire.”
Chiaro: è colpa mia che lo accendo e lo uso, non del fatto che ormai è nel suo decimo anno di vita.
E allora ho pensato: “Gee, I wonder why io mi colpevolizzi letteralmente per qualsiasi cosa.”
È sottile, apparentemente innocuo e a prima vista nemmeno irragionevole, ma oggi qualcosa ha cliccato nella mia testa e me ne sono reso conto: sono cresciuto con una fila interminabile di microattacchi come questo, di attribuzioni più o meno implicite di colpa per cose che sono o solo marginalmente collegate, o del tutto indipendenti dal mio corso d’azione. È tutto ciò che ho conosciuto nella mia vita, e non è quindi sorprendente se il mio primo pensiero, quando succede qualcosa, è trovare il punto in cui io ho sbagliato e fustigarmici sopra.
Però oggi bravo me, che ho immediatamente individuato e isolato il pattern senza lasciarmelo affibbiare né interiorizzarlo – e, anzi, riconoscere che è un comportamento abituale da parte della Mater.

Oh, e visto che siamo in tema, giusto tre giorni fa ho confessato a Katia di aver dovuto fare uno sforzo cosciente per non leggere ulteriori motivi in una cosa completamente scollegata da me che mi ha detto. E perché? Sempre perché sono cresciuto con una madre il cui metodo di comunicazione preferito, quando qualcosa non andava, era fare la passivo-aggressiva, e la cosa ha marchiato a fuoco nella mia coscienza che non posso fidarmi delle cose che mi vengono dette, c’è sicuramente qualcosa da leggere tra le righe, devo capire da solo qual è la cosa sbagliata che ho fatto, o quella giusta che non ho fatto.
Anche lì, ho riconosciuto il pattern e l’ho isolato, perché a volte la gente ha semplicemente i cavoli suoi e non dipende dalle mie presunte mancanze, ma non fidarsi della trasparenza di nessuno, soprattutto le persone più vicine, è davvero stancante.

TL;DR, ora che la mia generazione è in fase procreativa, ragazzə: ricordatevi di non essere mai genitori passivo-aggressivi e di non abituare lə vostrə figliə ad assumersi colpe che non dipendono da loro. Altrimenti tra venti o trent’anni saranno adultə copertə di cicatrici emotive incapaci di abbassare la guardia, rilassarsi e affrontare un problema senza fustigarsi.

Monday, 7 June 2021

Burst the bubble

Mercoledì vaccinano la Mater con la seconda dose di Moderna. Giovedì vaccineranno me con la prima dose di non si sa ancora cosa. As in, questo giovedì. Ho appena realizzato quanto imminente sia e, ovviamente, sto avendo un attacco d’ansia.
 
Riflettendoci sopra per provare a demistificarlo, di primo acchito mi verrebbe da dire che sia dovuto al mio terrore per gli aghi o all’incognita di come saranno per me i sintomi per le poche ore successive. Quando dovevano fare la prima dose alla Mater ci siamo preparati come se sarebbe stata male per settimane con pulizie generali, spesa grossa, provviste e chissà cosa, poi è stata così così circa una trentina di ore e mi ha addirittura aiutato a pulire dietro gli idraulici. Come la prenderò io è una bella domanda ma, per quanto l’incertezza sia sgradevole, so che non sarà nulla di debilitante.
Penso però che il vero motivo della mia ansia sia il fatto che mi ero dato il vaccino come termine ultimo per bivaccare in questa bolla di sospensione dalla vita reale. Non riesco ancora a immaginare come possa essere il “dopo”: tornare a socializzare, riprendere in mano la mia vita a Trieste, tornare a occuparmi della quotidianità in toto, poter attuare i piani per ora vaghi di incontrare persone lontane… Certo, continuerò a fingermi non vaccinato per dodgeare le attenzioni indesiderate sulle app di dating, ad esempio, ma con le persone che contano davvero le comode scuse per stare chiuso in casa o, al massimo, uscire solo quando ne ho davvero voglia scompariranno. Il distanziamento sociale (leggi: rispetto del mio spazio personale) scomparirà. Ma soprattutto, se ripenso al 2019, stavo facendo un tale pessimo lavoro a essere un adulto funzionale, capace di tenere le fila di casa, cucinare, fare la spesa, non campare sempre d’asporto, pulire e quant’altro che ho il terrore di tornare a quei livelli una volta per conto mio e fuori dal nido.

D’altro canto, nulla di tutto ciò è ancora davvero imminente. Dovrà passare un mesetto prima della seconda dose, più altre due settimane per essere sicuro dell’immunizzazione, e comunque ormai l’estate me la passo qui con il condizionatore piuttosto che tornare all’afa triestina. Il “dopo” non è imminente – non del tutto, per lo meno. Per cui penso che calmerò i nervi stampando e compilando moduli e contromoduli, che è l’unica cosa su cui in questo momento ho controllo, e cercherò di spegnere il cervello per i prossimi due giorni e mezzo. Un demone alla volta: prima la prima dose, poi la seconda, poi la mia vita da immunizzato in un mondo sempre più post-covid.

Saturday, 1 May 2021

A Millennial’s love letter to skinny jeans

Giusto oggi, grazie a un video di Mina Le, ho scoperto che c’è una faida tra i milennial e gli zoomer circa la forma dei jeans. Inevitabilmente, un po’ come vent’anni fa era per i jeans a vita alta, la moda è andata avanti e gli skinny sono visti dalle nuove leve come datati, indossati da quelli che ai miei tempi erano chiamati “i grezzi”, ormai un residuo di epoche passate. E a quanto pare la cosa è diventata una vera e propria guerra social con botta e risposta piuttosto brutali da entrambi i campi.
A parte che trovo assurdo che millennial e zoomer lottino tra loro quando c’è il nemico comune che sono i boomer e i vecchi gen-x (o forse non voglio accettare che i gggiovani mi vedano per il vecchio bacucco che sono), mentre ascoltavo le opinioni di Mina, che è una zoomer, mi sono reso conto che il succo del discorso è che gli zoomer hanno verso i jeans skinny lo stesso disturbo da stress post-traumatico che la mia generazione ha verso i jeans larghi e a vita bassa. Ovvero: prova a sopravvivere alle medie e superiori indossando quella roba.
E pur con le differenze del caso, capisco perfettamente il sentimento: in alcune circostanze, i jeans skinny non sono il massimo della comodità – specie se, come per i pantaloni larghi, si tende verso l’estremo del trend. In più, i ragazzini sono mostri, ed essere costantemente esposti al giudizio e ludibrio per quei capi porta inevitabilmente a odiarli.
 
A part quello, però, i jeans baggy degli Anni Duemila sono stati un incubo già solo a livello logistico: la combinazione tra larghezza, mancanza di struttura e vita bassa faceva sì che sui miei fianchi magri non stessero su nemmeno con un miracolo. Il cavallo penzolante peggiorava ulteriormente la situazione, così come le zampe d’elefante, che s’impigliavano di continuo sotto i tacchi delle scarpe e tiravano il tutto ancora più giù. A dare il colpo di grazia, la stupida moda delle cinture militari, le cui fibbie non reggevano nulla, specie stando sempre in tensione all’altezza del bacino, col risultato che la cintura cedeva lentamente e i pantaloni continuavano ad aver bisogno di essere riaggiustati ogni tre secondi. Giuro, se ripenso alle medie e ai primi anni delle superiori, il ricordo è di una lotta costante e continua contro i jeans.

Ma peggio ancora, quei pantaloni brutti, quelle felpe enormi, quelle magliette sformate cadevano malissimo su un corpo che la pressione sociale dei miei coetanei mi aveva insegnato a odiare. Già ero minuto, in tutta quella stoffa inutile scomparivo. E sempre la stessa pressione sociale mi toglieva qualunque alternativa, perché i vestiti stretti erano considerati “grezzi”, da sfigati, se non addirittura – tenetevi forte – da finocchi. Non scherzo, il disprezzo che avevo sentito nella voce di chi una volta mi aveva detto che i pantaloni stretti sono “da frufrù” aveva lasciato un’impressione profonda nel me adolescente, che ancora nemmeno si rendeva conto di esserlo davvero, “frufrù”.

Onestamente, passare ai jeans skinny e, in generale, all’abbigliamento form-fitting è stata una vera rinascita. E non solo perché, finalmente, le nuove taglie più strette mi stavano, ma proprio a livello concettuale. E sì, è concisa con due cose fondamentali: da una parte, con la mia presa di coscienza sulla mia sessualità, quindi sicuramente c’è anche stato un elemento di riappropriazione dei “pantaloni da frufrù”; dall’altra, col mio trasferimento via dalla Sardegna, che mi ha fatto associare quella sensazione di libertà alla nuova moda (per quanto ai tempi fossi più orientato al goth andante che a ciò che succedeva nel “mainstream”).
Ma principalmente era proprio l’idea che quei vestiti mi permettessero di mettermi in mostra senza però esagerare. È significato accettare e celebrare il mio corpo, vedere la snellezza come un punto di forza da valorizzare, non come qualcosa di cui vergognarmi, laddove percepivo la moda loose come un costante nascondermi.
I jeans attillati sono stati il mio momento di empowerment, ed è per questo che li amerò sempre e non intendo rinunciarvi, anche a costo di farmi dare del “grezzo” (o qualunque sia l’equivalente attuale del termine) dalle nuove generazioni. Lascio che abbiano i loro momenti di empowerment sartoriale e mi tengo i miei.

Sunday, 21 February 2021

Gaslight and gas smell

Chiedo per un amico: come si fa a imparare a fidarsi non dico dei propri istinti e intuizioni, ma, ahm… dei propri sensi? Della percezione fisica, concreta che gli organi sensoriali hanno del mondo?

No, perché erano già due-tre giorni che, mentre o io o la Mater eravamo ai fornelli, sentivo odore di gas. “Ma no”, mi sono detto, “ti starai sbagliando. Non è possibile. Perché dovrebbe?”
E invece – sorpresa! – oggi è finita la bombola e abbiamo pranzato d’asporto. L’odore di gas improvviso è uno dei segnali più tipici che indicano che la bombola sta per finire. Se mi fossi fidato di quello che il mio olfatto sentiva, magari sarei andato a controllare, ne avremmo ordinata una piena e non ci saremmo trovati a piedi di domenica. (Per inciso, la Mater soffre di reflusso gastro-esofageo che, col tempo, le ha fritto i recettori dell’olfatto, quindi sente pochissimo gli odori; non sarebbe quindi stata d’aiuto a capire se mi stessi immaginando o meno l’odore).
Ma no, ovvio che se io sento qualcosa, di sicuro mi sbaglio, o c’è una qualche spiegazione razionale per cui ho torto. L’ironia di essermi fatto gaslighting da solo proprio sull’odore del gas è notevole.

Ovviamente, questa costante sfiducia nelle mie percezioni rientra sempre nei miei pattern di delegittimazione delle mie emozioni e sensazioni. Se sono io a sentirlo sicuramente non è valido. Se provoca fastidio a me sicuramente non è nulla di che.  E in ogni caso, se mi lamento io sicuramente do fastidio più del problema stesso. Se invece è qualcun altro ad accorgersene, allora c’è motivo di intervenire.

Per quanto da una parte sia frustrante accorgermi di ricadere periodicamente in questi circoli viziosi, dall’altra è un bene: già non esserne più ignaro ma, anzi, riconoscerli è un primo passo per provare a romperli. Questo stesso post lo sto scrivendo non tanto per celebrare l’ennesima futilità quotidiana, quanto per ricordarmi che, se sento puzza di gas, probabilmente la bombola sta davvero finendo. E se mi lamento a vuoto e salta fuori che ho torto, pace, alla peggio si è fatto un controllo in più.
Devo uscire dalla forma mentis che io debba sempre vivere in punta di piedi per non urtare gli altri anche quando un mio intervento più deciso sarebbe d’aiuto a tutti.

Thursday, 4 February 2021

Violino

Oggi ho imparato la differenza tra la repulsione / allarme e una vera e propria fobia.
Rientrando a casa, sul muro del corridoio ho trovato il ragno più grande che abbia mai visto in vita mia, almeno metà del palmo della mia mano. Normalmente sono il tipo di persona che, trovato un ragno, prende un foglio di carta, ce lo fa salire sopra e va a liberarlo alla finestra senza ucciderlo. Date le dimensioni straordinarie, ho pensato che a questo giro fosse più saggio prendere l’aspirapolvere e ammazzarlo risucchiandocelo dentro. Fatta una foto per poterne discutere online, prendo l’aspirapolvere, elimino il mostro, torno alla mia serata come nulla fosse.
È solo ripensandoci dopo che mi sono reso conto della calma assoluta con cui ho gestito la situazione: ho provato disgusto e preoccupazione, ho percepito il ragno come un potenziale pericolo date le dimensioni per me straordinarie, ma ho agito lucidamente senza avere reazioni irrazionali. Fra l’altro, secondo Katia poteva trattarsi di un ragno violino, una bestia malefica il cui veleno può mandare intere aree di pelle in cancrena, per cui l’allarme che mi ha suscitato era probabilmente più che giustificato.

Insomma, quanto di più lontano ci possa essere da come reagisco quando vedo un topo. Fosse anche morto, o dall’altra parte della strada (in un caso addirittura dall’altra parte del fossato delle mura di Lucca!), o sull’altro marciapiede mentre io sono al sicuro, affacciato alla finestra in casa al terzo piano: il mio corpo si tende, salto, strillo alzando la voce di tre ottave, non riesco più a parlare coerentemente; battito cardiaco e respiro accelerano drasticamente, inizio a tremare e sudare freddo, la mia mente continua a tornare più e più volte sull’incidente nelle ore successive. In alcuni casi, per giorni continuo a vedere ratti in tutto ciò che mi circonda. Una volta mi sono addirittura fatto male: il topo era vicino e io ho saltato in una maniera strana, sollevando una gamba e torcendomi, col risultato che ho stirato un muscolo ad altezza bacino che mi ha poi fatto male per ore. Non è il semplice istinto di conservazione, il senso di schifo e sporco: è qualcosa di atavico, totalmente soverchiante, schiacciante, soffocante, sul quale non ho alcun controllo.
Con gli scarafaggi va un po’ meglio, ma quanto, poi? Ho imparato a canalizzare la paura in furia omicida: invece che strillare e chiamare la Mater, mi precipito a schiacciare il mostro sotto la suola, uno in meno a infestare questa Terra. Ma c’è sempre quel primo momento in cui il mio corpo si congela, poi a scattare è l’istinto di lotta o fuga, stavolta tarato sulla prima; e la rapidità con cui intervengo dipende dal bisogno di neutralizzare la minaccia prima che possa uscire dal mio campo visivo e finire chissà dove.

Ecco, mai come oggi questa consapevolezza è stata forte in me. La fobia non è schifo né fastidio, è qualcosa di potente e totalizzante. Non è legata alle circostanze concrete, quanto al mondo interiore di chi la prova. Ed è per questo che è necessario rispettarla anche se personalmente non la comprendiamo: quel senso di terrore è completamente al di fuori del controllo di chi ha un attacco, e più che di minimizzazione, scherno o “maniere forti” (ovvero esporre la vittima alla fonte sua fobia nella speranza che basti quello a farla passare), c’è bisogno di empatia, sostegno e anche aiuto fisico nell’eliminarne l’oggetto. Perché se una persona è in grado di gestire una situazione, per quanto disgustosa, potenzialmente pericolosa o spaventosa, lo fa. Se non ci riesce non gliene si può fare una colpa.

Tuesday, 15 December 2020

L’anno che mai fu(mai)

Alle ore 4:36 di questo stesso giorno, un anno fa, spegnevo la mia ultima sigaretta prima di fare il controllo sicurezza all’aeroporto di Bologna.
Dopo due tentativi falliti, mi ero posto la fine del 2019 come termine ultimo per smettere di fumare, così da non inquinare la nuova decade. In realtà avevo anche provato a smettere prima del mio trentesimo compleanno, così da non inquinare la mia nuova decade, ma il 2019 non era stato particolarmente clemente con me e non avevo avuto la forza per farlo davvero.
Ma dato che la Mater mi avrebbe ucciso se l’avesse scoperto (e probabilmente mi ucciderebbe anche se leggesse questo post), tanto valeva approfittare della vacanza “di qualche settimana” (lol!) da lei, in cui fumare sarebbe stato logisticamente difficilissimo e ancora più stressante dell’effimero sollievo che mi dava, per affrontare i primi, difficili tempi in cui il corpo va in astinenza mentre si disintossica (per inciso, anche le volte precedenti avevo smesso cold turkey ed ero durato mesi, segno che, all’occorrenza, la forza di volontà ce l’ho). In più, un completo stravolgimento di quella che era la mia routine a Trieste sicuramente avrebbe aiutato, visto che non avrei più avuto i momenti fissi della giornata in cui affacciarmi alla finestra per “prendere una boccata d’aria”.

Ed eccomi qui, “sobrio” da dodici mesi da che il mio record precedente era stato sette mesi e mezzo. Come ho scritto in quell’occasione, mi preoccupa solo che quest’anno sia stato così fuori dall’ordinario: facile stare pulito un anno intero quando a fare la differenza sono la convivenza forzata con la Mater, lo stravolgimento ulteriore della mia routine e la mancanza di occasioni sociali che mi potessero indurre in tentazione (che è stato ciò che mi ha fatto fallire le altre due volte). La paura è che, una volta finito tutto e tornato a Trieste, privo di una direzione nella vita se non morire un poco ogni giorno, la tentazione che ora non sento nemmeno più torni prepotente. Che tornino le giornate in cui l’unica motivazione che avevo di vestirmi e alzarmi dal letto era affacciarmi alla finestra per la prima sigaretta del giorno. O quelle in cui a farmi uscire di casa era il richiamo da sirena del tabacchi sotto casa perché avevo finito il pacchetto.
Ci sono state notti in cui ho sognato di fumare. Non sognato nel senso di “che nostalgia, o mio dio, quanto vorrei farlo”, ma in cui semplicemente fumavo, salvo poi, come nel caso dei sogni sulla mascherina, rendermi conto che era già il 2020, la nuova decade, e stavo di nuovo rovinando il mio proposito. E come nei sogni sulla mascherina (o quelli in cui rompo il telefono), svegliarmi e scoprire che va tutto bene, che non ho fatto un passo falso, che tengo ancora fede al mio impegno è un sollievo.

Poi però, quando mi capita di sentire l’odore, lo trovo estremamente fastidioso. Non mi manca arrivare la sera senza energie perché ho meno ossigeno in circolo, né svegliarmi nel cuore della notte con la voglia e non riuscire a riaddormentarmi finché non la soddisfo. Non mi manca avere l’alito perennemente pesante, e amo che la mia pelle sia più brillante e salubre di quanto sia mai stata mentre fumavo.
Ecco, spero che tutto questo abbia un peso che controbilanci il mio istinto di autodistruggermi, di regalarmi una gratificazione che percepivo anche come auto-punizione per essere un fallimento come persona.

Onestamente non sono sicuro di cosa mi abbia spinto a scrivere per la prima volta in chiaro che ho un passato da tabagista qui sul blog. Nei progetti iniziali, questo post (che per sicurezza terrò nelle bozze e pubblicherò solo quando sarà in seconda pagina, non si sa mai, ciao Mater) doveva contenere un vago riferimento alla cosa e concentrarsi più sulla mia permanenza Giù™, ma scrivere quella prima frase così esplicitamente è stato liberatorio. Forse è l’orgoglio di aver tagliato un traguardo arbitrario ma importante come quello dell’anno. Forse, sotto sotto, sento di aver superato la dipendenza e poterne parlare perché non mi appartiene più.
In ogni caso, ho smesso di fumare da un anno. Con l’aiuto delle circostanze, ma è pur sempre un anno. Bravo me.

Friday, 13 November 2020

Ansia da auguri

L’attacco d’ansia odierno è presentato da: il compleanno di Nell.
 
È già pomeriggio e dovrei scriverle qualcosa per farle gli auguri: da dieci anni a questa parte l’ho sempre fatto e lei mi ha sempre risposto con gentilezza e allegria.
Ma dentro di me c’è sempre la paura che veda il mio DM e sospiri alzando gli occhi al cielo, pensando: “Oh no, di nuovo ‘sto stalker, che palle, non poteva mancare”. Nonostante tutte le rassicurazioni e i quory, e i “my dear friend”, e il week end che ho passato da lei e Kristian, continuo a pensare di essere un fan che non sa starsene al suo posto e abusa del fatto di avere una linea diretta con lei.

Poi la gente con cui mi sono confidato mi chiede quanto spesso io le scriva e, effettivamente, le scrivo molto poco: per le occasioni come questa, se succede qualcosa d’interessante, ogni tanto per sapere come sta. Oggettivamente no, non abuso del suo tempo né cerco di monopolizzarlo. Ma l’idea strisciante di essere fastidioso anche a piccole dosi è sempre lì, sullo sfondo di ogni interazione sociale, anche senza il rapporto cantante-fan che la esasperi come in questo caso.

Onestamente non so. È chiaro che la mia ansia sociale è peggiorata notevolmente, ma non so se dipenda dallo stress e dall’ansia generalizzata per il periodo che stiamo tutti attraversando, che hanno ovviamente deteriorato il mio stato mentale in generale, o se invece abbia ragione a puntare il dito contro la Ciospa e questo ulteriore peggioramento sia dovuto al fatto che ancora non mi sono del tutto ripreso dal colpo che mi ha dato.
Non che capirlo mi farebbe chissà che differenza: avere continue epifanie sul mio stato mentale ma non riuscire a usarle come punto di partenza per migliorarlo è il leitmotif di tutto il mio percorso di autoanalisi.

Wednesday, 28 October 2020

Passi avanti

Del sogno che ho fatto stanotte ricordo solo la parte finale. Sono certo che fosse successa molta altra roba prima, ma al punto in questione ero a Vinci e c’era qualcuna delle mie amiche del giro cosplay, sebbene non ricordi chi nello specifico. Questa mia amica aveva addosso il vestito rosso della Ciospa, quello che aveva cucito apposta per il nostro shoot. Non appena lo notavo, le proponevo uno shoot al più presto. E sì, una parte di me lo faceva semplicemente perché il vestito le stava proprio bene, un’altra invece per lanciare l’ennesima frecciata alla Ciospa e mostrarle che era perfettamente sostituibile.
In effetti, nei miei piani c’era di usare dei tempi molto veloci e approfittare della brezza per scattare in controluce al tramonto una specie di danza, catturando ogni movimento e drappeggio della stoffa per creare una serie ispirata a Shake It Out di Florence + The Machine molto migliore di quella che avevamo fatto con la Ciospa (che in real life è la foto che meno mi soddisfa di quel set).
Io e la mia amica ci facevamo una passeggiata per stabilire i dettagli e arrivavamo in punta al Molo Audace a Trieste (dove avevo effettivamente fatto quelle foto con la Ciospa) e ci sedevamo a parlare lì. Solo che a un certo punto il mare s’ingrossava: la prima onda s’infrangeva senza problemi davanti al molo, mentre la seconda saliva sopra e rischiava di bagnarci. Allora io all’inizio sollevavo semplicemente il bacino per non rischiare di bagnare il telefono, ma poi mi accorgevo che non bastava e iniziavo a indietreggiare a gattoni cercando di restare dove l’acqua era più bassa. E sì, alla fine ci riuscivo e salvavo il telefono.
Poi mi sono svegliato.

Credo che questo sogno sia stato il riflesso di almeno un paio di cose: Lucca che quest’anno salta, con la mia nostalgia per gli amici di fiera, e il secondo dei revenge shoot per il progetto sugli Hurts, che sto pianificando in un punto in cui ho scattato con la Ciospa qui ma che è molto esposto alle onde quando tira vento (ci sono passato vicino ieri o l’altro ieri e ho proprio notato quanto in su salissero gli spruzzi).
È interessante, però, che anche in sogno stia iniziando a sostituirla del tutto. Nell’ultimo paio d’anni ho sognato diverse volte lei che si comportava fingendo che non fosse successo nulla mentre io non volevo averci a che fare; poi ho sognato che era diventata ostile ed era a sua volta arrabbiata per come avevamo lasciato le cose, ma almeno riconosceva l’accaduto. Adesso finalmente non è comparsa affatto e, anzi, ho iniziato a fare piani sostituendola.
Questo, unito al fatto che mi sono trovato in difficoltà ma sono riuscito a cavarmene fuori sul finale del sogno, spero significhi che sto facendo dei passi avanti nel riportare quantomeno il rancore a livelli gestibili.

A proposito di passi avanti, oggi parlando con un amico sono riuscito a fare un’importante ammissione: il vero motivo per cui non sono più andato in terapia negli ultimi due anni e mezzo è che la mia fiducia verso il mio terapista è venuta meno.
Se qualcuno ricorda le mille paturnie che mi ero fatto per organizzare il viaggio a Roma / Napoli per scattare Belial, il penultimo Infernal Lord, beh, è quello. Non ricordo nemmeno di preciso la sequenza degli eventi, a quanto avevo accennato prima di partire, ma sono piuttosto sicuro che il dramma si sia consumato dopo che ero tornato trionfante. Gli ho parlato di come la mia ansia si fosse rivelata infondata, ho accennato al tema dello shoot e del progetto in generale, e lui ha praticamente smattato che i demoni sono cose con cui non si deve giocare e che avrei dovuto lasciar perdere tutto.
Ecco, in quel momento mi sono sentito personalmente attaccato (di solito lo dico ironicamente, “I feel personally attacked by this”, ma stavolta dico sul serio) e la cosa ha frantumato la mia fiducia. Non mi sono più sentito in uno spazio sicuro in cui potermi aprire senza temere un giudizio, che è la cosa peggiore che può capitare durante una terapia. Ho fatto ancora qualche sessione prima di partire, ricordo di non aver avuto particolari problemi di cui discutere visto che, tolti un paio di inconvenienti, ero più che altro euforico per i progetti post-Vinci che avevo con la Ciospa (povero stronzo), ma poi non sono più tornato nonostante a fine 2018 avessi da gestire la delusione estiva e nel 2019 fosse successo quello che è successo.
Mi sono detto che era per una questione di tempistiche, che tanto tra Lucca e le vacanze natalizie in Sardegna c’erano poche settimane, che poi stavo troppo male e non riuscivo ad andare a chiedere aiuto, ma la realtà è che non sono più tornato perché non riuscivo più a fidarmi di lui, perché l’idea di riprovare ad aprirmi con lui era assurda.
Ecco, ora l’ho detto.
Un’epifania che ho cercato d’ignorare per oltre due anni ma che mi è finalmente salita a galla.
Magari anche questo è un passo avanti e finalmente mi permetterà di cercare altrove e riprendere un percorso di cui ora più che mai sento di aver bisogno.

Tuesday, 12 May 2020

Niente critiche, solo complimenti

Ho un rapporto molto complicato con i complimenti. Non dico che non mi piaccia riceverli… no, in effetti è proprio quello che dico: per lo più, mi mettono profondamente a disagio.
È un discorso che è saltato fuori  già un paio di mesi fa mentre chattavo con un conoscente riguardo le varie app di dating e compagnia cantante, e di cui ho conservato qualche screen per ricordarmi dell’epifania che ho avuto e poter tornare indietro a rifletterci sopra in un secondo momento (che è ora).

Certo, non tutti i complimenti nascono uguali e quindi non reagisco sempre allo stesso modo. Quelli rivolti al mio intelletto, alle mie abilità, alla mia opera, al modo in cui mi vesto o pettino tendo ad accettarli più volentieri, pur con le dovute riserve: si riferiscono a qualcosa su cui ho controllo e posso agire direttamente. Sono dei meriti che ho, o si riferiscono a cose che nessun altro potrebbe fare esattamente allo stesso modo, per cui sono più plausibili perfino con la mia sindrome dell’impostore.

Quelli rivolti all’aspetto fisico vanno dal suscitarmi imbarazzo a vera e propria irritazione.
Credo dipenda sempre dalla solita sindrome dell’impostore: dato che sono convinto di non meritarmeli, li ritengo automaticamente non sinceri. Deve esserci una fregatura, un secondo fine, un ulteriore motivo. E se si tratta di complimenti rivolti al mio fisico, specie sulle app di dating, il secondo fine è chiaramente portarmi a letto. Quindi automaticamente mi sento minacciato nella mia unicità perché il complimento non sincero è solo un modo per arrivare all’ennesimo orgasmo, a prescindere da chi lo provochi: io divento solo un mezzo per raggiungerlo e il complimento è un modo per fregarmi e farmi collaborare.

Ed è vero, come discorso fa molto in fretta a passare dalla scarsa autostima per cui non penso di meritarmi i complimenti alla pretesa di sentirmi unico. Probabilmente a urtarmi, nei complimenti per il fisico, è il fatto che per farli non c’è nemmeno bisogno di conoscermi bene, di sapere cosa mi piace fare e in cosa metto il mio impegno.
Altrettanto probabilmente, se li trovo così affettati e generici è proprio perché lo sono: è un modo rapido e facile per dire qualcosa di positivo senza doversi impegnare e li si può riciclare su molti ragazzi nella speranza, prima o poi, di far centro.
Per certi versi, non sorprende che finiscano per sorbire l’effetto opposto e farmi sentire insultato: davvero ‘sta gente pensa che sia così stupido da sentirmi lusingato per così poco?

Ok, questa sarà una di quelle epifanie che non vanno a parare da nessuna parte: forse alla fine non sono davvero io ch– cioè, sì, sono io, visto che i complimenti fatti da parte di amici e conoscenti li ritengo sempre frutto di compassione nei miei confronti, di un tentativo di non urtarmi mentendomi. Ma i complimenti da parte di sconosciuti, specie in contesti “predatori”, probabilmente mi urtano per motivi decisamente più concreti e intrinsechi ai complimenti stessi.
Bene, se non altro ora ho individuato su quali aree lavorare e in quali, invece, fidarmi della mia diffidenza.

Friday, 17 January 2020

Ansia da prestazione

La Mater ha il vizio di farmi iniziare la giornata con uno spropositato info dump. Il che è già fastidioso normalmente, visto che appena sveglio ho bisogno di una mezz’ora buona per avviare il sistema operativo, scendere a patti col fatto di dover affrontare un altro giorno, abbandonare le fantasie del dormiveglia, controllare i social media per ritardare il nuovo giorno, eccetera.
Ovviamente, il mio fastidio aumenta ulteriormente quando quest’info dump si riferisce agli impegni che, nonostante le abbia detto mille volte di smettere di farlo, ha già preso per me senza nemmeno consultarmi, specie con terze o quarte persone.

La mia giornata di oggi è iniziata con un massiccio attacco d’ansia per una variazione su questo tema: la Mater non ha preso impegni direttamente per me, ma ha promesso a uno del gruppo di Pokémon Go locale (di cui sono admin) che l’avremmo loggato su un telefono secondario per fargli il raid EX di Regigigas visto che non poteva venire; solo che dovevamo già loggare un altro giocatore che, pur avendo ricevuto il biglietto, è partito perché non vive stabilmente qui.
Senza dilungarmi, avevamo abbastanza telefoni per tutti, ma entrambi i giocatori erano loggati con Google sullo stesso dispositivo, quindi qualcuno andava spostato sul secondo. Il primo era irraggiungibile causa lavoro, l’altro non particolarmente tech-savvy e difficilmente in grado di coordinarsi con noi per fare la verifica di sicurezza richiesta da Google sul suo telefono per permetterci di fargli il log in senza problemi. Quindi il rischio che, promettendo troppo allegramente e velocemente, la Mater finisse per scontentare qualcuno era alquanto concreto, e la cosa mi ha causato un attacco d’ansia che si è protratto finché non sono riuscito a guidare il giocatore poco tech-savvy e farlo accedere al secondo telefono. Hurrà, tutti salvi.

Quindi, che cosa abbiamo imparato quest’oggi su Alessandro, bambini?
Buona parte della mia ansia deriva dalla mia percezione delle aspettative altrui nei miei confronti e del giudizio che ne consegue. Perché l’idea di deludere me stesso, alla fin fine, non mi preoccupa più di tanto – quella è regolare depressione. Ma l’idea di vedere la disapprovazione e la delusione negli occhi di qualcun altro davanti al quale mi sono sopravvalutato mi paralizza. Peraltro, so che sono aspettative totalmente falsate e proiettate da me stesso, ché chiaramente se ci fosse stato un disguido tecnico tipo non riuscire a loggare uno dei due non se la sarebbero presa e non mi avrebbero incolpato direttamente, but still.

Comunque questa è un’altra di quelle epifanie di cui non so che fare. Fantastico, ho appurato che non mi preoccupo nemmeno più di deludere me stesso perché ormai è la mia condizione esistenziale di default, ma poi? Come risolvo il mio problema con gli altri per riuscire a essere solo depresso e non anche ansioso?

Friday, 9 August 2019

Slowmotion Apocalypse

Non è che sono cattivo e lo faccio apposta a tenermi le cose dentro per mesi e mesi quando sono arrabbiato, invece che dirle subito in faccia: è che non sono abituato ad arrabbiarmi, tutto qui. O meglio, a farlo davvero e per più di cinque minuti.
Tolto lo scatto d’ira per una qualche situazione contingente, che se ne va con la stessa rapidità con cui è arrivato, o l’esasperazione per i fascistoidi nazionali, o l’irritazione per il ciclista che non rispetta il codice della strada, mi considero una persona poco incline alla rabbia. Ci vuole qualcosa di davvero, davvero vile per farmi arrabbiare sul serio – beh, anche qualcosa in meno se è diretto alle persone che amo, ma la mia soglia di tolleranza di ciò che si può fare a me è molto alta. Quando qualcosa la supera, mi coglie alla sprovvista perché non sono abituato a vedere quel limite superato, è un’eventualità improbabile.

Per questo non mi accorgo subito di essere davvero arrabbiato: è un processo graduale. Ho bisogno di tempo per realizzare che più sento quella certa persona, meno voglia ho di farlo. Che qualcosa si è rotto e non riesce a tornare a posto. Che quando penso a lei, lo faccio sempre meno col sorriso e sempre più con una smorfia. Che la shade che le ho lanciato una, due, cinque, dieci volte non è solo perché l’occasione si presta a una bella battuta, ma perché ho del rancore da esorcizzare in qualche modo. Che ciò che ha fatto non è solo l’ennesima scemenza che posso lasciar correre, ma mi ha ferito o colpito seriamente e quei sentimenti non se ne andranno via dall’oggi al domani.
La mia rabbia è un’apocalisse in moviola, un processo inesorabile ma lento, passo dopo passo, epifania dopo epifania: mi ci vuole un po’ per realizzare il tumulto interiore che la presenza di qualcuno mi causa. Così finisce che per le prime settimane o addirittura mesi, tutto sembra andare come al solito. Poi pian piano inizio a raffreddarmi, le comunicazioni rallentano, si diradano, diventano monosillabiche. E alla fine esplodo, asfalto la persona in questione con tutte le argomentazioni che ho avuto tempo di maturare prima di quel confronto, e sembra arrivare quasi dal nulla per una cosa vecchia di mesi.
E naturalmente, visto che un rancore è per sempre che DeBeers spostati coi tuoi diamanti, finisce che vado avanti per mesi a lanciare shade e acido senza la minima provocazione, perché nel frattempo i sentimenti di cui non mi sono reso conto sono suppurati e hanno bisogno di uscire.

Ma non è cattiveria. Non è falsità, né ipocrisia, né non dire le cose in faccia. È semplicemente che non sono mai preparato a sentirmi davvero tradito, specie dalle persone di cui mi fido, e quindi mi ci vuole un po’ per processare lo stato d’animo.
Più tempo passa da quando mi combini qualcosa di davvero brutto a quando ti leggo vita, morte e miracoli, più significa che l’hai fatta grossa, devi preoccuparti e ti conviene mettere una pietra sopra al nostro rapporto.
Perché il rovescio della medaglia è che, per quanto mi piacerebbe imparare a perdonare e lasciar correre, porto rancore per molto più tempo di quello che mi serve per processarlo all’inizio.

Friday, 28 June 2019

Ho comprato un ventilatore

Può sembrare una stupidaggine, ma oggi ho comprato un ventilatore. Sono anni che ne parlo con Katia, che mi consiglia di farlo ogni volta che i primi caldi mi privano delle forze e del sonno, ma ogni volta rimando, accampo scuse, non sono del tutto convinto e finisce che arriva luglio, riparto per Giù™ dove ho il condizionatore, torno che la temperatura si è già abbassata e non se ne fa niente. Eppure, per quel mese e mezzo / due mesi, soffro senza decidermi a risolvere la cosa.
Sino ad oggi: finalmente mi sono deciso, sono andato alla Pam e ne ho preso uno a buon prezzo.

Beh, ora che l’ho fatto, mi sono reso conto che comprare un ventilatore è stato un passo importante per me.
Comprare un elettrodomestico è diverso da qualunque altra cosa. Un po’ è l’ansia di buttare soldi in qualcosa che magari non funziona, o non è adatto alla casa e le mie necessità – insomma, è una di quelle spese che “fa mamma” e non io, e per le quali mi sento inesperto e inadeguato. Ma è solo parte della storia, perché sono anni che Katia mi suggerisce la marca che usa lei e mi fornisce tutto il feedback di cui avevo bisogno per decidere.

No, il vero fulcro della questione è che comprare un elettrodomestico è qualcosa che si fa “per la casa”. E fare qualcosa per la casa entra in contrasto con lo stato di precarietà nel quale vivo.
Abito in una casa non mia, uso mobili non miei, tutte le responsabilità delle migliorie, delle sostituzioni, delle riparazioni ricadono sulla Signora Maria perché un giorno, quasi sicuramente, io non vivrò più qui. Me ne andrò e mi lascerò tutto questo alle spalle.
E sì, un ventilatore è un elettrodomestico talmente poco ingombrante che l’ho portato a mano dal negozio senza nemmeno far fatica: nel momento in cui me ne andrò potrò portarlo via con me. Ma psicologicamente, l’idea di aver messo qualcosa di mio in casa è stata strana. È una piccola radice, un modo più profondo di rendere questo posto “mio” che non tappezzare le pareti di poster, a prescindere da quanto a lungo lo sarà. Ed è un piccolo passo per spezzare il circolo vizioso secondo il quale, finché non mi sistemo in un posto che davvero è tutto mio, non mi merito di avere più dello stretto indispensabile.
Avevo proprio bisogno non solo dell’aria fresca, ma di questo piccolo atto di gentilezza nei miei stessi confronti e di una piccola parvenza di stabilità, per quanto temporanea.

Sunday, 26 May 2019

Inaspettata assoluzione

Tutte le famiglie sono complicate, anche quelle non disfunzionali. La mia, che disfunzionale lo è stata per la maggior parte della sua storia, riserva sempre nuove sorprese. È da relativamente poco che sto realizzando quanti livelli di complessità ci siano, e che la situazione non è bianca e nera come mi sembrava da piccolo, specie nel puntare il dito su una o sull’altra parte.
Però, fra le varie cose che pendono innegabilmente e oggettivamente a favore della Mater, c’è il modo in cui i due ex hanno tentato di influenzare il mio rapporto con la controparte: la famiglia di mio padre ha cercato attivamente di mettermi contro mia madre col beneplacito (o, per lo meno, col tacito assenso) di mio padre, mentre mia madre ha sempre tentato di incoraggiarmi ad avere un rapporto quantomeno civile con mio padre.
Alla luce della redistribuzione delle colpe che ho dovuto fare, è evidente che, nell’usarmi come mediatore fra loro due, la Mater ha finito inevitabilmente per espormi all’inaffidabilità e meschinità di mio padre. Però, dall’altra parte, ha sempre cercato di mitigarla, di incoraggiarmi a vederlo, a parlare con lui, a volergli bene, di sottolineare le cose che faceva per me. E no, non sono ingenuo: fin da ragazzino mi rendevo conto che lo faceva perché, essendo una giurista, era il modo più sicuro per evitarsi grane in tribunale. Parlandone molto dopo, l’ha anche ammesso candidamente: l’ha fatto per quello e per evitare che, diventato adulto, le rinfacciassi che mi aveva impedito di costruirmi un rapporto con mio padre, perché riteneva fosse importante che lo avessi.

La cosa che mi ha sorpreso, però, è che qualche sera fa mi abbia confessato di sentirsi in colpa per non essere riuscita a farmi instaurare un buon rapporto col Procreatore. Avrebbe potuto fare di più, mi ha detto, e questo le è pesato fin da quando si sono separati.
Sinceramente, io sono cascato dal pero.

Quando ero piccolo, ricordo che ero sempre felice quando, d’estate, mio padre ci raggiungeva al mare per il week end, perché sapeva costruitre le mura dei castelli di sabbia meglio della Mater.
E niente, questo è quanto. Questo è il miglior ricordo d’infanzia che ho di me e mio padre.
Ricordo anche la volta che ho imparato che le cuticole non si tirano via a mani nude: ero con lui nel bar del corso – quello con gli archi dentro – ed ero talmente annoiato mentre lui parlava con i suoi amici che avevo iniziato a tirarmi le pellicine alla base delle unghie, scoprendo con le cattive che sanguinano e fanno male.
Ho mille ricordi di quando la Mater mi portava a spasso in paese la domenica, verso la stradina bianca che scendeva giù dalla collina, sopra la vallata con quel grande abete, in centro a vedere il larice all’ingresso del paese, o a salutare “la mia amica quercetta”, o a raccogliere i fiori di tiglio. Non ho nulla del genere con mio padre.
Tutte le volte che si andava in campagna, era sempre la Mater a staccare un po’ dal raccogliere le olive o le ciliegie per fare una passeggiata nel bosco, cercare i funghi con me, osservare gli animaletti, addirittura arrampicarsi su per la collina di fronte alla vigna perché un vecchio pilone in cemento mi sembrava chissà cosa e volevo vederlo da vicino. Lui non si è mai staccato da ciò che stava facendo per assecondarmi un quarto d’ora. E non certo perché la Mater mi monopolizzasse: anche lei lavorava e spesso mi doveva lasciare con lui, che invece se ne stava a guardare la TV mentre io giocavo per conto mio sul tappeto.

Tolti i castelli di sabbia, i primi ricordi di me e mio padre davvero insieme li ho, cronologicamente parlando, da dopo il divorzio. Avevamo le storielle a puntate che mi raccontava sugli animaletti del bosco e della campagna, i giochi, i giri in macchina in cui ogni pulsante era un qualche gadget supertecnologico… oh, e ovviamente i viaggi a Salsomaggiore e perfino all’estero. Ma fin da piccolo ho pensato che fosse too little too late. Ha iniziato a occuparsi di me solo quando non ha avuto altra scelta, quando doveva fare bella figura col giudice, e mentre con una mano dava, con l’altra toglieva. Le storielle degli animali del bosco le ricorderei con molto più piacere se non fossero state intramezzate dalle sue sorelle che mi facevano pressione psicologica perché odiassi la Mater. I viaggi mi sarebbero sembrati meno un tentativo di metterci una pezza con i classici “grandi gesti”, se non fossero arrivati anni dopo quegli episodi.

Così, mi sono trovato, a trent’anni appena compiuti, a spiegare alla Mater che il massimo che ha potuto fare per incentivare il rapporto fra me e mio padre è stato proprio non mettergli i bastoni fra le ruote. Di più non poteva.
In primo luogo perché, con la scarsa attenzione che lui mi dava finché erano sposati, mio padre non ha fornito molto materiale con cui lavorare alla costruzione. In secondo luogo perché, a divorzio in corso, è stato lui stesso ad auto-sabotarsi fino a che non è stato troppo tardi.
E soprattutto perché, semplicemente, la Mater non poteva fare il lavoro per lui. Non era lei a dover costruire per mio padre il nostro rapporto, se lui non ci si è mai impegnato finché poi è stato troppo tardi, e anche lì ha fatto il minimo sindacale.  Non può sentirsi responsabile per come sono andate le cose fra me e l’altro genitore, quando la responsabilità di costruire un rapporto è strettamente individuale: lei si è impegnata per costruirne uno con me, lui no. Fine.

Eravamo in Piazza Unità, di ritorno da Fiorellino, quando siamo arrivati a questo punto del discorso, e la Mater si è letteralmente fermata sul posto a fissare il vuoto in preda all’epifania. Era sorpresa perché non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista: poteva sopperire alle mancanze pratiche del suo ex, a tutto il livello educativo, economico, logistico… ma non a quello umano. Quello è una responsabilità individuale e ognuno deve coltivarlo per sé.
Mi ha detto che si è sentita liberata da un peso.

E onestamente, a me è anche dispiaciuto per lei: è vissuta per ventiquattro anni portandosi dietro un senso di colpa che non avevo idea che avesse. Anzi, a ben vedere non aveva proprio ragione di esistere. Se avessimo affrontato prima il discorso, magari se ne sarebbe liberata prima.
Beh, meglio tardi che mai.

Saturday, 20 April 2019

Sospeso

Sono mesi che ho da editare delle foto di Lucca.
Sono mesi che cerco di leggere Alla Deriva di Agatha Christie.
Sono mesi che rimando quello e tante altre cose.

Per quanto riguarda le foto di Lucca, in realtà il motivo è semplice: non sono molto sicuro della qualità del mio lavoro, quindi mi lascio prendere dai dubbi e le crisi di coscienza e finisco per paralizzarmi sul posto. (D’altro canto, è uno degli unici shoot che ho fatto pro bono e quindi non c’è il fatto di esser stato pagato in anticipo a mettermi fretta). Prima o poi mi farò passare le paranoie e mi metterò a editare, ma quel giorno probabilmente non sarà oggi, né domani, né dopodomani.

Per quanto riguarda Alla Deriva, ho il vizio di ritardare i “premi” che do a me stesso fino a, uhm, data da destinarsi. Leggere è qualcosa che mi dà gioia, che sento ancora come speciale e che mi piace concedermi alla fine di un momento di produttività per rilassarmi e appagarmi. Naturalmente, non aver ancora finito le foto di Lucca significa che non sono stato produttivo, quindi non mi merito di leggere, quindi Alla Deriva resta lì a prendere la polvere sul comodino. Fossi almeno uno di quelli che non è produttivo perché troppo impegnato a godersi la vita, e invece neanche quello.

La cosa che mi stizzisce di più delle mie procrastinazioni, però, è che ho buttato all’aria l’occasione di celebrare il decennale del mio primo photoshoot con una reflex. Anche se coinvolgere Veronica sarebbe stato impossibile, avrei potuto organizzare qualcosa a Venezia, cercare di ripercorrere i luoghi che avevamo visitato, fare qualcosa che richiamasse il mood generale di quelle foto pur con l’evoluzione stilistica abissale che c’è stata nel frattempo.
Invece, mi sono trovato sospeso su una questione di una certa importanza e di cui non è ancora il caso di parlare qui, e questo mi ha privato dello spirito d’iniziativa su moltissime cose. Non tanto perché mi aspetto di essere chiamato da un momento all’altro – se quel giorno ho organizzato di essere a Venezia, dopo tre-quattro mesi di attesa posso benissimo dire “Senti, bello, se ne riparla dopo il week end” – quanto perché il fatto che non si muova nulla su quel fronte fa sì che abbia paura di muovermi su qualunque altro. Come se un solo fiato potesse sbilanciare una situazione congelata nel tempo e farla precipitare nella direzione sbagliata.

Il che è forse un po’ il motivo per cui non mi decido a fare quelle foto di Lucca: sono un collegamento col prima, e risolverlo significherebbe lasciarmi alle spalle quel momento senza la certezza che ciò che c’è stato dopo porti qualche risultato. Così posso fingere, invece, che non sia ancora passato tutto questo tempo e che il procrastinare altrui non inizi a essere sempre più preoccupante.

Thursday, 21 March 2019

Thursday


There can be no maybe
For the strong nor for the weak.
Maybe, perhaps,
Has caused me to hesitate?

No Friday,
No tomorrow,
No time left to borrow.
No Friday,
No tomorrow.
Your silence, my sorrow.

A queen of worries,
My doubts and insecurities
Drawn like moths to flame, or so it seems.
They eat at my face as
I fear them, the traces.
Time for a decision – no!

No Friday,
No tomorrow,
No time left to borrow.
No Friday,
No tomorrow.
Your silence, my sorrow.
No Friday,
No tomorrow,
No time left to borrow.
No Friday,
No tomorrow.
Your silence, my sorrow.

I set an ultimatum:
Out with the doubts or in with the flames.
Today, no, tomorrow,
I guess we’ll just wait and see…
Maybe.

Time for a decision.
Time for a decision.
Time for a decision.
Time for a decision.

No Friday,
No tomorrow,
No time left to borrow.
No Friday,
No tomorrow.
Your silence, my sorrow.

[ Thursday – Autumn ]

Canzoni come queste capitano a fagiolo per un procrastinatore di professione come me. Gli Autumn li ho conosciuti personalmente (sono stati la prima band con cui ho avuto un “photoshoot”, per quanto disagiato e affrettato) e ho grande stima di loro: in un certo senso, ascoltare la loro musica è come chiedere consiglio a qualcuno la cui opinione conta per me.
Questo è diventato il mio nuovo inno anti-procrastinazione: oggi me la sono blastata a volume alto e ho fatto un po’ di cose che continuavo a rimandare da secoli. Perché mi conosco: il venerdì arriverà, ma troverò mille altre scuse per rimandare le cose che devo fare. Almeno di quelle che possono essere sbrigate facilmente e nell’immediato mi posso occupare ora senza esitazioni.
E ora che ho fatto almeno qualcosa, ho ritrovato quel po’ di autostima e forza per muovermi e combinare qualcosa anche domani, come se ci fosse “no Saturday, no tomorrow, no time left to borrow”.
Da oggi in poi il giovedì sarà la giornata in cui farò le cose. Senza “forse”, senza “può darsi”, senza “domani”.

Monday, 4 March 2019

Non riesco a dargli un titolo

La capacità di mettersi in dubbio è importante – mai come negli ultimi tempi vale la pena ricordarlo. Tutto ciò che sappiamo non è che una frazione della realtà: ci mancano alcuni dati, molto è ancora un mistero in generale, abbiamo solo la nostra personale prospettiva su tante cose e le nostre emozioni spesso distorcono i fatti. Qualunque ragione abbiamo, è sempre fino a prova contraria: dimenticarlo significa abboccare a chiunque, facendo la voce grossa, rinforzi i nostri giudizi (e pregiudizi), perfino quelli più irrazionali, per approfittarsene.
È così che si finisce a votare certe forze caotiche e/o reazionarie che, mentre forniscono la rassicurante visione di un mondo che ci dà ragione, sfruttano la divisione causata dalla mancanza di empatia, dal considerare gli altri nemici, da identificarsi con le proprie credenze fino a sentirsi attaccati quando vengono messe in dubbio, per consolidare il proprio potere.
Ma non è di questo che voglio parlare oggi.

Il problema è che, da sempre, sono abituato non solo a riconsiderare le mie posizioni in caso di prova contraria, ma anche a empatizzare con gli altri, a tener conto delle loro emozioni, sentimenti, stati d’animo, specie in rapporto alle mie azioni. Se faccio la cosa A, che conseguenze può avere sulla persona B? Se la persona B ha fatto la cosa A che mi ha ferito, può esserci qualcosa sotto, dalla sua prospettiva, che giustifica ciò che ha fatto?
Questo meccanismo funziona bene per una mente normale, ma uno dei cavalli di battaglia della depressione è proprio portare a considerare i propri sentimenti non validi. Sbagliati, egoisti, distruttivi. È così che mettersi in dubbio diventa convincersi di avere torto, a prescindere, partire dal presupposto che i sentimenti degli altri abbiano più valore e vadano preservati anche a discapito dei propri.

È una lezione su cui ho sbattuto spesso la faccia e che sto pian piano interiorizzando. Ora sono al punto successivo: convincermi che a volte è necessario passare sopra li sentimenti altrui per salvaguardare e far valere i propri.
Il conflitto non mi piace e cerco sempre di evitarlo, specie se so che rischia di ferire le persone a cui tengo, anche quando queste mi fanno arrabbiare. Il rovescio della medaglia è che, senza una voce, i miei sentimenti finiscono per suppurare nella mia testa e farmi stare ancora peggio: questo non è salutare e contribuisce solo a deteriorare ulteriormene il rapporto che non voglio incrinare. L’amicizia con Quella Luana non sarebbe stata recuperabile a prescindere, ma magari, se fossi stato chiaro fin dall’inizio, la rottura sarebbe stata meno distruttiva. Per quanto io sia medaglia d’oro di passive-aggressive kombat, snark e frecciate lanciate nella speranza che qualcuno si senta chiamato in causa e si faccia un esame di coscienza, a volte l’unico modo per curare una ferita è parlare chiaro, salvare i bei momenti e chiuderla lì. Chissà che poi la rabbia non sbollisca e non si riesca a ricreare un nuovo rapporto più equilibrato e salubre.
In fondo, i sentimenti ammaccati sono sempre una lezione. A volte quella sbagliata, ma si può sperare.

Mi sono dato un termine massimo per provare questa novità di essere brutalmente onesto anche a scapito dei sentimenti altrui (beh, riprovare, ma non sto ad aprire quella latta di vermi qui). Il termine è scaduto ed è arrivato il momento. Non mi resta che fare un bel respiro, dormirci sopra, svegliarmi con i nervi saldi e dar fuoco alle micce. Farò stare male qualcuno, ma io peggio di così non posso stare, ed è su quello che ho bisogno di concentrarmi ora. Anche solo per potermi guardare indietro, pensare senza rimpianti che sono stato chiaro ed esaustivo, e strappare la piccola vittoria di aver riconosciuto che i miei sentimenti hanno lo stesso valore di quelli degli altri.

Monday, 18 February 2019

Carro e buoi

Crescendo, ho pian piano ammorbidito le mie posizioni nei confronti della religiosità altrui.

Io di religioni ne ho provate svariate, per quanto tutte all’acqua di rose e senza mai reale convinzione: battezzato cattolico (che mi esclude dalla linea di successione per il trono britannico, mannaggia!) prima che potessi sapere di cosa si trattasse; incubo delle catechiste con le mie domande scomode ma comunque comunicato, sempre cattolico; quasi cresimato ortodosso finché non mi sono stufato e non ho più messo piede in chiesa; pagano / wiccan scoppiato perché mi piaceva Charmed e volevo essere edgy al liceo; per un certo periodo, ho perfino creato il mio personale Santo Dorian Gray in una specie di accordo à la American Gods in cui io lo facevo esistere con la mia “devozione” (fra tante virgolette) e lui mi spianava la strada con i suoi “miracoli”. Per fortuna, quando sono entrato nel trip Angel Sanctuary e ho iniziato gli Infernal Lords, ero già abbastanza grandetto da non impelagarmi in qualche strambo satanismo hollywoodiano per darmi un tocco ancora più edgy che nella fase wiccan scoppiata.
Non ho mai sentito nulla. Ho letto e mi sono informato molto sui vari credo con cui ho flirtato perché sono curioso, mi piace il simbolismo che c’è dietro e non voglio rifiutare o accettare qualcosa che non comprendo, ma proprio per questo non ho mai avuto fede: analizzo troppo le cose per poterci credere davvero.

Quando mi sono reso conto di trovarmi da qualche parte nello spettro fra ateismo e agnosticismo, sulle prime sono diventato piuttosto bellicoso (a mia discolpa, vedere una mia cara amica andare a farsi lavare il cervello a Međugorje non ha aiutato). Mi sono riletto molti punti salienti della Bibbia (perché era quello l’avversario più diffuso), ci ho riflettuto sopra e ho iniziato ad attaccare la fede altrui per sport, sciorinando tutta la valanga di contraddizioni, fallacie logiche, assurdità e ritocchi storici. Addirittura, non riuscivo a concepire che una persona intelligente potesse essere religiosa.
Poi, una bella sera, Katia mi ha fatto un reality check piuttosto duro che mi ha fatto svegliare: mi stavo comportando come i peggiori Testimoni di Geova e avevo tanti pregiudizi quanto quelli che mi dicevano che sarei finito all’inferno.
Ci ho messo un po’ a metabolizzare la cosa, ma ho trovato una posizione soddisfacente: chiunque è libero di credere in ciò che gli pare, dal cristianesimo all’astrologia, fintanto che non lo usa per giustificare i suoi pregiudizi. Ciò a cui sono avverso è la struttura organizzata (leggi: il clero), e non transigo in alcun caso sulla necessità di estirpare qualsiasi credo religioso dallo Stato (ne ho parlato più approfonditamente qui). La religione non è un problema a livello personale, ma a livello sociale.

Ciò non significa, però, che mi faccia mettere i piedi in testa: se qualcuno tenta di impormi i suoi pregiudizi religiosi, rispondo a tono.
Ad esempio, mi urta parecchio che un cretino conosciuto su un’app di dating gay mi tenga al telefono un’ora e mezza attaccandomi un pippone madornale perché, girando sul mio Instagram, mi ha visto fangirlare con caption “LUCIFER IS BACK!”, e non si calmi nemmeno dopo che gli ho spiegato che si tratta di una serie tv. Sentirmi dire che finirò all’inferno perché guardo una serie tv su Lucifero (per non parlare di Sabrina, omg!) è piuttosto ridicolo. Sentirmi dire che sono “cattivo” perché per me è tutta mitologia a cui non credo – non importano le mie azioni verso il prossimo, tipo applicare la filosofia Tyrell e cerchi di minimizzare i danni collaterali e beneficiare gli altri nel perseguire i miei obiettivi – è insultante.
Il rispetto è una strada a doppio senso: così come mi astengo dal dare giudizi sulle persone basandomi solo sulla loro religiosità, mi aspetto che loro non ne diano a me perché non credo. Finché mi troverò davanti persone del genere, non mollerò la presa sulle assurdità della fede cristiana e le sue mille fallacie logiche. Anche perché, in un caso come questo, l’ipocrisia è lampante: con che coraggio tu, utente di PlanetRomeo, millanti superiorità morale nei miei confronti da un punto di vista religioso? Cosa ti rende un buon cristiano se sei gay? Scegli arbitrariamente di ignorare la parte in cui finirai all’inferno per sodomia? Nulla ti vieta di ignorare anche il resto.
Ed è inutile che, di fronte a tutte le fallacie che ti sbatto in faccia, tu mi risponda: “Allora vengo lì, ti ammazzo e poi mi dirai che avevo ragione ed esiste l’aldilà”. Non fai altro che dimostrarmi che ho ragione quando dico che la moralità diventa relativa quando dici di agire per conto di una divinità.

Per inciso, con ‘sto mentecatto è andata a finire che ho riattaccato scocciato e, quando ha provato a ricontattarmi il giorno dopo, gli ho detto che non avevo intenzione di continuare a sentirlo perché la sua visione del mondo non è compatibile con la mia. Lui mi ha giudicato – perché dire “sei cattivo” è un giudizio – sulla base delle mie credenze e dei gusti in fatto di serie tv. Io l’ho giudicato come idiota e bigotto sulla base delle sue azioni nei confronti di un’altra persona. Non abbiamo nulla in comune.
Poi ho anche dovuto bloccarlo su tutte le app e aggiungerlo nella lista nera dei numeri chiamanti, ma è un altro discorso.
Poi però ho dovuto fare un po’ di training autogeno per convincermi che non è un mentecatto perché è religioso, ma vive la sua religiosità in maniera così aggressiva perché è un mentecatto. È stato faticoso, ma non ho annullato la mia crescita e ho rimesso carro e buoi nella giusta prospettiva.

Tuesday, 5 February 2019

To love, aimer, любить

Qualche mese fa ho scritto un post in preda a un improvviso e confuso stato emotivo in cui facevo una specie di confessione d’amore a una persona non identificata. Tutt’ora non so cosa pensarne.

Non so se sono solo contento o anche un po’ geloso del fatto che ora abbia una storia. Che abbia trovato una persona che l’ha aiutato a far pace con alcuni aspetti di sé, e quel qualcuno non sia stato io. Non so se ne sono davvero mai stato innamorato, o gli voglio solo molto, molto bene. A volte la linea fra amore platonico e amore romantico è tremendamente incerta.
Ci sono stati molti momenti, prima di ogni incontro, in cui ero davvero convinto di esserne innamorato. Poi ci vedevamo di persona e tutto era perfetto: ero sopreso e travolto, ogni volta, dalla naturalezza del nostro rapporto, da come tutto fosse al suo posto, senza desideri inconfessati e frustrati, senza (quasi) tensione sessuale, senza il senso che mancasse qualcosa, il solo piacere di trovarsi e trascorrere del tempo insieme. Forse ho solo voluto fantasticarci sopra, immaginare un po’ di romanticismo che non sentivo davvero, per aggiungere quella nota di piacere in più all’impazienza del rivedersi.
Non è sorprendente che buona parte delle altre lingue che conosco non facciano una distinzione tra “amare” e “voler bene”: è tutto to love, aimer, любить, ed è bello poter dire “ti amo” senza che dentro ci sia per forza quell’accezione romantica.

E comunque, ho il vizio di auto-denigrarmi. Magari mi piace pensare di essere stato l’amante silenzioso, il lupo travestito da pecora che segretamente voleva azzannargli la gola come tutti gli altri, quando in realtà sono sempre stato davvero l’amico disinteressato di cui aveva bisogno.
Però è bello che, in mezzo a tutta questa incertezza, l’unica cosa chiara è sapere di voler davvero bene a qualcuno.

Friday, 18 January 2019

Forget

Yeah, I’ve been dancing with the devil:
I love that he pretends to care
If I’ll ever get to heaven
When a million dollars gets you there.
Oh, all the time that I have wasted
Chasing rabbits down a hole
When I was born to be the tortoise,
I was born to walk alone.
Forget about it.
Forget about it.
Forget about it.

Mi sto rendendo conto che crescere, maturare, significa anche accettare con più serenità la fine di un’amicizia. Senza drama, con giusto la quantità necessaria di shade per esorcizzare la delusione, ma senza necessariamente perdere nulla di ciò che è stato.
Provare attivamente a sistemare le cose ma sapere quando fermarsi aiuta a non avere rimpianti: non è più un gioco di potere, una questione di fingersi intoccabili, di orgoglio da proteggere anche a costo degli affetti – è solo salvaguardare il rispetto di se stessi quando, durante un confronto, tentano di manipolarci. Non è più volersi salvare la faccia, ma proteggersi dal comportamento tossico di una persona evidentemente priva di empatia.

E poi si impara anche ad accettare che i tempi in cui un rapporto è tutto o niente sono passati. Quando un’amicizia finisce, a seconda delle circostanze, non per forza ci si smette di sentire: si può rimanere buoni conoscenti, scambiarsi qualche convenevole di tanto in tanto e mantenere intatta la cortesia.
Per come sono fatto, per il peso che do all’amicizia, quando una persona mi spinge al punto di volerla interrompere è perché ha fatto qualcosa che ritengo davvero, davvero imperdonabile: tutto il bene che voglio si trasforma istantaneamente in acredine. E dato che sono capace di volere molto, molto bene, sono anche capace di portare molto, molto rancore, anche per tutta la vita. È stato proprio notare come, a questo giro, non sia successo, che mi senta solo deluso, non arrabbiato, ad avermi fatto riflettere.

Ma soprattutto, ti accorgi di essere un po’ più maturo quando riesci a guardare indietro e non cambiare prospettiva su ciò che è successo prima della rottura. Mi è capitato più volte di litigare con qualcuno, smettere di parlarci e non riuscire più a ripensare ai momenti condivisi perché la fine dell’amicizia li aveva in qualche modo intorpiditi. Non stavolta: nulla degli ultimi anni è diventato opaco, amaro, è semplicemente passato. E ritengo che riuscire a conservare ciò che un’amicizia ti ha dato dopo che è finita sia un bel modo di diventare più maturi.
Quanto all’acredine,
sometimes you have to learn to forget about it.