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Saturday, 30 September 2023

Classifica musicale generale – 2023

 

Nelle puntate precedenti:
2016;
2017;
2018;
2019;
2020;
2021;
2022.

Classifiche dalla 51 alla 100:
2018;
2019;
2020;
2021;
2022;
2023.

Classifiche annuali:
2017;
2018;
2019;
2020;
2021
 
1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 30? (Alizée)
• Riscoprendola da adulto (e da adulta lei) con Les Collines (Never Leave You).
2. Prima canzone ascoltata della numero 22? (Sia)
The Church Of What’s Happening Now, qualche anno prima che Sia diventasse super famosa.
3. Testo preferito della numero 33? (Aurora)
• Al momento sono innamorato di quello di Blood In The Wine.
4. Album preferito della numero 49? (Clare Maguire)
• Il sempre magnifico (e sottovalutato) Stranger Things Have Happened. Che peccato che si sia persa nel vortice dei NFT e non stia più pubblicando musica…
5. Canzone preferita della numero 13? (Susanne Sundfør)
• Daje con le domande difficili. Forse The Silicone Veil? Forse Memorial?
6. Album peggiore della numero 50? (Phildel)
• “Album peggiore” implicherebbe che ne ha fatto uno brutto, e non è il caso.
7. C’è una canzone della posizione numero 39 che senti molto tua? (Lucia)
Catastrophe parla di me!
8. Bei ricordi legati alla numero 15? (Kari Rueslåtten)
• Le notti passate a fare tardissimo su Skype con Veronica parlando di come Kari volesse darci fuoco (aveva senso nel contesto).
9. Quanti album possiedi della numero 5? (Emilie Simon)
• Tutti quelli che ha pubblicato in formato fisico (spero ancora in Mars On Earth 2020 su CD).
10. C’è una canzone della numero 45 che ti rende felice? (Dead Can Dance)
• Uhm… adoro ballare su Cantara, forse?
11. Canzone preferita della numero 40? (Sleepthief)
Rainy World, sempre indimenticata.
12. Canzone della numero 10 che ti piace di meno? (Anathema)
• C’è l’imbarazzo della scelta tra i primi album ed EP, ma menziono Nocturnal Emission perché i fan vecchia scuola amano lagnarsi di quanto gli Anathema siano diventati “MeLoDrAmMaTiCi” con gli ultimi album, dimenticando che quando erano metallari brutti e cattivi hanno scritto quattro minuti di piagnucolio sui loro sogni umidi.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 6? (Evanescence)
• La volta dopo il concerto all’Alcatraz nel 2006: Tim, che era l’ultimo arrivato, se ne stava in un angolo a fare da tappezzeria e quando gli ho chiesto una foto si è sorpreso; seguendo il mio esempio, si è formato un codazzo di fan che gli hanno mostrato il loro apprezzamento.
14. Canzone della numero 38 che associ a un momento o persona? (Ramin Djawadi)
Light Of The Seven era la mia colonna sonora quando andavo a distruggere le palestre di quella steroia di Giada i primi tempi di Pokémon Go.
15. Quale canzone della numero 19 ti emoziona di più? (Anneke Van Giersbergen)
Day After Yesterday, ma buona parte di Air.
16. Quante volte hai visto la numero 35 live? (Sugababes)
• Venissero in Italia, ‘ste sgallettate!
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 23? (Goldfrapp)
Annabel.
18. Album preferito della numero 11? (Eivør)
• Sempre molto indeciso tra Larva e Segl.
19. Prima canzone ascoltata della numero 14? (Panic! At The Disco)
• Se eri un adolescente che teneva su MTV mentre (non) faceva i compiti a metà Anni Duemila, era I Write Sins Not Tragedies che ascoltava te.
20. Canzone preferita della numero 27? (Meg Myers)
Take Me To The Disco o The Morning After.
21. Album preferito della numero 16? (Epica)
Design Your Universe mai dimenticato.
22. Prima canzone ascoltata della numero 47? (Sirenia)
Seven Sirens And A Silver Tear.
23. C’è una canzone della 18 che trovi catartica? (Draconian)
It Grieves My Heart.
24. Come hai scoperto la numero 21? (Stream Of Passion)
• Grazie al forum di Epica Italy (che tempi).
25. Canzone della numero 26 che ti rende felice? (Tristania)
• Sembra un paradosso ma ce n’è una: Ab Initio.
26. Canzone preferita della numero 3? (The Gathering)
• Nessuno schioda i The Gathering dalla terza posizione, e nessuno schioda Saturnine dal trono.
27. Album preferito della numero 2? (Within Temptation)
• Ditto come sopra: The Unforgiving.
28. Prima canzone ascoltata della numero 32? (Röyksopp)
Poor Leno.
29. Testo preferito della numero 8? (Marina & The Diamonds)
• Al momento lancio Flowers come una frecciata a qualcunə.
30. Quante volte hai visto la numero 17 live? (Róisín Murphy)
• Oh boy. Nessuna, e adesso è fuori discussione perché non mi va di litigare con le TERF che hanno invaso la sua fanbase.
31. Come hai scoperto la numero 44? (White Sea)
• Luisa, as always.
32. Album della 12 che ritieni sottovalutato? (Autumn)
Summer’s End non innova chissà quanto, ma è molto migliore di quanto gli si dia credito.
33. Canzone peggiore della numero 29? (Siobán Donaghy)
• Non riesco proprio a farmi piacere Nothing But Song.
34. Prima canzone ascoltata della numero 34? (Woodkid)
Run Boy Run.
35. Album preferito della numero 28? (Lady Gaga)
• Possiamo parlare del fatto che Born This Way è stata l’ultima cosa davvero figa che ha fatto musicalmente?
36. Quante volte hai visto la numero 42 live? (Amy Lee)
• Con gli Evanescence? Un sacco. Da solita? Mai perché ancora non ha tirato fuori ‘sto benedetto album solista synthpop sulla Luna.
37. C’è qualche canzone della 36 che consideri un guilty pleasure? (Karen Elson)
• Più mi informo sulla storia americana, più la cover di Dixie rientra in quella categoria…
38. Come hai scoperto la numero 48? (The 3rd And The Mortal)
• Erano una delle band seminali del metal a voce femminile: non potevano non incuriosirmi.
39. Album preferito della numero 7? (Delain)
• Confermo sempre Apocalypse And Chill.
40. C’è qualche canzone della numero 31 che ti mette nostalgia? (Nemesea)
Say mi ricorda tempi meno complicati.
41. Canzone della 41 che non ti piaceva ma adesso ami? (iamamiwhoami)
• Non mi viene in mente nulla.
42. Testo preferito della posizione numero 24? (Theodor Bastard)
Будем Жить.
43. Canzone più emozionante della numero 46? (Diablo Swing Orchestra)
• I D:S:O sono divertenti, ma emozionanti...?
44. Canzone della numero 25 che ti rende felice? (Delerium)
• Uhm… Above The Clouds.
45. Canzone preferita della numero 9? (Florence + The Machine)
Blinding.
46. Primo album ascoltato della numero 37? (Gwen Stefani)
Love. Angel. Music. Baby. ovviamente.
47. Membro preferito della numero 4? (Hurts)
• A questo punto mi viene solo da fare una battuta sui membri di Theo e Adam.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 43? (Emmelie De Forest)
Only Teardrops. Che non si dica che dall’Eurovision non esce roba buona.
49. Album che possiedi della numero 20? (Emilie Autumn)
• Tutto ciò che è uscito da Enchant in poi.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 1? (Theatre of Tragedy)
• Lo sappiamo a memoria ormai.

Wednesday, 16 February 2022

Adesso arriva l’elfo nero

Sono giorni che vedo volare stracci tra gli appassionati di Tolkien sui feed dei miei vari social media. Come polemica non mi coinvolge particolarmente perché è un fandom di cui faccio parte a piccole dosi e marginalmente, ma a forza di leggere opinioni diverse, argomentazioni e controargomentazioni, ho inevitabilmente finito per rimuginare sulla faccenda pure io. Ho alcune osservazioni.
 
1) Un’opera del passato, per (ri)vivere, ha bisogno di passare attraverso la lente e il filtro dell’epoca attuale. Vedasi la scena di Arwen Principessa Guerriera nel primo LOTR di Jackson, residuo di quando si pensava di unire i personaggi di Arwen e Eowyn per creare una protagonista femminile più proattiva in linea con i tempi. Poi si è deciso di lasciare separati i personaggi e quella scena di Arwen è rimasta un non-sequitur, ma il punto resta: cambiano i tempi, cambiano i valori, e un’opera che vuole riproporsi non può ignorare la cosa.
Per dire, pensate a Notre-Dame De Paris: oggi sarebbe assurdo immaginare quella storia priva dell’aspetto di riscatto sociale con cui la conosciamo, ma a Hugo fotteva letteralmente sega dei marginalizzati, il succo del romanzo era che bisognava restaurare la cattedrale perché è l’unica cosa che dura nel tempo. E non vedo nessun purista che grida al politicamente corretto e si lamenta del “brownwashing” di Esmeralda, perché le implicazioni di lei che era l’unica zingara buona perché in realtà era la figlia di una coppia cristiana ed era stata rapita dalla culla sarebbero un filo indigeste al giorno d’oggi.
 
2) Tokenism, blackwashing, brownwashing, eccetera: sì, è vero, sono fenomeni non sinceri che nascono dalla necessità di sfruttare il multiculturalismo per ampliare il marketing di un’opera, e sono quasi sempre fatti dai bianchi a uso e consumo del senso di colpa sociale di altri bianchi.
Ma sono il sintomo di un problema più largo, ovvero la disparità di trattamento tra le storie occidentali cosiddette “biancocentriche”* (asterisco, ci torniamo dopo) e quelle non occidentali di culture non bianche. Salvo eccezioni, le storie non “biancocentriche” hanno meno pubblico e ricevono pertanto meno fondi (con ciò che ne consegue per la qualità), meno promozione, meno visibilità, rendendo le “pari opportunità” di rappresentazione, di fatto, nulle. Fintanto che non si risolve questo problema a monte e opere come Black Panther o Hidden Figures non smettono di essere un’eccezione, il tokenism è, purtroppo, un male necessario per rappresentare la società multietnica in cui ormai viviamo.
 
3) È vero, c’è un doppio standard nell’applicare il “colour-blind casting”. Alle storie occidentali è praticamente imposto, mentre non ci si sognerebbe mai di applicarlo a opere di origine africana, asiatica, sudamericana, eccetera. Nessuno ha battuto ciglio perché sono mancate le “quote bianche” in Encanto, per dire. Di nuovo, però, il problema è alla radice nella disparità di numero e presenza mediatica tra le storie occidentali che permeano la nostra cultura di massa e quelle non occidentali. C’è una disparità di trattamento e un protezionismo a valle perché c’è una disparità di mezzi e possibilità a monte.
 
4) Dalla parte opposta della barricata, torniamo a quell’asterisco. Parlando di “media occidentali” e “biancocentrici”, c’è l’ulteriore problema dell’imperialismo socio-culturale degli Stati Uniti, che si considerano il centro del mondo e danno per scontato che le stesse dinamiche sociali ed etniche che ci sono da loro si applichino anche alla molto diversa (ed internamente eterogenea) società europea.
Questo è un problema che VA affrontato e la sensibilità che, negli ultimi anni, si è iniziata ad avere nel presentare con quanta più autenticità possibile le storie di culture non occidentali dovrebbe essere estesa a tutte le storie non americane. Per cui, America, se una storia europea non si conforma ai tuoi standard etno-sociali, è perché la società di quel paese europeo è diversa da quella statunitense tanto quanto lo è quella coreana, o giapponese, o indiana (Paesi le cui produzioni mediatiche sono altrettanto “monocromatiche”, ma la cosa non viene fatta notare).
Vero che questo discorso è complicato dal passato imperialista dell’Europa, i cui danni al resto del mondo sono sempre attuali, ma dopo quasi settant’anni in cui NOI abbiamo ricevuto l’imperialismo americano, direi che possiamo iniziare a sollevare il problema: è giusto che richiediamo per l’Iliade (se n’era parlato tempo fa), i romanzi della Austen o le fiabe di Andersen o dei Grimm lo stesso trattamento che è riservato ad altre culture mondiali; però “noi” continuiamo a essere sovraesposti in una società in cui non siamo l’unico gruppo culturale.
 
5) Il discorso del “Ma io mi riesco a immedesimare in chiunque senza bisogno che sia la mia copia carbone” è il motivo per cui si parla di MBEB, quindi… anche no, grazie. In primo luogo perché, nel complesso, semplicemente non è vero, o non ci sarebbero puntualmente le lagnanze ogni volta che il protagonista di un’uscita mainstream (penso, ad esempio, ai videogiochi) è nero, queer, donna, eccetera. E poi grazie al cazzo, Pierfrancesco, che riesci a immedesimarti quasi sempre senza problemi: è proprio perché quasi sempre hai davanti la tua copia carbone.
Poi, per dire, anche a me la mancanza di una vagina non impedisce di finire quasi puntualmente per immedesimarmi più in personaggi femminili che maschili, quindi cosa ci vuole? Poi però vai a vedere meglio e questi personaggi femminili affrontano temi che risuonano con le problematiche che affronto in quanto persona queer in un modo che i personaggi maschi non fanno. Quindi, anche se obliqua, la dinamica di minoranza vs rappresentazione nei media esiste anche in quel caso.
Per cui, essendo il discorso più complesso di “ma basta avere fantasia per immedesimarsi”, lasciamo che siano le minoranze a dire se e quanto si sentono rappresentate o meno: è la LORO esperienza di vita ed è valida.
 
Quindi, in conclusione, è vero, gli elfi e i nani neri in una storia di Tolkien non risolvono il problema del razzismo sistemico e sono una mossa commerciale per non far accusare di “biancocentrismo” l’adattamento di un’opera che nasce da un autore bianco del secolo scorso; è anche vero che, se si vuole continuare a vedere quest’opera riproposta, bisogna accettare di vederla adattarsi ai tempi. Lo stesso Regno Unito non è certo l’America, ma il suo tessuto sociale è molto diverso rispetto ai tempi di Tolkien.
Detto in soldoni, la scelta qui è tra relegare quell’opera al passato e lasciarla fossilizzare nella forma che conosciamo, o adattarla al contesto socio-culturale attuale se vogliamo vederla riproposta. Volete ancora opere ispirate a Tolkien? È così che va ora, pace.
Poi in un futuro utopico non ci sarà bisogno di fare tokenism e blackwashing eccetera perché, accanto alla serie culturalmente europea di ispirazione Tolkieniana, saremo abbastanza ricettivi da appassionarci anche all’adattamento di un’epica mitologica centrafricana in cui non ci saranno personaggi bianchi. Ma quei tempi ancora non sono qui, e le persone non-bianche, non-etero e non-cis non possono più essere ignorate e nascoste sotto il tappeto nei media che la nostra società eterogenea produce e consuma.

Thursday, 3 February 2022

Messaggi che mai saranno spediti

Mi visita un profilo su Romeo: interessante, lascio qualche like alle foto e vedo un po’ i suoi amici. Uno è carino, visito il profilo; da lì ne visito un altro, sempre di bell’aspetto. E mi trovo davanti la descrizione più stupida di sempre, specie per un trentatreenne, letteralmente mio coetaneo.
Are you ready to question everything?
 
Here is what I’m looking for: Empathy, Honesty, and Beauty.
 
I own the perfect contraceptive: an unvaccinated body. Press the [x] button ASAP to escape. :)
 
My outside might appeal to some of you,  but just wait till I crush that with my personality. :)
INFP-A in case you were wondering.

Not all the infinites are the same in size: there are more Real numbers between 0 and 1 than there are Natural numbers going into infinity. Proven by Cantor’s Diagonalisation Proof.

The magic word of the 21st century to ward off any interest: unvaccinated. A dream-come-true period for all sociologists to come.
Gioia bella. Da dove comincio?
Tralasciando la scorreggina matematica messa lì giusto per darsi un tono… quell’incipit lì sembra quasi inoffensivo, finché non si contestualizza col resto. Ma andiamo con ordine.
Dovessimo ipoteticamente chattare e dovessi tu confessarmi di non essere vaccinato aspettandoti una reazione negativa a priori da parte mia, probabilmente il tuo gusto per il drama e l’autocommiserazione sulle prime rimarrebbe frustrato.
Non ce l’ho con i non vaccinati in sé e per sé. Se alla luce di qualche condizione o patologia pregresse, il medico dice a qualcuno che non è il caso che si vaccini, io ne ho il massimo rispetto e, anzi, posso guardarlə negli occhi e dirlə con sincerità che a me importa. Che non potrò fermare la pandemia o prometterlə di proteggerlə dal contagio, ma ho fatto tutto ciò che mi è umanamente possibile per non contribuire deliberatamente al rischio: ho sempre rispettato il distanziamento sociale, osservato i lockdown e, soprattutto, mi sono vaccinato.
Se invece, come quell’incipit suggerisce, si tratta semplicemente di fare le bizze e i capricci per sentirsi “speciali”, “più svegli” e “più furbi”, beh, allora mi spiace ma no, non provo nessun rispetto. Siamo nel 2022, questa situazione va avanti da due anni, a questo punto non ci sono più scuse di disinformazione e ignoranza, è una scelta deliberata. Fra l’altro, trovo enormemente ironico che a cercare empatia sia uno che, pur di vivere la sua fantasia da protagonista, da eroe che si oppone all’oppressione del sistema, mostra un tale egoismo e mancanza di riguardo verso chi il vaccino davvero non può farselo.

L’altra cosa che mi urta particolarmente di questa presentazione è quando fa “autoironicamente” la vittima. Da una parte, sembra un suo atteggiamento in generale, perché se ti rendi conto di essere una persona sgradevole e, invece che lavorare su te stesso, scarichi la responsabilità sugli altri, c’è qualcosa che non va, come ci insegnò a suo tempo il nostro amico svedese incel.
Dall’altra, è il voler scaricare sugli altri quelle che sono solo le conseguenze di una sua scelta deliberata. Se essere non vaccinato è una cosa che allontana i potenziali partner, la colpa non è dei potenziali partner e tu non sei in diritto di lanciarti un pity-party mascherato da autoironia. Francamente, se uno fa sesso casuale non protetto con molti partner e si rifiuta di fare terapie preventive come il PrEP, credo che non ci sia nulla di sbagliato se un potenziale nuovo partner preferisce lasciar perdere. I mezzi per proteggersi ci sono, rinunciarvi è una scelta; qui è la stessa cosa.

E niente, questo è un post che ho scritto semplicemente perché non è nel mio stile attaccare briga con gente che non mi scrive per prima, ma avevo bisogno di sfogarmi un po’. Sono come messaggi che ho scritto ma non spedirò mai al cretino qui. Che continui a vivere nella sua piccola bolla in cui lui è un eroe della libertà e tutti noialtri siamo cattivi e ottusi perché non lo accettiamo.

Friday, 24 December 2021

E come da tradizione…

Ero convinto che la terapia d’urto dell’anno scorso avesse curato la Mater, che essersi trovata a doverselo fare lei, l’albero, gliene avesse fatto passare la voglia. Non ha parlato di farlo fino a tre giorni fa e, anche avendomi fatto portare giù le scatole, non si era mossa.
Invece ieri, emergendo dalla mia tana per barcollare verso il bagno, avevo visto i rami in salotto – l’albero era montato ma ancora non aperto né decorato; e oggi, mentre io giravo per questioni di Pokémon Go da parte di entrambi, lei l’ha addobbato imperterrita. Però ha barato: ha messo solo le luci e le ghirlande senza palline o cianfrusaglie varie.
“Perché ora che tocca farlo a te, lo trovi incredibilmente tedioso.”
“No, non è vero! È che da sola non ho il tuo occhio.”
Certo. Chissà che l’anno prossimo finalmente si arrenda. L’importante è che continui a non coinvolgermi, così anche la mia Melania interiore resta sopita.

Parlando d’altro, stasera sembro la hotline per disperati in ansia per il cenone / pranzo con il parentame, e la cosa ha confermato le riflessioni che ho diligentemente fatto anche quest’anno sulla mia antipatia nei confronti del Natale. In realtà si tratta di un’espansione di quelle del 2017, ma ho isolato la parola che mi urta di più quest’anno, ed è “famiglia”.
Più ancora che per la gente che arriva e ti punta una pistola alla testa per farti essere felice or else, il Natale mi urta per la pressione sociale che pretende la (temporanea) disgregazione delle nostre famiglie elettive per costringerci a tornare a relazionarci con i nostri consanguinei, che ci piaccia o no. L’idea pervasiva è che, in questo periodo di grande gioia e bontà, i legami che ci siamo creati, le comunità che abbiamo scelto, gli spazi sicuri che ci siamo ritagliati non valgano nulla in confronto alla semplice linea di sangue che ci è capitata.
Nel caso peggiore ci ritroviamo seduti a tavola tra l’anziana zia bigotta che traccia i solchi intorno all’altare in ginocchio e il cugino prete che è finito sui giornali per un attacco transfobo a una certa personalità pubblica, di fronte allo zio complottista che è il più sveglio di tutti e l’altro cugino, che, a trent’anni suonati, tentava di strapparti i secchielli di lego di mano durante il trasloco e che rimpiangi di non spinto giù dalle scale fingendo che ti fosse sfuggito il secchiello di mano. Tutta gente, vuoi per questioni personali, vuoi per l’archetipo che rappresenta, normalmente eviteresti come la peste – in effetti, tutto il resto dell’anno lo fai – ma che la Magia del Natale ti costringe a sopportare solo perché ci condividi parte del corredo genetico.
Nel caso migliore, se riusciamo a sfangarci il parentame, rischiamo di ritrovarci soli perché il nostro sistema di sostegno e il piccolo mondo che ci siamo creati al di fuori dei consanguinei è incastrato coi propri parenti serpenti, e a me personalmente la cosa irrita.

Poi non nego che esista anche gente fortunata in cui le due sfere coincidono o sono quantomeno compatibili, eh! Se la vostra famiglia non è problematica, vi volete genuinamente bene e vi incontrate con piacere, by any means go for it!
Ma sto sentendo tanti di quegli amici o conoscenti stressati perché hanno problemi con i parenti, perché soffrono di nevrosi e questi incontri affollati pesano su quel lato, o che hanno legittime preoccupazioni di natura sanitaria per via del covid che sono ignorate per una stupida tradizione, e le loro voci sono silenziate perché “fa brutto” non passare il Natale con i parenti.
A questa mia impressione si aggiunge che l’emergenza globale e il precedente inasprimento dei contrasti politici hanno reso i grandi raduni di gente randomica se non per la parentela ancora più infiammabili, e stanno comparendo molti post, ad esempio rivolti a persone LGBTQ+, che danno consigli su come affrontare il periodo festivo mantenendo intatta la propria salute mentale.
Evidentemente il problema è reale e colpisce diverse persone. Se esistono post su come affrontare le feste, evidentemente si parte dal presupposto che siano un impegno che non si può ignorare, ed è una cosa assurda!

Ripeto: sono felice per le famiglie davvero armoniose, auguro loro tanti Natali da trascorrere gioiosamente insieme tra lucine, cenoni e regali. Ma ritengo sia fondamentale che nella sensibilità pubblica inizi ad esserci spazio anche per chi queste cose non le ha, o non se ne interessa. Normalizziamo non voler fare nulla a Natale. Normalizziamo dire: “Guarda, non ho molta voglia di venire al cenone, non me la sento”. Normalizziamo incontrare i parenti che ci vanno a genio, dire: “Mi farebbe molto piacere vederti, ma la presenza dello zio omfobo e del cugino prete renderebbe la serata spiacevole; ti va di prenderci un caffè in settimana?”. Normalizziamo che, se davvero vogliamo vedere qualcuno dopo tanto tempo perché gli vogliamo bene, esistono anche altri giorni.
Normalizziamo scegliere con chi condividere la gioia delle feste.

Per onestà intellettuale, aggiungo che, ovviamente, la mia visione delle feste è pesantemente influenzata dal rancore che nutro verso buona parte dei miei parenti. Sono nella posizione privilegiata di avere scuse plausibili per non incontrarli (i.e.: vivo lontano, passo il Natale con la Mater invece che col ramo paterno della famiglia), ma sentire la pressione sociale di farlo mi urta. Vedere miei amici sotto quella stessa pressione sociale – per quanto la loro situazione sia diversa, nel bene o nel male – mi fa arrabbiare. Magari c’è anche un pizzico d’invidia per chi invece ha una famiglia normale.
Però davvero, spostiamo la priorità dal concetto di famiglia al benessere delle persone che la compongono. E se qualcuno si offende, iniziamo a spostare il peso del giudizio sociale su di loro e sulle pretese che si arrogano sul tempo e la salute mentale altrui.

Tuesday, 17 August 2021

The Millennial War

Ho seri dubbi che qualcuno di noi avesse mai pensato che la guerra in Afghanistan avrebbe mai risolto qualcosa.
Non ricordo quali fossero i sentimenti iniziali a riguardo, visto che è stata poi eclissata dalla ben più famosa e controversa guerra in Iraq: di quella sono sicuro, era stata percepita fin da subito come inutile, pretestuosa e imperialistica da questa parte dell’Atlantico, ma l’invasione dell’Afghanistan era arrivata proprio sulla scia dell’11 settembre che, per un motivo o per l’altro, era stato il più grosso trauma collettivo della mia generazione in tutto l’Occidente. L’opinione pubblica americana era sicuramente interventista, ma in Europa non ricordo proprio: something something Al-Qaeda, talebani brutti e cattivi, povere donne in burka – tutto questo sicuramente, ma dell’intervento militare in sé non ricordo cosa si pensasse dalle mie parti.
Dicevo, quindi: dubito che qualcuno si fosse illuso che questa guerra avrebbe portato benefici né a noi, né tanto meno agli Afghani. Però vederla concludersi nel modo in cui si è conclusa è davvero deprimente, e noto che molti dei miei coetanei stanno esprimendo un simile senso di scoramento e impotenza.

Forse è proprio per il perverso Ouroboros che ne è uscito: vent’anni fa siamo partiti con uno Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo, e oggi, nel momento in cui gli Occidentali hanno levato le tende, ci siamo ritrovati con quello stesso Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo.
Cosa abbiamo fatto in queste due decadi? Qual è stato il senso di tutta questa violenza, della devastazione, delle morti a centinaia, della carneficina di un intero popolo? A cosa è servito?
Credo che sia così demoralizzante perché questa guerra è una metafora perfettamente calzante della vita di tutti noi, che nello stesso lasso di tempo siamo cresciuti e diventati adulti: appena abbiamo iniziato ad avere coscienza di come sia il mondo dopo l’infanzia, ce lo siamo visto stravolgere da eventi internazionali la cui portata era difficile da capire. Abbiamo lottato con unghie e denti per cercare di strappare un po’ di decenza, rispetto, empatia e calore dalla società intorno a noi. Abbiamo protestato contro governo dopo governo che erodeva la nostra base scolastica e distruggeva la nostra stabilità lavorativa. Abbiamo stretto i denti attraverso una serie infinita di crisi e difficoltà economiche. Abbiamo iniziato ad alzare davvero la voce sull’imminente crisi climatica. Siamo sopravvissuti allo stillicidio che, dagli Stati Uniti, il trumpismo ha avuto anche da noi. Pride dopo Pride, sciopero dopo sciopero, manifestazione dopo manifestazione, dibattito dopo dibattito. Abbiamo iniziato a vedere i risultati, a guardare la generazione dopo la nostra che finalmente poteva essere un po’ più libera, un po’ più se stessa, che cresceva non già più liberandosi di certi bigottismi e paraocchi, ma senza averli mai davvero indossati. Abbiamo sperato che la coscienza collettiva fosse maturata, che gli estremisti fossero solo una frangia che continuava a fare una guerriglia senza futuro con i suoi Family Day e i suoi slogan sui porti chiusi e i suoi Patti Lateranensi.
Ed eccoci qui, vent’anni dopo, ancora nella miseria più nera, ancora senza un futuro, ancora con crimini d’odio nelle strade senza che si facciano leggi per arginarli, con quell’accozzaglia di neofascisti, filonazisti, integralisti cristiani, ipocriti e terroristi domestici che sono praticamente alle porte di Montecitorio e Palazzo Madama, pronti ad aspettare il ricambio del Governo per impossessarsene perché la maggioranza del nostro popolo probabilmente vorrà quello. Il tutto mentre l’ambiente intorno a noi è sull’orlo della devastazione più totale.

Ora, lungi dal voler affermare che da noi le cose vanno male come in Afghanistan. Non abbiamo le bombe, le sparatorie le abbiamo in casi estremamente eccezionali (a parte gli Stati Uniti), non seppelliamo un caro ogni settimana e mezzo, i nostri estremisti devono sgusciare entro i limiti della legge invece che imporli loro, non abbiamo vissuto la guerra in quanto tale. Non voglio paragonare la svolta autoritaristica e nazionalista dei Paesi occidentali con la devastazione di vent’anni di conflitto miltiare.
Ma questo sentimento di aver combattuto per decenni solo per trovarci punto e accapo ce l’abbiamo anche noi. Forse è per questo che il triste, per quanto prevedibile, epilogo della guerra in Afghanistan ha toccato qualcosa in molti dei miei coetanei. È il senso d’impotenza di fronte a decenni di lotte e sofferenze solo per trovarci, se possibile, a un punto ancora peggiore, con la fine completa di qualunque speranza per il futuro. È pensare che questo stesso malessere esistenziale che anche noi proviamo, i nostri coetanei in Afghanistan ce l’avranno decuplicato, e in una maniera molto più concreta e devastante di quanto, si spera, noi potremo mai conoscere.
 
Siamo cresciuti nell’arco di tempo della guerra in Afghanistan, e la guerra in Afghanistan ha finito col trasformarsi nella triste metafora di tutti i Millennial del mondo.

Monday, 2 August 2021

Questione di fisica

Sorprendentemente, a me il fai da te piace. È una di quelle attività che sono estremamente riluttante a iniziare e rimando, rimando, rimando a più non posso, ma quando finalmente mi decido non solo ottengo buoni risultati, ma mi ci diverto pure. Trapano, martello, cacciavite, pinza sono tutti strumenti che so tenere in mano e usare senza problemi. E ne vado pure orgoglioso, probabilmente perché Il Guasto non è invece particolarmente bravo in questo, e saper fare meglio di lui qualcosa che, stereotipicamente, sarebbe più nelle sue corde mi dà soddisfazione a prescindere.
E poi c'è anche l'orgoglio di quando si presenta un qualche problema e io mi scopro in grado di risolverlo ragionandoci sopra e applicando le conoscenze apparentemente randomiche che ho in testa.

Case in point: oggi ho preso in mano il trapano per appendere diversi oggetti in giro per casa: attaccapanni in corridoio e in bagno, una mensolina in plastica nella doccia per tenere su shampoo e saponi vari, e poi la sbarra con i ganci per appendere gli utensili da cucina più grossi (mestoli, schiumarole eccetera). Nulla di particolarmente impegnativo, tranne che per l'intervento in cucina, visto che era sulle piastrelle. Tecnicamente lo era anche quello nella doccia, ma lì ho potuto trapanare sulla fuga e cavarmela così.
In cucina, invece, sulle prime ho avuto difficoltà a lavorare perché, in primo luogo, per uno dei buchi ero proprio all'angolo con le conseguenti difficoltà di manovra, e poi perché la mattonella è scivolosa e dura da scalfire.
Quando poi ho postato su Instagram in molti mi hanno suggerito la soluzione in questi casi: un pezzetto di nastro isolante che fa attrito e tiene la punta ferma, e passa la paura. Non avendoci pensato, invece, ho ripescato le mie conoscenze di fisica dal liceo: a parità di lavoro, minore è la superficie su cui ci si concentra e maggiore è la forza che vi si applica. Quindi ho sostituito la punta del trapano con una più piccola che, senza difficoltà, ha prima sbeccato e poi forato la piastrella, dandomi la traccia per intervenire con la punta delle dimensioni adatte alle viti. E voilà, in men che non si dica i tasselli sono entrati nel muro, ho avvitato la barra al suo posto e la cucina è diventata ancora più funzionale.

Sono cose sciocche di cui inorgoglirsi? Forse, anche perché parte di me si sente così in risposta agli stereotipi che solitamente si hanno dei gay (quando cerco di avere un rapporto neutro nei loro confronti: è valido sia distaccarsene, sia abbracciarli, sia zigzagare la cosa). Forse perché, mentre Il Guasto lasciava i quadri appoggiati a terra per mesi prima di prendere in mano il martello (e la Mater non lo faceva lei stessa per pura testardaggine), mi fa sempre piacere one-upparlo. Forse perché prendere il trapano e bucare il muro (a maggior ragione le piastrelle!) è una sfida alla mia ansia paralizzante da perfezionismo, perché sembra qualcosa di irreparabile che se a storto è un casino, mentre poi ho le abilità per mettere i tasselli perfettamente dritti e ricordarmelo a lavoro fatto è una bella sensazione.
Però è bello riuscire a fare queste cose, specie quando si applicano le proprie conoscenze teoriche che, nel sentire comune, sono spesso contrapposte alla manualità.

Tuesday, 22 June 2021

Sbattezzo

Oggi ho scaricato e stampato il modulo per lo sbattezzo; domani andrò a spedire la raccomandata. Modulo e istruzioni si trovano comodamente su questa pagina del sito dell’UAAR, l’Unione degli Atei e Agnostici Razionalisti.
Non l’avevo fatto prima un po’ per pigrizia, un po’ per dimenticanza, un po’ perché non cancella né il fatto che io sia stato battezzato senza poter obiettare, né l’irrilevanza che questo battesimo ha poi avuto nella mia vita. Una parte di me lo riteneva un gesto superfluo, forse un po’ infantile, come bloccare qualcuno dopo che smetti di frequentarlo, o forse addirittura una resa, un mio riconoscere che questo battesimo mai cercato un qualche segno l’ha lasciato, sulla mia vita, se lo riconosco il tanto da volerlo “disfare”.
Ma se, arrivati al 2021, la Chiesa punta ancora i piedi e pretende di interferire con la vita istituzionale del mio Paese sventolando un concordato stretto quasi un secolo fa con letteralmente il governo fascista, la cosa smette di essere irrilevante. Richiedere lo sbattezzo non cambierà nulla nella mia vita quotidiana, non cambierà che in una chiesa (l’edificio) ci metto piede solo da appassionato di storia dell’arte, ma voglio prendere anche formalmente le distanze dalla Chiesa, rescindere ogni legame anche solo puramente ipotetico con un’istituzione che va contro ogni insegnamento della figura che finge di venerare.

A prescindere da quanti cavalli io abbia in questa corsa specifica, è inaccettabile che la Santa Sede anche solo pensi di potersi permettere di interferire nella legiferazione di uno Stato sovrano e laico. A maggior ragione quando si tratta di diritti umani.
Normalmente non faccio proselitismo, non ficco più il naso nella religiosità altrui, non ne giudico le scelte di vita, ma a questo giro devo dirlo: IO MI SBATTEZZO; FATELO ANCHE VOI. Se già non frequentate la chiesa, se già siete indifferenti, se già credete ma siete consapevoli che, dovesse anche esistere, Dio non è quest’entità maligna che perpetra l’oppressione, se già siete passati a qualche altra religione ma non avete ancora espletato questa formalità, scaricatevi il modulo, stampatelo, compilatelo e speditelo alla parrocchia di riferimento.
Non è una questione di fede o spiritualità – quelle, se le avete, non spariranno con un pezzo di carta. È una questione meramente politica: un’improvvisa ondata di richieste di sbattezzo sarebbe un segnale preciso che no, Santa Sede, il mio Paese non si tocca. Giù le mani. Ed è raro che mi salga il pattriotismo, ma a questo giro non posso fare altrimenti: il tempo e i soldi che spreco a spedire una raccomandata non sono nulla di fronte a vedere la mia dignità di cittadino laico di uno Stato laico calpestata così da un’istituzione che chiaramente ha dimenticato che ci sono certi limiti che non può più permettersi di oltrepassare.

Saturday, 1 May 2021

A Millennial’s love letter to skinny jeans

Giusto oggi, grazie a un video di Mina Le, ho scoperto che c’è una faida tra i milennial e gli zoomer circa la forma dei jeans. Inevitabilmente, un po’ come vent’anni fa era per i jeans a vita alta, la moda è andata avanti e gli skinny sono visti dalle nuove leve come datati, indossati da quelli che ai miei tempi erano chiamati “i grezzi”, ormai un residuo di epoche passate. E a quanto pare la cosa è diventata una vera e propria guerra social con botta e risposta piuttosto brutali da entrambi i campi.
A parte che trovo assurdo che millennial e zoomer lottino tra loro quando c’è il nemico comune che sono i boomer e i vecchi gen-x (o forse non voglio accettare che i gggiovani mi vedano per il vecchio bacucco che sono), mentre ascoltavo le opinioni di Mina, che è una zoomer, mi sono reso conto che il succo del discorso è che gli zoomer hanno verso i jeans skinny lo stesso disturbo da stress post-traumatico che la mia generazione ha verso i jeans larghi e a vita bassa. Ovvero: prova a sopravvivere alle medie e superiori indossando quella roba.
E pur con le differenze del caso, capisco perfettamente il sentimento: in alcune circostanze, i jeans skinny non sono il massimo della comodità – specie se, come per i pantaloni larghi, si tende verso l’estremo del trend. In più, i ragazzini sono mostri, ed essere costantemente esposti al giudizio e ludibrio per quei capi porta inevitabilmente a odiarli.
 
A part quello, però, i jeans baggy degli Anni Duemila sono stati un incubo già solo a livello logistico: la combinazione tra larghezza, mancanza di struttura e vita bassa faceva sì che sui miei fianchi magri non stessero su nemmeno con un miracolo. Il cavallo penzolante peggiorava ulteriormente la situazione, così come le zampe d’elefante, che s’impigliavano di continuo sotto i tacchi delle scarpe e tiravano il tutto ancora più giù. A dare il colpo di grazia, la stupida moda delle cinture militari, le cui fibbie non reggevano nulla, specie stando sempre in tensione all’altezza del bacino, col risultato che la cintura cedeva lentamente e i pantaloni continuavano ad aver bisogno di essere riaggiustati ogni tre secondi. Giuro, se ripenso alle medie e ai primi anni delle superiori, il ricordo è di una lotta costante e continua contro i jeans.

Ma peggio ancora, quei pantaloni brutti, quelle felpe enormi, quelle magliette sformate cadevano malissimo su un corpo che la pressione sociale dei miei coetanei mi aveva insegnato a odiare. Già ero minuto, in tutta quella stoffa inutile scomparivo. E sempre la stessa pressione sociale mi toglieva qualunque alternativa, perché i vestiti stretti erano considerati “grezzi”, da sfigati, se non addirittura – tenetevi forte – da finocchi. Non scherzo, il disprezzo che avevo sentito nella voce di chi una volta mi aveva detto che i pantaloni stretti sono “da frufrù” aveva lasciato un’impressione profonda nel me adolescente, che ancora nemmeno si rendeva conto di esserlo davvero, “frufrù”.

Onestamente, passare ai jeans skinny e, in generale, all’abbigliamento form-fitting è stata una vera rinascita. E non solo perché, finalmente, le nuove taglie più strette mi stavano, ma proprio a livello concettuale. E sì, è concisa con due cose fondamentali: da una parte, con la mia presa di coscienza sulla mia sessualità, quindi sicuramente c’è anche stato un elemento di riappropriazione dei “pantaloni da frufrù”; dall’altra, col mio trasferimento via dalla Sardegna, che mi ha fatto associare quella sensazione di libertà alla nuova moda (per quanto ai tempi fossi più orientato al goth andante che a ciò che succedeva nel “mainstream”).
Ma principalmente era proprio l’idea che quei vestiti mi permettessero di mettermi in mostra senza però esagerare. È significato accettare e celebrare il mio corpo, vedere la snellezza come un punto di forza da valorizzare, non come qualcosa di cui vergognarmi, laddove percepivo la moda loose come un costante nascondermi.
I jeans attillati sono stati il mio momento di empowerment, ed è per questo che li amerò sempre e non intendo rinunciarvi, anche a costo di farmi dare del “grezzo” (o qualunque sia l’equivalente attuale del termine) dalle nuove generazioni. Lascio che abbiano i loro momenti di empowerment sartoriale e mi tengo i miei.

Friday, 16 April 2021

Something something social media

Potrei aver appena disinstallato Twitter dal telefono. Ops.
Sono ancora lì, profilo e tutto, e ho ancora l’accesso attivo dal computer, ma credo di aver bisogno di un bel periodo di detox. Che poi, per anni Twitter l’ho avuto ma l’ho a malapena usato; poi Trump si è preso il covid e mi sono fiondato lì per partecipare alla Schadenfreude collettiva. Poi ci sono state le elezioni americane, quel magnifico cassonetto in fiamme, e sembrava che non ne avessi mai abbastanza. Ho iniziato a twittare i miei “snarky one-liners”, ho sguazzato in quello di Mrs. Betty Bowers, America’s Best Christian, di Bette Midler e di vari altri, e pian piano è diventato l’ennesimo vizio, peggio delle app di dating.
Il problema è che come ambiente è fondamentalmente tossico, un po’ come Facebook, che frequento sempre meno, ma per certi versi ancora più esacerbato, forse per la limitazione dei caratteri con cui esprimersi.
Oh, e i cancel party. Mi si era rivoltato un pochino lo stomaco già per quello di Armie Hammer prima di scoprire che c’era del merito dietro; poi quello perfettamente immotivato a Tom Ellis (solo che un cancel party solo italiano lascia il tempo che trova); ora Lindsay Ellis, che è stata l’ultima goccia. Un paio di conversazioni sono degenerate in insulti e parolacce già alla prima risposta, mi è stato dato del subumano per aver fatto le condoglianze alla regina Elizabeth perché le è morto il marito… Quindi niente, per quanto mi piaccia andare a blastare in tempo reale i conservatori americani o i peggiori politici nostrani, mi sono reso conto io stesso di quanto già poche settimane di frequentazione abituale a novembre mi avessero reso più aggressivo e spietato: preferisco fermarmi prima che la cosa mi sfugga del tutto di mano.
Che poi, meno Twitter significa più Instagram, che non è molto meglio. Solo che il medium visuale si presta meno al flame gratuito (chi ha voglia di leggere le caption anyway?) e i commenti sono un filo più macchinosi, il che rende fruire di un feed infinito di contenuti meno tossico. Con le dovute precauzioni: è da qualche giorno che medito di fare l’ennesima pulizia di account di bellocci che non postano più che le solite, trite e ritrite thirst trap. Non c’è salvezza da nessuna parte.

Per quanto riguarda i crociati delle cancellazioni, comunque, trovo molto stupido ritrovarmi colpito dal fuoco amico, ma ancora non penso che pretendere responsabilità da parte degli altri sia una cosa intrinsecamente negativa. Poi c’è gente che usa questo ideale come scusa per dar sfogo alla propria aggressività ed evitare le ripercussioni morali delle proprie parole, ma lì c’è poco da fare. È ben diverso dalla gente la cui stessa ideologia consiste nel nuocere agli altri. Quindi no, questa lagna che si sta cercando di zittire tutto e tutti continua a essere una grossa scemenza.

Quanto a Twitter, ho silenziato le conversazioni in questione, fatto un ripulisti di risposte inutili, donato due spicci al GoFundMe della ragazza trans che mi ha insultato (per la soddisfazione che sappia che alla sua transizione ha contribuito anche un subumano che ha fatto le condoglianze a Elizabeth II; si può essere petty anche facendo del bene), bloccato di nuovo Rose McGowan per non essere tentato di incazzarmi per le stronzate che spara, e adesso penso che farò ciò che fa la gente sana e andrò solo a sbirciarci un po’ di porno ogni tanto. Per quanto abbia bisogno di una valvola di sfogo in questo periodo, ho più bisogno di ridurre la tossicità dell’ambiente che mi circonda.

Wednesday, 31 March 2021

Classifica musicale generale, 51-100 – 2021

Nelle puntate precedenti:
2018;
2019;
2020.

Classifiche generali (1-50):
2016;
2017;
2018;
2019;
2020.

Classifiche annuali:
2017;
2018;
2019;
2020.

1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 80? (Fever Rey)
• Galeotto fu Dark e chi ne scelse la colonna sonora.
2. Prima canzone ascoltata della numero 72? (Anette Olzon)
• Come solista Lies.
3. Testo preferito della numero 83? (Pure Reason Revolution)
Fight Fire.
4. Album preferito della numero 99? (Atrox)
Contentum.
5. Canzone preferita della numero 63? (Elusive)
• Beh, sono di parte: Gemini.
6. Album peggiore della numero 100? (Hearts Of Black Science)
The Ghost You Left Behind è ancora un filo acerbo rispetto a ciò che è arrivato dopo.
7. C’è una canzone della posizione numero 89 che senti molto tua? (The xx)
• Non riesco più ad ascoltare Together senza ripensare alla morte di Murka.
8. Bei ricordi legati alla numero 65? (Rag’n’Bone Man)
• Tutte le volte che ho fangirlato il voice-over di Natalie Dormer sul trailer di Mass Effect: Andromeda, in cui è stato usato un bellissimo mix di Human (purtroppo mai pubblicato per intero).
9. Quanti album possiedi della numero 55? (Alcest)
• Ho i primi tre più lo split EP con i Les Discrets.
10. C’è una canzone della numero 95 che ti rende felice? (Sugababes)
• Mi rende felice che finalmente Flatline sia ufficialmente una canzone delle Sugababes!
11. Canzone preferita della numero 90? (Nero)
Into The Past, per riallacciarmi al tema The Great Gatsby dei The xx.
12. Canzone della numero 60 che ti piace di meno? (Sharon Den Adel)
• Non m’interessa se è un singolo di beneficenza o cosa, ma Het Meneer Konijn Lied è parecchio cringe.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 56? (Gåte)
• Una volta la Bloempje mi ha regalato un loro singolo introvabile per Natale!
14. Canzone della numero 88 che associ a un momento o persona? (The Bryan Ferry Orchestra)
• Per una serie di associazioni mentali piuttosto contorte, la loro musica mi fa pensare a Francisco.
15. Quale canzone della numero 69 ti emoziona di più? (Ala.ni)
Darkness At Noon che, diciamocelo, è stata scritta precisamente per emozionare e fa centro ogni volta.
16. Quante volte hai visto la numero 85 live? (Carice Van Houten)
• Nessuna, ma magari! Chi devo sacrificare al Dio della Luce perché ciò accada?
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 73? (A Perfect Circle)
Orestes, duh. Sono pur sempre una fangirl degli Evanescence.
18. Album preferito della numero 61? (M.I.A.)
• Sono molto indeciso tra Matangi e AIM.
19. Prima canzone ascoltata della numero 64? (Loreen)
• Credo fosse In My Head: con grande vergogna, ancora non seguivo l’Eurovision ai suoi tempi, quindi niente Euphoria.
20. Canzone preferita della numero 77? (Morning Parade)
• Questa è facile: Under The Stars. Ma un po’ tutti i singoli del primo periodo contano.
21. Album preferito della numero 66? (Loïc Nottet)
Sefocracy è nettamente superiore a Sillygomania.
22. Prima canzone ascoltata della numero 97? (Todesbonden)
Ghost Of The Crescent Moon, ai tempi quando ancora si parlava con certa gentaglia e certa gentaglia ancora ascoltava buona musica.
23. C’è una canzone della 68 che trovi catartica? (We Are The Fallen)
St. John: ci ho anche scattato una foto per esorcizzare il lockdown dell’anno scorso.
24. Come hai scoperto la numero 71? (Portishead)
• A parte le canzoni come Glory Box, Roads e Sour Times che un po’ tutti abbiamo sentito da qualche parte senza saperne titolo o autore, Pescy li spammava in giro nel suo periodo indie, poi Claudio mi ha detto che valeva la pena approfondirli.
25. Canzone della numero 76 che ti rende felice? (The Birthday Massacre)
• No, ma mi renderebbe felice se si rendessero conto che fare ancora gli adolescenti a quarant’anni suonati è un filino ridicolo.
26. Canzone preferita della numero 53? (Brooke Fraser)
Je Suis Pret! Ma un po’ tutto Brutal Romantic.
27. Album preferito della numero 52? (Woodkid)
• Sono ancora troppo affezionato a The Golden Age, sebbene S16 sia altrettanto valido.
28. Prima canzone ascoltata della numero 82? (After Forever)
• Non ricordo, ma quasi sicuramente qualcosa dal self-titled. Probabilmente Cry With A Smile.
29. Testo preferito della numero 58? (Beyoncé)
• La fantastica introspezione empowering dei testi da strong independent woman di Lemonade. Naturalmente sono sarcastico: è Save The Hero.
30. Quante volte hai visto la numero 67 live? (Rose Chronicles)
• Nessuna, e ormai quella nave è salpata e bella che affondata.
31. Prima canzone ascoltata della numero 94? (Swallow The Sun)
• Sono piuttosto sicuro che sia stata Cathedral Walls: ricordo ancora la gioia viscerale di sentire finalmente Anette non sprecata in qualche porcata dei Naituiss (interessante che sia gli After Forever sia loro siano slittati in posizioni con la stessa domanda dell’anno scorso.
32. Album della 62 che ritieni sottovalutato? (Octavia Sperati)
• L’esistenza di questa band è sottovalutata!
33. Canzone peggiore della numero 79? (Versailles)
• Tutto ciò che hanno fato dopo tipo il 2010 nella mia memoria si mescola in un rumore indistinto di autoplagio.
34. Prima canzone ascoltata della numero 84? (Tactile Gemma)
Blackberry Jam; come dimenticarla?
35. Album preferito della numero 78? (Trillium)
Tectonic mi è piaciuto più del debutto.
36. Quante volte hai visto la numero 92 live? (Freddie Dickson)
• Per ora nessuna.
37. C’è qualche canzone della 86 che consideri un guilty pleasure? (Rose McGowan)
• Considerando il personaggio, il fatto stesso di ascoltare Rose McGowan è borderline un guilty pleasure di questi tempi.
38. Come hai scoperto la numero 98? (Dama)
• Grazie alla gentaglia che non verrà nominata. Ha fatto anche cose buone.
39. Album preferito della numero 57? (Abney Park)
• In parte è affetto perché è quello con cui li ho scoperti, ma Lost Horizons.
40. C’è qualche canzone della numero 81 che ti mette nostalgia? (Tori Amos)
Reindeer King mi fa ripensare allo shoot con Lyrio.
41. Canzone della 91 che non ti piaceva ma adesso ami? (Björk)
• Non credo: ho una curva di gradimento costante con lei.
42. Testo preferito della posizione numero 74? (Amanda Somerville)
Blue Nothing.
43. Canzone più emozionante della numero 96? (Sigur Rós)
• Continuo a fare spudoratamente l’adolescente gay degli Anni Duemila e nominare Hoppípolla.
44. Canzone della numero 75 che ti rende felice? (The Romanovs)
Nice Day.
45. Canzone preferita della numero 59? (The Crest)
My War/Broken Glass.
46. Primo album ascoltato della numero 87? (:LOR3L3I:)
Hold On To Silence, oggi rinato dalle ceneri sotto forma di The Demo Collection, per ora l’unico, ma pare che finalmente Heike abbia messo da parte le teorie del complotto per dedicarsi seriamente alla musica.
47. Membro preferito della numero 54? (White Sea)
• Morgan, duh.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 93? (Blanche)
• Ovviamente City Lights all’Eurovision.
49. Album che possiedi della numero 70? (Roniit)
• Ho sia Roniit sia In The Shadows. Suppongo di avere anche XIXI… da qualche parte. A Trieste. Che aspetta dall’anno scorso che ritorni e lo spacchetti. Se i coinquilini non me l’hanno perso.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 51? (Leandra)
• Quando ho iniziato il progetto Morphine.

Sunday, 21 March 2021

Genitore uno e gen– I can’t even

Io… io non ce la faccio. I can’t. Davvero. I can’t even.

La filippica antivaccinista c’è stata, a colpi di “Adesso sperimenteranno sui bambini – capisci?! Vogliono usare i bambini come cavie!”, ma non è stata il piatto forte della telefonata. Il vero motivo per cui il Guasto voleva parlare con me più a lungo, con più calma e con una linea più stabile dell’internet mobile turco a bordo di un pullman era per chiedermi di raggiungerlo lì in Turchia perché vuole presentarmi un paio di ragazze.
Che di nuovo, pover’uomo, non è colpa sua, sono io che non ho le forze di affrontare la battaglia che sarebbe un coming out con lui e il resto della sua famigliola bacata (ho un cugino che è finito sui giornali per le sue esternazioni omotransfobiche, btw). E capisco che magari spera semplicemente di infilarmi a lavorare lì e sistemarmi così, ché l’età avanza e avrà paura di lasciarsi dietro un figlio che è un casino. Ma che visione distorta di me e/o del mondo deve avere se pensa che la Turchia possa offrirmi un futuro e una qualità della vita soddisfacenti?
Fra l’altro, anche tralasciando le differenze culturali che renderebbero il mio benessere psicologico in Turchia alquanto improbabile, mi urta che non mostri il minimo riguardo nemmeno per la mia salute fisica nel breve termine. Cioè, per andare lì dovrei fare almeno due scali, più tutti i trasporti pubblici di terra, con possibilità di contagio che, tampone o non tampone, si moltiplicano. E una volta lì, “Al massimo te ne stai in casa”, grazie tante, con lui che a quanto pare fa il pendolare in pullman e rischia di portarmi il virus.
Ma è scemo? È demenza senile? Semplicemente non si rende più conto di come si faccia a stare al mondo?

Alla fine, ho deragliato il discorso e chiuso la chiamata chiedendogli di mandarmi le foto di queste fantomatiche ragazze e di farmi un video in cui mi mostra il suo appartamento. Questo l’ha messo di buonumore perché ho finto di interessarmi alla sua vita lì e anche per quest’anno ce la siamo scansata.
Se non altro la costernazione comune mi ha fatto passare l’arrabbiatura con la Mater: perfino lei ha ammesso che, dei due, quello più sfortunato sono io, perché da un marito si può sempre divorziare, da un padre no.

Friday, 19 February 2021

Petty vs petty

È partita come una cosa apparentemente innocua. Mi sono svegliato, ho dato uno sguardo ai social media e ho trovato un messaggio vocale del moroso della Ciospa. La cosa non mi ha sorpreso più di tanto, ci siamo sentiti cordialmente svariate volte da quando io e lei abbiamo litigato. Questa però è stata la prima volta in cui l’ha nominata o ha menzionato la situazione tra noi.
Il motivo è che hanno letto la notizia di una brutale aggressione omofoba a Trieste e volevano assicurarsi che la vittima non fossi io e che stessi bene. Entrambi.
Naturalmente, la prima cosa che ho fatto è stato sfregarmi le mani e ho colto al volo l’occasione di essere petty: ho mandato un vocale a lui ringraziandolo tanto del pensiero, rassicurandolo di non essere proprio a Trieste, ringraziandolo di nuovo perché non sapevo nulla della notizia e almeno così avrei potuto sentire se era qualcuno che conosco (spoiler: purtroppo sì), e chiedendogli come stesse lui, come andasse il suo lavoro, come procedesse la sua vita. Rigorosamente al singolare, con parole ben calibrate affinché, se lei avesse ascoltato, questa distinzione fosse evidente.

E niente, sono corso a autocongratularmi, darmi pacche sulla spalla per lo scherzone ben riuscito e condividerlo con alcuni amici informati dei fatti, ma la risposta che ho ottenuto è stata inaspettata: a quanto pare, mi era sfuggito un piccino piccino sebbene cruciale dettaglino.
Almeno cinque persone diverse (più la Mater quando le ho illustrato la cosa tramite uno scenario ipotetico tra lei e una sua ex amica) mi hanno fatto notare che, se fosse stata davvero preoccupata, avrebbe messo da parte qualsiasi scusa – orgoglio, rabbia, rancore, paura che le urlassi dietro – e mi avrebbe contattato direttamente.
Ribadisco, lì per lì quest’idea non mi aveva minimamente sfiorato perché, nella mia mente, non c’è nessuna circostanza in cui lei dovrebbe farsi viva. Però un po’ è vero. Posta così, l’intera faccenda sembra molto performativa: non ha cercato di accertassi che io stessi bene, ha fatto in modo che io sapessi che ha cercato di accertassi che io stessi bene. Wow. Poi qualcuno criticava Margaery Tyrell chiamandola ipocrita.
Col senno di poi, se davvero le fosse interessato di come stessi ma per qualsiasi motivo non avesse voluto cercarmi direttamente per non “riaprire vecchie ferite” (cit.), avrebbe potuto mandare qualunque altra conoscenza comune meno sgamabile di suo moroso, chiederle specificamente di non fare il suo nome e farsi riferire la risposta. Ecco, così avrebbe fatto l’angelo custode che mi veglia da lontano ma non vuole rivelare la sua presenza.

Fatta così, né di nascosto né apertamente, in effetti sembra un po’ una performance. Che poi, la prima cosa che quasi tutti hanno commentato è che fosse una scusa per sondare il terreno – perché dai, cosa sono, l’unico finocchio da pestare a Trieste? Non lo so e non m’interessa: onestamente, l’unica cosa che mi urta è di aver sprecato dell’ottima pettiness gratuita rendendola invece una risposta giustificata. Uff.
Ps: mi chiedo cosa avrebbe commentato se fossi stato davvero io la vittima. Probabilmente che me l’ero cercata perché cosa mi aspetto che succeda stando sulle app di dating? (Già, era proprio lei quella di quel post). Bah.

Sunday, 27 December 2020

Counting my blessings

Sono uno che odia profondamente la gara della sofferenza: sentirmi dire che c’è chi sta messo peggio di me non mi dà nessuna consolazione, non risolve i miei attuali problemi e, anzi, mi fa sentire delegittimato nelle mie emozioni. Il che aggiunge, al disagio che già provo per il problema in sé, rabbia nei confronti di chi usa il luogo comune.
A volte, però, non guasta rimettere le cose un po’ in prospettiva quando il paragone nasce spontaneamente – perfino quando questa arriva dritto dalle app di dating.

Dato che la Sardegna è praticamente il deserto, specie con i filtri stringenti che metto io, mi capita di scrollare l’elenco di PlanetRomeo fino ad arrivare non solo in zona Roma ma, dato che l’aera di ricerca non è una linea ma un cerchio, addirittura in Tunisia e Algeria.
Ho notato che, come nelle varie zone d’Italia, anche dall’altra parte del Mediterraneo i profili tendono ad avere motivi ricorrenti su base geografica: quelli tunisini e algerini sono la non-impersonazione di celebrità. In sostanza, stando all’elenco di Romeo, il Nordafrica sarebbe pieno di adoni da calendario, attori più o meno famosi, modelli di Vogue Hommes e altri esemplari di manzi che improvvisamente hanno deciso di andare in vacanza da quelle parti, imparare la lingua locale e… oh, no, se non altro buona parte di questi utenti scrive, in inglese o francese, che la foto non è loro.

Inutile dirlo, i profili fake sono tutt’altro che un fenomeno unico di lì, eh: qui in Sardegna una volta ho trovato un presunto Matthew Djordjevic; a Trieste mi è capitato un Richard Madden che, quando gli ho dovuto spiegare le frecciate a tema Game of Thrones (non sapeva nemmeno chi fosse il suo “prestavolto”!), mia ha assicurato di essere “più bello” di Richard (“E chi sei, allora, Natalie Dormer?”).
Ma ci sono differenze: per prima la diffusione capillare, per seconda l’ammissione immediata di non essere loro in foto. Perché solitamente, quando uno si finge più o meno maldestramente un quarto di manzo, lo scopo dell’illusione è farsi mandare nudes dal malcapitato di turno: sapere già in partenza che la foto è falsa non dispone alla fiducia.
Quindi non posso fare a meno di chiedermi: cosa li spinge a fare una cosa del genere?

Di sicuro il bisogno di anonimato: date le circostanze socio-politiche e legali, dichiararsi è impossibile. E no, non è un’esagerazione o uno stereotipo inventato da noi Occidentali: ho chattato con un ragazzo tunisino e se n’è lamentato ampiamente.
Il compromesso fra nascondersi e assecondare il desiderio è quindi entrare in chat nella maniera più anonima possibile. Ma per quello basterebbe un petto decapitato, un paesaggio o qualche altra immagine randomica, come è costume diffuso qui in Sardegna. (L’opzione di non mettere nulla è più adatta a Grindr, dove il filtro foto è limitato al pacchetto premium, mentre PlanetRomeo permette di non far comparire in elenco i profili senza foto anche in versione base).
Ciò però non spiega un trend così specifico – la foto altrui, ma subito smentita. Purtroppo, il mio conoscente aveva come immagine un disegno esoterico, quindi non ho potuto chiedergli come ragionino i finti manzi magrebini e posso solo tirare a indovinare.
 
Certo, un bell’uomo cattura lo sguardo più dell’ennesimo tramonto sul mare e attira, quindi, più visite. Ma né quello né la semplice voglia di farsi mandare nudes, che sicuramente è un altro fattore, bastano: come dicevo, i finiti Richard Madden nostrani fanno orecchie da mercante quando si fa notare la loro menzogna, men che meno ammetterebbero subito di non essere loro in foto.
Temo che in questo caso si tratti del desiderio di essere qualcun altro – o, più specificamente, il desiderio di non essere se stessi. Forse più ancora che voler attirare gli sguardi o fingersi alti, col fisico scolpito e i lineamenti cesellati, la foto profilo dichiaratamente falsa è una fantasia, un what could have been. È un desiderio di evasione, di essere un uomo più libero e meno odiato – perché subire tutta questa repressione, alla lunga, avvelena anche lo spirito più anticonformista che lotta per sentirsi in pace con se stesso.
Normalmente, i fake mi fanno arrabbiare – principalmente perché mi sento insultato nell’intelligenza se pensano che ci caschi. In questo caso, però, mi suscitano empatia: dev’essere davvero brutto vivere col desiderio inconscio non di avere un’esistenza migliore, ma di essere proprio qualcun altro, finire con l’assorbire un tale rifiuto verso se stessi che l’unica soluzione è proprio annullarsi e immaginarsi una persona del tutto diversa – perché di nuovo, la finzione non è a danno del visitatore, per lui è chiara e tonda.

Come dicevo, che gli altri abbiano problemi peggiori non risolve i miei, ma a volte rimettere le cose in prospettiva aiuta ad apprezzare meglio ciò che si ha. Per quanto anch’io abbia problemi di autostima, non sono così radicati da farmi immaginare di essere una persona del tutto diversa, e in questo sono fortunato. Sono fortunato per essere cresciuto in un ambiente in cui sì, essere un adolescente gay era difficile, ma non mi ha lasciato traumatizzato così profondamente.

Friday, 20 November 2020

Supplemento al discorso sulla mascherina a rete

Inizialmente era nato come edit per aggiornare il precedente post in cui ne parlavo, ma dato che ci sono stati ulteriori sviluppi, ennesimo post su quanto fa schifo Laña del Rey, y'all. 
Andiamo con ordine.
 
Nell'edit del 3 ottobre, notavo come, a quanto pare, quella della mascherina a rete non fosse solo uno styling opinabile per lo shoot, visto che la nostra cara Laña l'ha indossata anche a un meet and greet con i fan.
Vero, il virus non sopravvive più di due-tre giorni sulla plastica, troppo poco per far ammalare Laña, quindi a lei che frega; ma a differenza sua, i fan non sono all'80% non biodegradabili, quindi perché metterli a rischio solo per fare la fashionista edgy?
Con buona pace della controargomentazione al mio rant precedente che le copertine delle riviste non sono indicative delle scelte stilistiche e di vita delle persone ritratte.
 
17 novembre: un mese e mezzo dopo, Laña si sveglia dal letargo e twitta con sufficienza in risposta a un articolo che ne parla, dicendo che la mascherina aveva dentro uno strato di plastica, cosa che gli stilisti fanno comunemente di questi tempi. Tralasciando le ovvie difficoltà logistiche di inspirare attraverso un foglio di cellophane, a me risulta che espirando la plastica si appanni, cosa che decisamente non accade nella foto. Che si immagini di avere plastica in quell'area sarebbe anche un erorre scusabile, considerando che è abituata ad averne a quintali nelle labbra, ma purtroppo quella non protegge i fan dal virus.
Ciliegina sulla torta, un fan le fa notare che ci ha messo un po' troppo, a rispondere alla controversia, e lei ribatte che è troppo impegnata a scrivere non uno ma ben due album e donare milioni in giro per la nazione. Roba che Laña, tesoro, in primo luogo tiratela di meno, in secondo senza offesa, ma nel tuo caso rispondere ai tweet è tempo meno sprecato che a scrivere quella porcheria che chiami musica.
 
19 novembre: Un fan pubblica una foto con lei. Indovinate chi dei due non indossa la mascherina.
Ci sono altri dubbi che siano solo sfortunate coincidenze e in realtà sia in buona fede e prenda la pandemia sul serio?

E niente. Ci sono momenti in cui quasi quasi inizio a pensare di avere torto. Di essere io quello che non capisce Laña, il suo inestimabile valore come cantautrice, la finezza e intelligenza del personaggio che si è creata, e lo splendore della persona che è a riflettori spenti. È difficile essere una delle poche persone che vedono solo una donna priva sia di talento sia di qualsiasi valore morale e personale mentre il resto della critica è abbagliata dalla sua luce sfavillante e dalla magnificenza della sua opera.
Poi magari è vero: magari in realtà è un colossale troll che ci sta prendendo tutti per il culo, e io che mi ci arrabbio sono altrettanto pollo di quelli che ci cascano con tutte le scarpe nel credere che sia un'artista di talento.
Del resto, qualche settimana fa ho interrotto bruscamente un cauto flirt (e ogni comunicazione) con un suo fan quando mi sono reso conto che, dopo tre giorni di discussione accesa, stava semplicemente tirando roba a caso per vedere cosa restava appiccicato e cosa no perché tanto “non sappiamo nulla, tutto è una contraddizione, niente è serio”: chiaramente, finiti gli argomenti è passato a trollarmi parafrasando la bio di Twitter di Laña.
Ecco, magari Laña del Rey e i suoi fan più accaniti sono come The Lady di Lori Del Santo, sulla cui vera natura le persone si interrogano tuttora: un autentico cassonetto in fiamme o una sottilissima e intelligentissima satira del mondo delle celebrità?
Nel dubbio, per me Laña resta quella maledetta stronza che ha lavato due gattini col bagnoschiuma.

Tuesday, 10 November 2020

No holds barred

Possiamo raccontarcela quanto vogliamo, ma essere un gay di destra significa che il tuo odio per gli altri è più forte del tuo amore per te stesso.”
Come da post precedente, la vittoria di Biden alle elezioni americane mi ha ringalluzzito parecchio e in questi giorni non la sto mandando a dire agli scagnozzi di destra che mi capitano a tiro. Questo è un commento che ho fatto su un articolo in cui si parlava di alcune povere vittime di Sindrome di Stoccolma gay storicamente conservatori, e la risposta non è tardata (capitalizzazione e punteggiatura liberamente corrette da me).
“Ma non è vero! Voi continuate a confondere ‘essere gay e pensarla su temi geopolitici, di interesse nazionale ecc’ come la destra con ‘essere un gay che la pensa come la destra italiana attuale sui temi gay’!”
Ora, avrei potuto limitarmi a far notare in maniera concisa che poco importa se sei in disaccordo con le politiche della destra circa la comunità LGBTQ+, se continui a votarli a) dai loro il potere di attuarle e b) dimostri che quella questione, che pure ti riguarda da vicino, è per te meno importante di altre politiche che, essendo di destra, sono esclusive e non inclusive.
Ma dato che ero in vena d’infierire, ho deciso di sviscerare il discorso molto più nel dettaglio, no holds barred.
“No, Tizio, quello che ho detto è un’altra cosa: essere un gay di destra significa odiare talmente tanto qualcun altro (partiamo dagli immigrati, soprattutto quelli non bianchi, ma pian piano scaliamo la lista fino agli Ebrei, poi gli Europei dell’Est, il vicino d’Oltralpe e, spesso e volentieri, anche quello della regione accanto) da essere disposti a privarsi di alcuni diritti fondamentali, in quanto gay, pur di far sì di toglierli a loro. 
Significa essere talmente terrorizzati dal cambiamento e insicuri del proprio valore sociale che la sola idea di dare un punto di partenza equo agli altri diventa ripugnante, sia mai che, con le stesse possibilità, si dimostrino più capaci di noi. 
Significa essere talmente persi di fronte all’idea di un mondo in cambiamento, sempre più interconnesso, da aggrapparsi a quest’idea anacronistica di un’Italia (Francia, Austria, Germania, Polonia, Ungheria) forte, autosifficiente e pronta a tornare ai fasti del passato quando in realtà ciascuna nazione europea, presa da sola, conta talmente poco che con l’alzarsi delle tariffe statunitensi alcuni farmaci sono stati ritirati dalla sanità pubblica perché costavano troppo. Questo di fronte a un’azienda privata, figurarsi di fronte alle vere potenze mondiali. 
 
No, non ho mai detto che un gay di destra odia gli altri gay. È solo che la felicità e la possibilità di autodeterminazione di se stesso e degli altri gay diventano danno collaterale, il prezzo da pagare pur di negare i diritti ad altri gruppi sociali e continuare ad aggrapparsi a questa fantasia di grandezza perduta da riconquistare. 
Vivere così, cedendo alla paura e cercando il male altrui anche a discapito del proprio benessere, è davvero triste.”
Questa risposta mi è valsa un “comunista vecchio stampo, proprio da Festa dell’Unità” da parte di un altro utonto di passaggio (e pensa se avessi parlato di redistribuzione del reddito tramite tassazione spietata dei patrimoni personali sopra una certa cifra).
Onestamente, io non mi vergogno di essere di sinistra. Anzi, è tempo di rimettere le cose nella giusta prospettiva e ricominciare a far vergognare la destra di essere la cloaca che è.

Monday, 2 November 2020

Terrore istituzionale

Ci sono alcuni argomenti piuttosto caldi nel dibattito pubblico di cui non ho mai parlato né scritto sulle mie varie piattaforme: il DDL Zan qui in Italia e la legge sull’aborto in Polonia. Con tutto che ultimamente sono più politicamente attivo che mai, online.
Da quando Trump si è ammalato di Coronavirus, ho preso l’abitudine di sbirciare Twitter (dove seguo principalmente celebrità d’oltreoceano con evidenti simpatie democratiche) e ho iniziato a commentare attivamente la situazione politica americana con one-liner pungenti.
Altrove, specialmente sulle storie di Instagram, dove so di avere più seguito, ho affrontato diversi argomenti più approfonditamente, più con l’intento di fornire argomentazioni a chi la pensa come me che di cambiare a chi non lo fa perché quelli, semplicemente, non mi seguono (molti post degli scorsi mesi sono nati da annotazioni per le storie su Instagram), ma senza andare ad affrontare quelle due tematiche nello specifico.
Ora, premetto che il mio interesse per i risultati elettorali americani non è un modo per preoccuparmi dei problemi altrui ignorando quelli in casa mia o dietro l’angolo: dipende tutto dall’amara constatazione che i capricci di chi siede alla Casa Bianca hanno ripercussioni concrete e tangibili anche sulla vita quotidiana di noialtri da questa parte dell’Atlantico. È per questo che sono super nervoso per domani.

Detto questo, il motivo per cui non mi preoccupo di queste due faccende molto più vicine è che mi terrorizzano. E non è tanto la vicinanza geografica a terrorizzarmi, quanto il livello istituzionale a cui si trovano.
Mi terrorizza l’idea che il DDL Zan arrivi alla Camera mutilato da mille emendamenti che lo rendano perfettamente inutile. Sarebbe l’istituzionalizzazione dell’omo-transfobia: la comunità LGBTQ+ continuerebbe ad avere zero tutele concrete e si troverebbe nella posizione di non poterne più chiedere perché i conservatori potrebbero gridare che una legge esiste e non serve più discuterne, che abbiamo avuto quello che volevamo, che sono loro le povere vittime imbavagliate.
Fondamentalmente, sto trattenendo il respiro in attesa degli sviluppi, di sapere se questa legge sarà uno strumento di protezione efficace o se è il caso di perdere anche le ultime speranze.

Per quanto riguarda la Polonia, poi, vedere un Paese europeo tornare indietro di decenni non nella mentalità delle frange più ignoranti di popolazione, non negli usi e costumi, ma proprio nelle leggi nazionali… è spaventoso. È spaventoso che sia lo Stato stesso a legiferare per togliere diritti ai suoi cittadini. Contro la bigotteria casuale si può combattere; contro lo Stato, è più difficile.
E la paura è che il morbo si propaghi dalla Polonia agli altri paesi Visegrad, e che da lì rafforzi le posizioni reazionarie anche nell’Europa Occidentale innescando un effetto domino tremendo.

Sì: l’idea che lo Stato si renda complice, se non addirittura fautore, della bigotteria è uno scenario a cui non pensavo avrei mai assistito in vita mia e che mi atterrisce. Mi fa sentire impotente, travolto da qualcosa di troppi più grande, da una lotta impari e senza speranza.
L’unica soluzione è l’Europa Unita: prego che riesca a consolidare i suoi organi decisionali in modo da poter aggirare il Consiglio e la sua ridicola regola dell’unanimità che impedisce di punire economicamente i Paesi che non si dimostrano virtuosi nel rispetto dei propri cittadini.

Wednesday, 14 October 2020

Esistono gli incel gay

Non penso ci sia un modo per indorare il titolo del post – o, se c’è, sono troppo amareggiato dall’umanità per ingegnarmi a trovarlo.
Ebbene sì, signore e signori: esistono anche gli incel gay. Scoperto giusto oggi direttamente su PlanetRomeo fra gli utenti che hanno visitato il mio profilo:

 
Trent’anni, un metro e sessantacinque per novantotto chili. “Vivere pieno di odio, disprezzo e rimpianto. Morire suicida. Il riassunto della mia vita”. Fisico panciuto, senza barba ma peloso, in cerca di amici, sesso o relazione tra i ventisette e i trentun anni.
La morte è tragica ma la vita è misera. Specialmente se sei un incel.
Non chiedetemi una foto, mi troverete troppo brutto o ‘non il mio tipo’. E fidatevi, essere uno svedese brutto significa che il primo pensiero la mattina è ‘la mia vita è disgustosa, voglio morire’.
Inoltre, odio il mio corpo senza bisogno che me lo facciate notare.
 Perché certa gente scrive cose tipo ‘Voglio incontrare brave persone’? Non volete brave persone, volete modelli. Non vorrei mai essere vostro amico (ho due lauree, cercate cos’è una cotutelle, e un lavoro molto ben pagato nel risparmio gestito... la maggior parte di voi hanno solo un diploma della scuola media e lavori di bassa manovalanza), ma almeno amici con benefit. In ogni caso, non ottengo mai ciò che voglio e voi continuate a mentire.
Se c’è qualcuno là fuori, ho imparato a non aspettarmi nulla. Dopo tutto, ci sono più ragioni per fregarsene e non condividere nulla.
Auguro alla maggior parte di voi un cancro al pancreas.
Wow. No, davvero, wow.
Per i pochi fortunati che ancora non sanno cosa sono, gli incel sarebbero gli autoproclamati “involontariamente celibi”, ovvero uomini che ritengono di avere il “diritto” a una relazione sessuale e/o affettiva con una donna e che il loro essere single sia una decisione da parte delle donne, superficiali e arriviste, che subiscono loro malgrado solo perché non sono ricchi o attraenti (da qui celibato “involontario”). La realtà è un pochino diversa e si tratta di uomini che, semplicemente, hanno fallito nel creare rapporti costruttivi con l’altro sesso e anche con se stessi, e odiano quindi tutti: le donne che non gliela danno, gli uomini che hanno più successo di loro, la loro vita perché non ottengono ciò che vogliono anche se puntano i piedi.
Ecco, finora non avevo idea che questo fenomeno esistesse anche nella comunità gay e mi è davvero cascata la mandibola. Anche se, a onor del vero, il tizio qui sembra essere l’unico articolo genuino sull’app: gli altri due profili che escono cercando “incel” sono un venticinquenne alquanto palestrato (sempre se è lui) che ha la parola nel nick ma non scrive nulla nel profilo e un cinquantacinquenne che l’ha menzionata en passant nella bio in altri contesti.
Resta solo il nostro amico “unico svedese brutto” nella storia del suo popolo.

Beh, fortuna per lui che ha solo visitato il mio profilo e non mi ha scritto, se no mi sarebbe partito subito subito un consiglio non richiesto: il suo piccolo flex sull’avere un lavoro ben retribuito gli toglie automaticamente ogni scusa per definirsi “incel”.
Se guadagna bene, vuol dire che può permettersi tutto il sostegno professionale di cui ha bisogno per darsi una sistemata: un dietologo o nutrizionista per perdere peso, un abbonamento in palestra per ridefinire il fisico e, soprattutto, un terapista per lavorare sui problemi di autostima e sul modo che ha di rapportarsi agli altri.
Davvero, non c’è nulla che gli impedisca di trovare aiuto. Anche ipotizzando che di viso non sia un granché e che l’altezza gli dia problemi, i mezzi per intervenire sia sul suo corpo, visto che è chiaramente è una fonte di disagio, sia sulla sua mente, che chiaramente necessita di un intervento – uno che gli permetta di stare bene con se stesso e di non essere sgradevole agli altri, perché sicuramente un atteggiamento del genere non contribuisce a fargli guadagnare punti.
Detto francamente, sedersi a terra e organizzarsi un pity-party piuttosto che rivolgersi a qualcuno che lo guidi nel prendere in mano la sua vita è una sua scelta deliberata, non c’è nulla di “involontario”. Il problema, come per tutti gli incel, non sono gli altri: è lui, la sua autopercezione e il suo modo di porsi nei confronti del mondo.