Friday 31 December 2021

Classifica musicale annuale – 2021

Nelle puntate precedenti:

2017;
2018;
2019;
2020.

Classifiche generali (1-50):
2016;
2017;
2018;
2019;
2020;
2021.

Classifiche generali (51-100):
2018;
2019;
2020;
2021.

1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 30? (Siobhán Donaghy)
• Grazie alla reunion delle Vere Sugababes: ho adorato la sua voce su Flatline e ho provato ad ascoltarla da solista. Ottima, ottima idea.
2. Prima canzone ascoltata della numero 22? (Loreen)
• Adesso mi ritireranno la tessera di gay perché ai tempi non seguivo ancora l’Eurovision, ma è stata In My Head, non Euphoria.
3. Testo preferito della numero 33? (Blanche)
• Quella meraviglia che è Pain.
4. Album preferito della numero 49? (Within Temptation)
The Unforgiving.
5. Canzone preferita della numero 13? (Delerium)
• Hanno un catalogo talmente vasto che sceglierne una sola è impossibile: dico Silence, A Poem For Byzantium e Stay.
6. Album peggiore della numero 50? (Goldfrapp)
Head First ha il suo fascino camp, non lo nego, ma come album dei Goldfrapp…?
7. C’è una canzone della posizione numero 39 che senti molto tua? (The Gathering)
• Allora, sentite, Silje ha dedicato Saturnine a me e ai mei amici quella volta al concerto a Milano: più mia di così!
8. Bei ricordi legati alla numero 15? (Hurts)
• Ogni volta che ho finalmente fatto una foto ispirata alla loro musica che la Ciospa mi aveva fatto rimandare per anni e anni e anni.
9. Quanti album possiedi della numero 5? (Portishead)
• Tutti: i tre di studio e il Roseland NYC Live.
10. C’è una canzone della numero 45 che ti rende felice? (Susanne Sundfør)
Fade Away e, in generale, tutto Ten Love Songs: mi ricordano le uniche settimane felici del 2015 mentre ero a Calenzano.
11. Canzone preferita della numero 40? (White Sea)
• Mi rifiuto di menzionarne meno di una per pubblicazione: Cannibal Love, NYC Loves You, Ellipsis, Amazon.
12. Canzone della numero 10 che ti piace di meno? (Anneke Van Giersbergen)
• *Meme del gabbiano che inspira profondamente* “Miranda… takes her eggs… sunny side up… in the morniiiiing”.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 6? (Evanescence)
• La volta che ho realizzato il mio sogno adolescenziale di limonare ascoltando My Immortal a un concerto. Ah, se i rotolini di Pescy potessero parlare…
14. Canzone della numero 38 che associ a un momento o persona? (Woodkid)
The Golden Age (canzone e album in generale) a Francischino e i pomeriggi che abbiamo passato insieme a Firenze.
15. Quale canzone della numero 19 ti emoziona di più? (Roniit)
Still The Air.
16. Quante volte hai visto la numero 35 live? (Fever Ray)
• Magari, specie perché reinterpreta i vecchi brani con il sound dell’album attuale quando li ripropone durante il tour successivo!
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 23? (Theatre of Tragedy)
• Allora, disclaimer: ne ho apprezzato i meriti e ho deciso di diventare un loro fan grazie a Venus e Aégis in generale, ma a farmi davvero innamorare sono state Debris e Storm (album).
18. Album preferito della numero 11? (Pure Reason Revolution)
• Mi sento sporco a scriverlo (non per l’album, che è ottimo, ma per la frase): Amor Vincit Omnia.
19. Prima canzone ascoltata della numero 14? (Soap&Skin)
• Di lei in collaborazione, Goodbye con Apparat; di lei da sola, Me And The Devil. Entrambe grazie a quel capolavoro che è Dark.
20. Canzone preferita della numero 27? (Charotte Wessels)
• Adoro da morire Superhuman: il testo, la melodia, l’arrangiamento con quegli archi tremolanti… Perfetta!
21. Album preferito della numero 16? (Sleepthief)
• Mi sa che è proprio Mortal Longing.
22. Prima canzone ascoltata della numero 47? (Sirenia)
• Questa la ricordo: Seven Sirens And A Silver Tear!
23. C’è una canzone della 18 che trovi catartica? (Kari Rueslåtten)
Wintersong.
24. Come hai scoperto la numero 21? (Oliver Goodwill)
• Da quella volta che ha interpretato quel bonazzo di Wolfie nel video di Call Me When You’re Sober degli Evanescence (sì, quel Wolfie è anche un musicista!).
25. Canzone della numero 26 che ti rende felice? (Victoria)
• Mmh, felice? Forse qualcosa delle tamarrate in bulgaro pre-maturità e pre-Eurovision? Però in generale mi rende felice aver scoperto Victoria in sé.
26. Canzone preferita della numero 3? (Róisín Murphy)
• Resta sempre quella meraviglia di Pandora.
27. Album preferito della numero 2? (Marina & The Diamonds)
• Con o senza Diamonds è sempre Froot.
28. Prima canzone ascoltata della numero 32? (Frou Frou)
• Aver sentito It’s Good To Be In Love è un trademark di qualsiasi adolescente dei primi Anni Duemila.
29. Testo preferito della numero 8? (Emilie Autumn)
Rose Red.
30. Quante volte hai visto la numero 17 live? (Eivør)
• Dal vivo dal vivo nessuna, ma ho assistito a svariati suoi live streaming dalla pandemia in poi. Comunque è un’esperienza da fare: dai suoi live album è chiaro che dal vivo Eivør è una divinità scesa in terra!
31. Come hai scoperto la numero 44? (Billie Eilish)
• Questa è insolita, ma è entrata nel mio radar grazie a Katia che me ne parlava spesso! Mi piace ascoltarla anche per questo, perché è raro che condividiamo musica.
32. Album della 12 che ritieni sottovalutato? (Rag’n’Bone Man)
Life By Misadventure è inferiore a Human, ma non è male e mi sembra sia passato del tutto inosservato; è un peccato.
33. Canzone peggiore della numero 29? (Florence + The Machine)
• Ribadisco tutto ciò che ho già scritto su Call Me Cruella.
34. Prima canzone ascoltata della numero 34? (Ramin Djawadi)
• “Para, para-para, para-para, para-para, para-para”. (Anche al di fuori della serie, però, è Light Of The Seven).
35. Album preferito della numero 28? (Elusive)
The Great Silence.
36. Quante volte hai visto la numero 42 live? (Röyksopp)
• Mai, ma se fanno un tour con Susanne Sundfør, Karin Dreijer e Jonna Lee mi fiondo in prima fila.
37. C’è qualche canzone della 36 che consideri un guilty pleasure? (Emmelie De Forest)
• L’ennesima ottima cover di Young And Beautiful che valorizza quel testo sciocchino in un modo che Laña non si sognerebbe nemmeno.
38. Come hai scoperto la numero 48? (Tom Ellis)
• Sentendolo cantare in Lucifer, ovviamente!
39. Album preferito della numero 7? (Emilie Simon)
Tutti. (Se proprio devo sceglierne solo uno, Végétal.)
40. C’è qualche canzone della numero 31 che ti mette nostalgia? (Paolo Buonvino)
• Sentire Truth mi fa venire voglia di riguardare I Medici e girare per Firenze.
41. Canzone della 41 che non ti piaceva ma adesso ami? (Autumn)
• Non ho avuto nessun cambiamento di opinione così drastico, ma ai tempi quando ero un metallino imbruttito consideravo Satellites un guilty pleasure alla meglio. Adesso l’ho semplicemente abbracciata per la canzone fantastica e dannatamente catchy che è.
42. Testo preferito della posizione numero 24? (Anette Olzon)
Bye Bye Bye già per il solo fatto di essere uno stacce ai Naituiss.
43. Canzone più emozionante della numero 46? (Lucia)
Holy è talmente emozionante che quando la ascolto mi fa sciogliere. Nonostante il trauma, non mi è rimasta impressa come “la canzone che ascoltavo quando la tempesta tropicale mi ha ucciso l’iPod”, è troppo magnifica.
44. Canzone della numero 25 che ti rende felice? (Hearts Of Black Science)
• Il T. Almgren Remix di Unfolding, in primo luogo perché è serena, in secondo perché la associo a una fanfiction Jaspward che leggevo mentre la ascoltavo. I regret nothing.
45. Canzone preferita della numero 9? (Diablo Swing Orchestra)
• Direi sempre Heroines.
46. Primo album ascoltato della numero 37? (Leprous)
Aphelion, e da lì sto andando a ritroso.
47. Membro preferito della numero 4? (Delain)
• Ora me la tirerò da morire, ma Charlotte mi segue su Instagram e visualizza sempre le mie storie, just saying.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 43? (Alcest)
Souvenirs D’Un Autre Monde, duh.
49. Album che possiedi della numero 20? (ISON)
• Ho entrambi i primi EP.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 1? (Epica)
• Tutti quelli che ho condiviso con le fantastiche persone che ho conosciuto grazie al forum di Epica Italy, tra cui la volta che mi sono fatto la foto con Daddy. E sì, è compresa la “piacevole” passeggiata a Bondeno che ha involontariamente lanciato la mia collaborazione fotografica con Luisa.

Friday 24 December 2021

E come da tradizione…

Ero convinto che la terapia d’urto dell’anno scorso avesse curato la Mater, che essersi trovata a doverselo fare lei, l’albero, gliene avesse fatto passare la voglia. Non ha parlato di farlo fino a tre giorni fa e, anche avendomi fatto portare giù le scatole, non si era mossa.
Invece ieri, emergendo dalla mia tana per barcollare verso il bagno, avevo visto i rami in salotto – l’albero era montato ma ancora non aperto né decorato; e oggi, mentre io giravo per questioni di Pokémon Go da parte di entrambi, lei l’ha addobbato imperterrita. Però ha barato: ha messo solo le luci e le ghirlande senza palline o cianfrusaglie varie.
“Perché ora che tocca farlo a te, lo trovi incredibilmente tedioso.”
“No, non è vero! È che da sola non ho il tuo occhio.”
Certo. Chissà che l’anno prossimo finalmente si arrenda. L’importante è che continui a non coinvolgermi, così anche la mia Melania interiore resta sopita.

Parlando d’altro, stasera sembro la hotline per disperati in ansia per il cenone / pranzo con il parentame, e la cosa ha confermato le riflessioni che ho diligentemente fatto anche quest’anno sulla mia antipatia nei confronti del Natale. In realtà si tratta di un’espansione di quelle del 2017, ma ho isolato la parola che mi urta di più quest’anno, ed è “famiglia”.
Più ancora che per la gente che arriva e ti punta una pistola alla testa per farti essere felice or else, il Natale mi urta per la pressione sociale che pretende la (temporanea) disgregazione delle nostre famiglie elettive per costringerci a tornare a relazionarci con i nostri consanguinei, che ci piaccia o no. L’idea pervasiva è che, in questo periodo di grande gioia e bontà, i legami che ci siamo creati, le comunità che abbiamo scelto, gli spazi sicuri che ci siamo ritagliati non valgano nulla in confronto alla semplice linea di sangue che ci è capitata.
Nel caso peggiore ci ritroviamo seduti a tavola tra l’anziana zia bigotta che traccia i solchi intorno all’altare in ginocchio e il cugino prete che è finito sui giornali per un attacco transfobo a una certa personalità pubblica, di fronte allo zio complottista che è il più sveglio di tutti e l’altro cugino, che, a trent’anni suonati, tentava di strapparti i secchielli di lego di mano durante il trasloco e che rimpiangi di non spinto giù dalle scale fingendo che ti fosse sfuggito il secchiello di mano. Tutta gente, vuoi per questioni personali, vuoi per l’archetipo che rappresenta, normalmente eviteresti come la peste – in effetti, tutto il resto dell’anno lo fai – ma che la Magia del Natale ti costringe a sopportare solo perché ci condividi parte del corredo genetico.
Nel caso migliore, se riusciamo a sfangarci il parentame, rischiamo di ritrovarci soli perché il nostro sistema di sostegno e il piccolo mondo che ci siamo creati al di fuori dei consanguinei è incastrato coi propri parenti serpenti, e a me personalmente la cosa irrita.

Poi non nego che esista anche gente fortunata in cui le due sfere coincidono o sono quantomeno compatibili, eh! Se la vostra famiglia non è problematica, vi volete genuinamente bene e vi incontrate con piacere, by any means go for it!
Ma sto sentendo tanti di quegli amici o conoscenti stressati perché hanno problemi con i parenti, perché soffrono di nevrosi e questi incontri affollati pesano su quel lato, o che hanno legittime preoccupazioni di natura sanitaria per via del covid che sono ignorate per una stupida tradizione, e le loro voci sono silenziate perché “fa brutto” non passare il Natale con i parenti.
A questa mia impressione si aggiunge che l’emergenza globale e il precedente inasprimento dei contrasti politici hanno reso i grandi raduni di gente randomica se non per la parentela ancora più infiammabili, e stanno comparendo molti post, ad esempio rivolti a persone LGBTQ+, che danno consigli su come affrontare il periodo festivo mantenendo intatta la propria salute mentale.
Evidentemente il problema è reale e colpisce diverse persone. Se esistono post su come affrontare le feste, evidentemente si parte dal presupposto che siano un impegno che non si può ignorare, ed è una cosa assurda!

Ripeto: sono felice per le famiglie davvero armoniose, auguro loro tanti Natali da trascorrere gioiosamente insieme tra lucine, cenoni e regali. Ma ritengo sia fondamentale che nella sensibilità pubblica inizi ad esserci spazio anche per chi queste cose non le ha, o non se ne interessa. Normalizziamo non voler fare nulla a Natale. Normalizziamo dire: “Guarda, non ho molta voglia di venire al cenone, non me la sento”. Normalizziamo incontrare i parenti che ci vanno a genio, dire: “Mi farebbe molto piacere vederti, ma la presenza dello zio omfobo e del cugino prete renderebbe la serata spiacevole; ti va di prenderci un caffè in settimana?”. Normalizziamo che, se davvero vogliamo vedere qualcuno dopo tanto tempo perché gli vogliamo bene, esistono anche altri giorni.
Normalizziamo scegliere con chi condividere la gioia delle feste.

Per onestà intellettuale, aggiungo che, ovviamente, la mia visione delle feste è pesantemente influenzata dal rancore che nutro verso buona parte dei miei parenti. Sono nella posizione privilegiata di avere scuse plausibili per non incontrarli (i.e.: vivo lontano, passo il Natale con la Mater invece che col ramo paterno della famiglia), ma sentire la pressione sociale di farlo mi urta. Vedere miei amici sotto quella stessa pressione sociale – per quanto la loro situazione sia diversa, nel bene o nel male – mi fa arrabbiare. Magari c’è anche un pizzico d’invidia per chi invece ha una famiglia normale.
Però davvero, spostiamo la priorità dal concetto di famiglia al benessere delle persone che la compongono. E se qualcuno si offende, iniziamo a spostare il peso del giudizio sociale su di loro e sulle pretese che si arrogano sul tempo e la salute mentale altrui.

Wednesday 22 December 2021

Ritorno ad Asburgo?

Martedì 21 dicembre, ore 2:15 circa.
Vado a controllare come sta la Mater: sta bene, non ha la febbre, non ha mal di testa, non ha crampi da disidratazione, so far so good. Si alza anche da sola per andare in bagno senza problemi, perdita di equilibrio o simili. Sono passate circa dodici ore dall’inoculazione della terza dose di Moderna e sembra che il richiamo non sia poi così apocalittico rispetto alla seconda dose.
Rassicurato che non sembri avere bisogno di nulla e io possa quindi dedicarmi alla mia oretta e mezza di musica immersiva senza il rischio di essere interrotto, le porto un bicchiere d’acqua e torno in camera mia, speranzoso che la mia terza dose, che mi inoculeranno mercoledì 22, non mi faccia stare male come la seconda.

Ore 12:45 circa.
La Mater mi sveglia chiedendomi se posso preparare io il pranzo a entrambi: a metà mattinata le è salita la febbre quasi a 38 e, anche con una Tachipirina, si sente uno straccio. Mi prendo i miei venti minuti d’ordinanza per smaltire il trauma di essermi svegliato vivo anche oggi, dopo di che mi metto ai fornelli.
Le speranze di cavarmela a buon mercato l’indomani sono bellamente sparite.

Ore 17:50.
La Mater ha dormito profondamente tutto il pomeriggio. La sveglio perché vuole farsi l’ora di spotlight di Snover con doppia exp da cattura per fare punteggio su Pokémon Go. Sta meglio ma è disidratata e le viene un crampo al piede. Ha ancora un certo mal di testa.
Il dopodomani mi sorride sempre di più. In compenso, faccio il livello 48 su PoGo e poi aiuto lei a salire un po’ di punteggio facendo i tiri eccellenti.

Ore 20:30.
La Mater ha una nausea tale che la sola vista della carne che mi sto cucinando le fa venire un conato. Tenta di farsi un kisiel per cena e non riesce nemmeno a terminarne una tazza. Ha costanti capogiri, non riesce a mantenere l’equilibrio e anche solo alzarsi dal divano al tavolo le sembra una fatica insormontabile.

Mercoledì 22 dicembre, ore 01:30 circa.
La Mater è ancora in piedi al computer; apparentemente le è passato tutto – come da prassi in uno schiocco di dita, all’improvviso. Tanto meglio.

Ore 11:55.
La Mater ha di nuovo pero il senso del gusto: tutto ciò che mangia le sembra erba o cartone. Alla meglio (o peggio?) ha un retrogusto amaro. Andiamo bene. Io sto mangiando più presto del solito in modo da recarmi allo hub e sperare di non fare sera in attesa del mio boost.
 
Ore 13:39.
La disorganizzazione allo hub è stata minore del previsto (o della scorsa estate), in circa un’oretta ho sbrigato scartoffie, fila, inoculazione e periodo d'attesa in caso di. Non mi resta che tornare a casa.

Ore 17:09.
Inizio ad accusare i primi sintomi: spossatezza, difficoltà di concentrazione, antipatia generale per la vita – voglio dire, più del solito. È piuttosto presto, speravo di mantenere un po’ più di autonomia e non so bene cosa aspettarmi.
Visto che le altre volte la Mater ed io abbiamo avuto sintomi molto simili e lei si è presa un’altra mazzata, mi preparo a passare un’altra notte di delirio febbrile convinto che il mio cuscino sia il Castello di Asburgo. L’unica consolazione è, ancora una volta, che durerà massimo quarantott’ore e poi sparirà, a differenza del virus che può durare settimane e lasciare danni permanenti. Su quello continuano a non esserci dubbi.

Tuesday 30 November 2021

I miei due cent su Cingolani

Roberto Cingolani: (technically) right for the wrong reasons.
Se non conocete la notizia andatevela a googlare per i dettagli, ma il sunto è che Cingolani, Ministro della Transizione Ecologica, ha detto che è inutile studiare quattro volte le Guerre Puniche, la scuola dovrebbe fornire una “cultura tecnica” (lingue, informatica) propedeutica alle professioni del futuro.
E niente, iniziamo a spacchettare la cosa, perché ci sono due discorsi paralleli da tenere qui.

(Technically) right: è vero che il curriculum scolastico italiano, specie nelle materie di cultura generale come storia o geografia, è profondamente fallato. Cosa non sorprendente, visto che è tutt’ora basato su una riforma di novantotto anni fa promulgata sotto il fascismo. Cingolani non ha torto: ho studiato tre volte le Guerre Puniche ma mai come si deve il Novecento – un secolo un filino carico di avvenimenti le cui conseguenze si fanno ancora sentire, ma che viene sfiorato di corsa negli ultimi due mesi del grado scolastico di turno. Il che è fisiologico, visto che questo secolo bello denso di storia ancora non c’era, ai tempi di Gentile, ma penso che sia anche il residuo di un progetto deliberato del regime fascista: imprimere bene nella testa dei giovani la grandezza di Roma Antica in modo da fomentare la nostalgia per alimentare il nazionalismo, mantenendoli intanto ignoranti sugli sviluppi più recenti in modo da non dare loro i mezzi per comprende la situazione socio-politica e mantenerli il più manipolabili possibile.
Ma non è solo quello: da una parte, ho studiato tre volte Scipione e Annibale ma ho imparato qualcosa della storia della mia regione, la Sardegna, a trentadue anni suonati da Wikipedia nei due giorni in cui ero costretto a letto dopo la seconda dose di vaccino e non sapevo cosa fare; dall’altra, ho studiato tre volte il Risorgimento ma la Guerra dei Trent’Anni, uno degli avvenimenti chiave della storia europea, la conoscevo solo di nome e l’ho approfondita da solo sempre a trenta e passa anni su Wikipedia.
La falla del sistema, in questo caso, è ripetere per tre volte lo stesso curriculum verbatim (in maniera sempre meno approfondita, perché arrivi al liceo e la prof dice: “Ma tanto queste sono cose che già sapete”) invece che distribuirlo in base all’età degli studenti. Ai gradi inferiori si dovrebbe studiare la storia del proprio territorio e della regione – che è anche più facilmente comprensibile visto che i bambini possono trovare un riscontro immediato visitando i luoghi in questione – passare quindi alla storia antica e quella italiana, per poi approfondire quella mondiale e concentrarsi sul Novecento.
Così sì che si darebbe agli studenti un curriculum più bilanciato e comprensivo, e magari si imparerebbe qualcosa di più sul Novecento dall’istruzione pubblica invece che da The Crown su Netflix.
Poi, parallelamente a questo,  bisognerebbe rafforzare anche l’insegnamento di materie più pratiche, soprattutto le lingue, in modo da dare la formazione più completa possibile.

For the wrong reasons: il problema è che il discorso di Cingolani non era incentrato sul miglioramento del curriculum di storia della scuola pubblica italiana, quanto sulla solita lagna trita e ritrita, che le materie umanistiche sono inutili e bisogna concentrarsi solo su quelle tecniche che hanno un’applicazione pratica,
Che, onestamente, anche basta: è la più subdola forma di propaganda capitalista, che un’istruzione efficiente debba essere finalizzata non all’arricchimento della cultura della persona, ma solo della tasca del futuro padrone. Che tutto il tempo speso ad apprendere nozioni che non siano prontamente marketizzabili sia sprecato. Che quel che conta è solo la futura produttività dell’individuo anche a discapito (come in questo caso) della sua crescita personale.
Nel suo libro Bonsai (1995, uno dei miei libri formativi), Christine Nöstlinger definiva la scuola la “Macchina Normalizzatrice Statale”, il luogo dove, secondo il protagonista del libro, qualunque forma di creatività, individualità e pensiero fuori dagli schemi va a morire. La scuola capitalista, quella che Cingolani immagina, è proprio questo: una fattoria di piccoli e obbedienti ingranaggi spogliati di qualunque valore al di fuori di quanto produttivi possano essere nel piccolo impiego che viene assegnato loro per massimizzare i profitti degli imprenditori.
E questo è sbagliatissimo.

La scuola dovrebbe trovare il tempo – e le si dovrebbero allocare i fondi – per insegnare lingue, informatica, ma anche diritto ed economia, accanto a storia, geografia, filosofia, latino, storia dell’arte, musica. Le materie propedeutiche a navigare il mondo moderno e sì, anche il suo mercato del lavoro, non dovrebbero arrivare a discapito della cultura generale, e vice versa. E onestamente, parlare di sistema scolastico inadeguato dopo trent’anni di costanti tagliai fondi è abbastanza ridicolo.
E se proprio vogliamo parlare di stralci al curriculum attuale, strano come Cingolani non si sia lamentato di come studiamo tre volte di San Paolo e della sua folgorazione sulla via di Damasco. O di come almeno una volta per grado di studi mi sia infortunato gravemente sotto l’incompetenza del professore di diseducazione fisica di turno.

La lotta tra materie “concrete” e cultura “astratta” esiste solo nella mente del capitalismo, ma non dovrebbe avere posto nella scuola; tantomeno nella vita culturale di un Paese in cui, se proprio vogliamo mettere un codice a barre su qualunque cosa, le maggiori risorse sono proprio la storia, l’arte, la cultura, la musica.
Oltretutto, se proprio vogliamo parlare di logica capitalistica, forse, invece che trasformare la scuola in una fabbrica di ingranaggi già perfettamente competenti nel mondo del lavoro, sarebbe il caso di delegare almeno parte della responsabilità della formazione tecnica del personale alle aziende stesse. Così magari, dovendo pagare la formazione di tasca loro, inizierebbero a trattare i dipendenti come un investimento a lungo termine da tenersi stretto con gratifiche e condizioni di lavoro etiche, invece che come pezzi sostituibili non appena finisce il contratto di “apprendistato” in cui lavorano gratis.
Così, è solo un’idea.

Tuesday 23 November 2021

Riflessioni su Kate Moss

Mentre scorrevo Tumblr, in uno dei vari blog di fotografia di moda che seguo è spuntata una foto di Kate Moss. Quella Kate Moss.
Sempre perché in “2007, when size zero was the rage” io ero, come per Britney, troppo cool per la cultura pop mainstream, degli scandali e della conversazione pubblica su Kate Moss mi arrivò ben poco. Eppure a tutt’oggi, quando vedo una sua foto la mia prima reazione è clutch my pearls e inorridire perché OMG, che pessima influenza ha sui giovani.
Ecco, pensate a quanto pervasivo dev’essere stato lo sfruttamento mediatico di questa donna se perfino in me, che non ho calcolato di striscia il mondo della moda fino al 2011, si è talmente sedimentata l’idea che Kate Moss sia problematica che ancora oggi, nell’anno del Signore 2021, la prima immagine che leggere il suo nome o vedere la sua faccia mi evoca sono giovani ragazze che, solo trovandosi nelle vicinanze di una sua fotografia, precipitano in una spirale di droga e anoressia da cui usciranno solo coi piedi avanti.

Ora, lungi dal voler santificare Kate Moss o affermare che non fosse un personaggio da prendere con le pinze, però questo senso di allarme, questo volerla droppare come una patata bollente ogni volta che un’opera che la contiene mi capita per le mani è un filo esagerato e vorrei analizzarlo per liberarmene.
Anche perché, un po’ come Britney, era figlio della sua epoca. Gli Anni Duemila sono stati un periodo davvero orribile e violento.
Perché chi era, alla fine, Kate Moss? Era solo una ragazza con un disturbo alimentare e un problema con la droga che sono stati sfruttati e fetishizzati da una parte, e gonfiati e demonizzati dall’altra. Non era il carnefice dell’innocenza delle adolescenti della mia generazione: era una vittima dello showbiz e degli standard di bellezza come chiunque altro. (Per la cronaca, lei ha sempre negato di aver avuto disturbi alimentari, era solo che “Nel B&B non c’era cibo”, o “Nessuno mi portava a cena”; certo, Kate.)
Poi per carità, è giustissimo che abbia pagato lo scotto dello scandalo della cocaina, o di aver commentato con leggerezza che “Nothing tastes as good as skinny feels” (anni dopo si è pubblicamente pentita di quell’affermazione), ma la stampa si è accanita su di lei come se fosse l’origine del problema, non un sintomo e una vittima (fermo restando che bisogna sfatare il mito dei “role model” dei giovani e smettere di usarli come capro espiatorio per la propria inadeguatezza genitoriale).
Oltre a lei, c’è stata molta altra gente che si è arricchita con l’estetica “heroin chic” che le è stata cucita addosso. C’è chi ha pascolato intorno alla sua immagine da hard-drinking bad party girl per anni, salvo poi cadere dal pero e disconoscerla quando è saltato fuori che un problema di uso di sostanze ce l’aveva davvero. Il problema è stato, anche qui, che invece che mostrare compassione verso un essere umano in difficoltà, si è proceduto a glamourizzare e sfruttare la cosa.
E anche per quanto riguarda i problemi alimentari, ammettiamo pure che sia naturalmente magra e non abbia un problema di, ahem, “non trovare cibo nel B&B”: è Kate Moss, presa, vestita, fotografata e messa in copertina o in una campagna di moda il problema, o piuttosto il fatto che, accanto a una Kate magra non si siano messi anche altri tipi di fisico fino a praticamente l’altro ieri? Kate Moss aveva i suoi problemi di cui occuparsi, non le si può addossare alla sua magrezza la colpa di non mostrare alternative al pubblico.

E niente, questo è quanto avevo da dire su Kate Moss, ennesima vittima della mancanza di empatia degli Anni Duemila che nella celebrity culture ha raggiunto la sua apoteosi. Spero di aver demistificato i problemi che ho con lei, così da non fermarmi al viso o al nome nel giudicare una foto artisticamente valida, perché la cultura di massa mi ha instillato un’antipatia atavica per l’ennesima donna che ha vittimizzato.
Kate, probabilmente non mi starai mai simpatica (anche perché diciamocelo, si può essere una top model e subire pressioni e angherie senza diventare problematici, chiedi a Karen Elson), ma non meritavi di essere trasformata in una red flag ambulante.

Wednesday 10 November 2021

Mille piccoli graffi

Ieri notte il Mac mi ha tirato un nuovo numero: si è ibernato come ogni tanto fa (con la batteria nuova è meno frequente, ma sono più che altro io che ormai mi sono desensibilizzato e non batto più ciglio) e, quando l’ho riacceso, mi è sparito il wi-fi. Ho provato a riavviarlo e mi ha detto testualmente: “Wi-fi non disponibile, nessun hardware installato”. Ho fatto un bel respiro, l’ho proprio spento e quando l’ho riacceso era tornato tutto a posto. Sgradevole perché non me l’aveva mai fatto, ma nulla di che.

Oggi mi sono svegliato e, intercettando il flusso di coscienza che continua imperterrita a vomitarmi addosso mentre ancora non so nemmeno come mi chiamo, l’ho raccontato alla Mater.
La sua risposta? “Beh, ci credo, sta acceso da quando ti svegli a quando vai a dormire.”
Chiaro: è colpa mia che lo accendo e lo uso, non del fatto che ormai è nel suo decimo anno di vita.
E allora ho pensato: “Gee, I wonder why io mi colpevolizzi letteralmente per qualsiasi cosa.”
È sottile, apparentemente innocuo e a prima vista nemmeno irragionevole, ma oggi qualcosa ha cliccato nella mia testa e me ne sono reso conto: sono cresciuto con una fila interminabile di microattacchi come questo, di attribuzioni più o meno implicite di colpa per cose che sono o solo marginalmente collegate, o del tutto indipendenti dal mio corso d’azione. È tutto ciò che ho conosciuto nella mia vita, e non è quindi sorprendente se il mio primo pensiero, quando succede qualcosa, è trovare il punto in cui io ho sbagliato e fustigarmici sopra.
Però oggi bravo me, che ho immediatamente individuato e isolato il pattern senza lasciarmelo affibbiare né interiorizzarlo – e, anzi, riconoscere che è un comportamento abituale da parte della Mater.

Oh, e visto che siamo in tema, giusto tre giorni fa ho confessato a Katia di aver dovuto fare uno sforzo cosciente per non leggere ulteriori motivi in una cosa completamente scollegata da me che mi ha detto. E perché? Sempre perché sono cresciuto con una madre il cui metodo di comunicazione preferito, quando qualcosa non andava, era fare la passivo-aggressiva, e la cosa ha marchiato a fuoco nella mia coscienza che non posso fidarmi delle cose che mi vengono dette, c’è sicuramente qualcosa da leggere tra le righe, devo capire da solo qual è la cosa sbagliata che ho fatto, o quella giusta che non ho fatto.
Anche lì, ho riconosciuto il pattern e l’ho isolato, perché a volte la gente ha semplicemente i cavoli suoi e non dipende dalle mie presunte mancanze, ma non fidarsi della trasparenza di nessuno, soprattutto le persone più vicine, è davvero stancante.

TL;DR, ora che la mia generazione è in fase procreativa, ragazzə: ricordatevi di non essere mai genitori passivo-aggressivi e di non abituare lə vostrə figliə ad assumersi colpe che non dipendono da loro. Altrimenti tra venti o trent’anni saranno adultə copertə di cicatrici emotive incapaci di abbassare la guardia, rilassarsi e affrontare un problema senza fustigarsi.

Friday 29 October 2021

Questioni di zucche

“È questo il mio costume: sono un maniaco omicida. Non si distinguono dagli altri.”
Ed è questa la mia battuta preferita da fare in questo periodo dell’anno, specie ora che, senza Lucca, non posso sfangarmela con la scusa di essere distrutto dalla fiera / il lavoro la sera del trentun ottobre.
Una o due volte ho provato a fare il pioniere di Halloween da piccolo, ispirato principalmente da Piccoli Brividi e, in particolare, Le Zucche della Vendetta. Mi sono mascherato, ho fatto un giro di trick or treating nei palazzi vicini, qualcuno è anche stato al gioco e mi ha dato dei dolciumi, ma la cosa è più o meno finita lì. Semplicemente, Halloween non appartiene alla mia identità nella maniera viscerale e istintiva in cui, ad esempio, Carnevale o il Natale ne facevano parte, e il tentativo di trapiantarlo non ha attecchito alla lunga. Cioè, se verso i dieci o undici anni mi ero già stufato di inventarmi un costume per Carnevale, figurarsi se avevo (o ho) voglia di inventarne anche uno per Halloween. (Su come sia finito il mio rapporto col Natale penso sia superfluo aggiungere qualcosa ora, avrò tempo a dicembre per trovare qualcosa di cui lamentarmi anche quest’anno).

D’altro canto, essendo Halloween un prodotto d’importazione (almeno nella mia vita e nella comunità in cui sono cresciuto, poi leggo che in Veneto invece ne esiste una variante come residuo della cultura celtica di sostrato), non mi suscita nemmeno la forte reazione avversa che l’onnipresenza di altre feste mi causa.
Per ora.
Perché ragazzi, seriamente, a me sta benissimo che voi vi ci divertiate, che abbracciate i costumi, i dolci, le decorazioni e tutto, li facciate vostri e li trasformiate in uno spunto di divertimento. Solo, magari evitiamo di trasformarla nell’ennesima festa comandata per non partecipare alla quale serve trovare una scusa socialmente accettabile?
Certo, sarà sempre meno urticante dei buoni sentimenti preconfezionati che si respirano in altri periodi dell’anno, e ha in più l’aspetto creativo dei costumi e quello iconoclastico di esporre i benpensanti a tutto un immaginario macabro; ma il calendario festivo italiano è già abbastanza fitto di occasioni da schivare, non me ne serve un’altra.
Quindi non iniziamo a chiedere: “Cosa fai a Halloween?” o “Da cosa ti mascheri?”, perché se no quello da maniaco omicida non sarà più solo un non-costume e una citazione a Mercoledì Addams, mhkay?

Tuesday 12 October 2021

Stacked Smoke

La cosa più vicina a un incendio che io abbia mai vissuto è stata la Notte dei Lunghi Allarmi nella casa dello studente a Trieste. Ovvero, un prolungato quanto falso allarme dovuto a cause non meglio precisate che con gli incendi veri e propri non aveva nulla a che fare.
Almeno fino a stasera. Ieri sera, tecnicamente. Insomma, poche ore fa.
 


Sono le undici meno spicci di sera. Vado in bagno, sento odore di bruciato e, contrariamente al solito, scrollo le spalle e me ne frego. Dico “contrariamente al solito” perché al secondo piano abbiamo un tossicodipendente che vive da solo e io, essendo ansioso, ho sempre paura che metta la roba sui fornelli, si faccia di qualcosa e lasci che tutto bruci, quindi di solito mi affaccio a vedere se c’è fumo da lui.
Oggi, dicevo, decido di fregarmene e, tempo le undici, qualcuno ci suona il campanello: sono le vicine del piano di sopra che ci avvisano che c’è un incendio e dobbiamo scappare.
No, sul serio: c’è un incendio e dobbiamo scappare. Il pianerottolo è pieno di fumo, ci entra pure in casa.

Onestamente, non so tutt’ora come mi sia sentito in quel momento. Ho afferrato il telefono e chiamato il 118, dicendo con una voce incerta e incredula che c’era un incendio al mio indirizzo. E sottolineo, incredulo, perché queste cose di solito capitano o nei film, o agli altri.
Onestamente, mi fa strano ritrovarmi ora sotto shock perché, lì per lì, non credo di aver avuto paura. Non c’erano fiamme in vista e non penso che il cretino fosse riuscito a dar fuoco a chissà cosa – stupidamente non mi passa per la testa che le fiamme potrebbero raggiungere la bombola del gas, ma dettagli. Mi infilo un paio di pantaloni con le tasche, ci butto dentro l’iPod perché col cavolo che lo lascio bruciare se qualcosa va storto, poi il telefono e il borsellino con carte e documenti; infilo il computer nella borsa e prendo quello, la fotocamera e il teleobiettivo; la Mater nel frattempo ha afferrato un borsone e ci ha buttato dentro tutte le cartelle di documenti nostri, della casa e di chi più ne ha più ne metta.
Le vicine di sopra hanno già raccattato la loro roba, infilato il gatto nel trasportino e stanno scendendo. Noi ci accodiamo – rigorosamente per le scale, mai ascensore in queste situazioni – facendo il secondo giro di scampanellate a tutti.
Il grosso del fumo è nel terzo piano, il che significa che sta salendo, indovinate un po’, dal secondo, dalla casa del tossico. What a surprise. Dirimpetto a lui, la vedova (del tutto sola) è già da qualche mese che dà i numeri e mostra segni di senilità, e si rifiuta di uscire e mettersi in salvo. Io e la Mater la incoraggiamo, e quella chiude il portone. Ok.
Al piano di sotto, aiutiamo l’altra vedova, quella pluri-novantenne e super acciaccata (e anche lei del tutto sola), a scendere le scale. Ci troviamo sul marciapiede con i vigili del fuoco già sul posto e iniziamo a fare la conta: manca solo quella del secondo piano. Dal pian terreno portano un paio di sedie per far accomodare le più anziane. La Mater resta con la vedova del primo piano, tenendole le mani sulle spalle per tranquillizzarla; io afferro il telefono e chiamo Katia per avvisarla che potrei tardare un po’ al nostro appuntamento serale di visione di serie tv e roba su YouTube. La prima cosa che mi esce è una risata isterica che fa agghiacciare anche me. Giro l’angolo mentre le racconto in breve cosa succede perché improvvisamente sono fuori dalla grazia del Signore. Con tutto che non ho avuto paura sul momento e non sembra esserci nulla di davvero pericoloso.
Riattacco, mi assicuro che la Mater e la vedova stiano bene, mi avvicino ai canadesi del terzo piano perché, in tutto quel casino, col cavolo che mi lascio sfuggire l’occasione di parlare (e snarkare) in inglese. E perché, essendo i penultimi arrivati, si trovano in disparte e la cosa mi dispiace. Gli ultimi arrivati del palazzo sono quelli del pianterreno e hanno fornito le sedie, quindi almeno non sono esclusi.

Il nostro tossico ovviamente importuna i passanti curiosi che casualmente hanno da portare a spasso i cani proprio qui, chiedendo loro se hanno sigarette. Quando quello del terzo piano commenta che sente di nuovo odore di bruciato, io ribatto: “Yeah, well, somebody’s smoking. The irony. And the nerve.” facendo ridacchiare la moglie. Mi becco volentieri i complimenti per il mio inglese, ripercorriamo la mia carriera scolastica, scopro che lei aveva considerato di studiare a Trieste alla mia stessa facoltà, e intanto chiedo conferma ai pompieri che quella del secondo piano stia bene. Sì, per fortuna.
Ogni tanto mi avvicino anche alla Mater e alla vedova per vedere come stanno. La vedova ha freddo. Io poggio le borse, mi levo la giacca e gliela poggio sulle gambe, un po’ già pregustandomi i complimenti.
Si fa circa mezzanotte quando ci danno il via libera per tornare a casa; per fortuna la Mater si è fermata a fare pipì prima di uscire, e onestamente non l’ho nemmeno sgridata per quello perché immaginavo ne avremmo avuto per un po’.
 
Ringraziamo i pompieri, riaccompagniamo la vedova al primo piano, disseminiamo “buonanotte” ai vicini intorno a noi, torniamo a casa, spalanchiamo tutte le finestre, la vedova chiama e ringrazia tantissimo sia la Mater sia me: ecco i tanto agognati complimenti. Mi sento generoso e mando un WhatsApp al Guasto per dargli io la notizia e rassicurarlo sul fatto che noi stiamo tutti bene e la casa non ha subito danni, non si sa mai che finiamo sulla Nuova e lui legga. Chiamo Katia, le racconto e mi accorgo che inizio a tremare e sentirmi esausto: l’adrenalina è calata e sta subentrando lo shock.
Shock per cosa non lo so, visto che non ho visto le fiamme ed ero sempre consapevole che il pericolo fosse relativamente basso. Ma mi guardo intorno, vedo i miei pupazzi, i CD, i libri, l’armadio con i vestiti, tutte le cose che avrei perso se l’incendio si fosse propagato. Forse è la puzza pervasiva di bruciato, che si attacca a tutto e non lascia tregua anche ora che l’aria è tornata tecnicamente respirabile.
Forse, concludo, anche se è stato piccolo, è pur sempre stato un incendio, e gli incendi sono eventi intrinsecamente traumatici. E poi io sono un Tyrell: sono piuttosto suscettibile alle fiamme.
La battuta migliore, però, l’ha fatta Katia quando le ho detto che tutto è partito dal tossico che cucinava.
 
Ma stava cucinando cibo o crack?

Ha poi concluso che, visto che come inspiravo i fumi scoppiavo a ridere, probabilmente era la seconda. E, in tutto ciò, io rosicavo perché l’unica volta che avrei avuto ragione a insospettirmi per la puzza di bruciato non l’ho fatto. Mannaggia.
 
In questo momento sono esausto. Fisicamente esausto. Anche mentalmente: non ho avuto problemi a guardare Midnight Mass, ma ora non riuscirei, ad esempio, ad ascoltare musica o leggere o giocare a The Sims 4. Sto scrivendo più che altro per buttare fuori questo groppo di emozioni la cui natura non ho nemmeno compreso io stesso, e che si sono affastellate rapidamente quanto in sordina per tutta la sera.
Però adesso posso dire di essere sopravvissuto a un incendio. Non male, per un Tyrell.

Thursday 30 September 2021

Classifica musicale generale – 2021

Nelle puntate precedenti:
2016;
2017;
2018;
2019;
2020.

Classifiche dalla 51 alla 100:
2018;
2019;
2020;
2021.

Classifiche annuali:
2017;
2018;
2019;
2020
 
1. Come ti sei appassionato alla posizione numero 30? (Röyksopp)
• Onestamente non me lo ricordo. Nel senso, avevo visto (e apprezzato) il video di Poor Leeno su MTV e poi, anni dopo, scoperto What Else Is There? grazie a un trailer fan-made dell’ottava stagione di Charmed, ma quando provai ad ascoltare The Understanding per intero non ero ancora abbastanza maturo da capirlo. Poi, un cinque-sei anni dopo, i miei gusti sono mutati, ho riprovato ad ascoltarli e tutto è andato al posto giusto. Oh, e quell’anno è uscita anche Running To The Sea, addio.
2. Prima canzone ascoltata della numero 22? (Goldfrapp)
• Difficile dirlo, visto che moltissime erano ovunque. Ricordo Strange Machine usata da una delle compagne della Lili al saggio di burlesque, ma non sapevo ancora chi la cantasse. La prima che ho ascoltato con cognizione di causa è stata Annabel.
3. Testo preferito della numero 33? (Siobhán Donaghy)
Coming Up For Air, sin da quel famoso pomeriggio.
4. Album preferito della numero 49? (Sirenia)
At Sixes And Sevens.
5. Canzone preferita della numero 13? (Panic! At The Disco)
Casual Affair.
6. Album peggiore della numero 50? (Rag’n’Bone Man)
• Escludendo i primi mixtape che sono davvero atroci e limitandosi alla discografia “ufficiale”, a voler essere generosi Life By Misadventure può essere descritto come “inoffensivo”. Non ha nulla di memorabile come Human.
7. C’è una canzone della posizione numero 39 che senti molto tua? (Amy Lee)
• Se dico Lockdown qualcuno mi lancia addosso qualcosa?
8. Bei ricordi legati alla numero 15? (Susanne Sundfør)
• Il week end a casa di Alessandro Jonah nel 2012, quando avevo appena iniziato ad ascoltarla.
9. Quanti album possiedi della numero 5? (Evanescence)
• Tutti da Origin in poi, compresi i singoli pubblicati in formato fisico, tranne il pessimo self-titled e il singolo di Du Uocciuocciuon.
10. C’è una canzone della numero 45 che ti rende felice? (Aurora)
Daydreamer.
11. Canzone preferita della numero 40? (The 3rd And The Mortal)
Harvest ha qualcosa di magico.
12. Canzone della numero 10 che ti piace di meno? (Florence + The Machine)
• Faccio fatica a considerare Call Me Cruella una canzone di Florence: il testo è tremendamente on the nose (specie paragonato agli altri contributi di Florence a colonne sonore varie), di una banalità degna di una qualunque Laña del Rey. È chiaro che la Disney gliel’ha praticamente dettata e non le ha lasciato libertà creativa.
13. Bei ricordi evocati dalla numero 6? (Emilie Simon)
• Oh boy, da dove inizio? A ‘sto giro menziono il viaggio a Bordeaux.
14. Canzone della numero 38 che associ a un momento o persona? (Phildel)
• Beh, un po’ tutte a Luisa, visto che è la protagonista di entrambi i progetti fotografici ispirati alla musica di Phildel.
15. Quale canzone della numero 19 ti emoziona di più? (Epica)
This Is The Time ha risvegliato la mia coscienza ecologica con la sua melodia commovente e il testo intelligente e profondo. Naturalmente sono sarcastico e Rivers vince a mani basse.
16. Quante volte hai visto la numero 35 live? (Dead Can Dance)
• Due, entrambe le volte con persone che si sono rivelate non proprio degli ottimi amici. Dovrei iniziare a considerare i Dead Can Dance una red flag? Ah no, quella era odiare Margaery Tyrell.
17. Quale canzone ti ha fatto innamorare della 23? (Róisín Murphy)
• Non ricordo se ci sia stata qualche canzone in particolare: è stato un processo graduale, iniziato quella volta che Florian Neuville aveva spammato le foto di un suo concerto sui social media.
18. Album preferito della numero 11? (Eivør)
• Sono molto indeciso tra Larva e Segl.
19. Prima canzone ascoltata della numero 14? (Kari Rueslåtten)
• Stando a Last.fm, The Homecoming Song: ho iniziato ad ascoltarla in ordine discografico.
20. Canzone preferita della numero 27? (Delerium)
A Poem For Byzantium.
21. Album preferito della numero 16? (Stream Of Passion)
• Il sempiterno The Flame Within.
22. Prima canzone ascoltata della numero 47? (Ramin Djawadi)
• La sigla di Game of Thrones, anche se ho iniziato ad ascoltarlo davvero con Light Of The Seven e lo amo principalmente per la prima stagione di Westworld.
23. C’è una canzone della 18 che trovi catartica? (Sia)
• Per un certo periodo lo è stata Chandelier.
24. Come hai scoperto la numero 21? (Theodor Bastard)
• Grazir all’Innominabile quando ancora aveva gusti decenti.
25. Canzone della numero 26 che ti rende felice? (Lady Gaga)
• Quel bellissimo concentrato di energia, abbracci, allegria e girotondi manina nella manina che è Rain On Me! Ovviamente sono sarcastico e pure un fan vecchia scuola brontolone: Born This Way e Hair a mani basse.
26. Canzone preferita della numero 3? (The Gathering)
• Sapete che esiste una versione live di Saturnine in cui Silje duetta con Marjan degli Autumn?
27. Album preferito della numero 2? (Within Temptation)
• Sharona Milfona, quand’è che me lo tirate fuori un altro The Unforgiving?
28. Prima canzone ascoltata della numero 32? (Gwen Stefani)
What You Waiting For?, duh.
29. Testo preferito della numero 8? (Anathema)
• Le due Untouchable, duh. Anche se secondo i fan storici metallarozzi sicuramente non sarà al livello di perle tipo, uhm, Nocturnal Emission.
30. Quante volte hai visto la numero 17 live? (Anneke Van Giersbergen)
• Due volte da solista, più una volta alla magnifica rimpatriata con i The Gathering.
31. Come hai scoperto la numero 44? (Lucia)
• Strano che ancora non l’avessi detto: grazie a Luisa!
32. Album della 12 che ritieni sottovalutato? (Autumn)
• Tutti i loro album da My New Time in poi. Ma temo che quel capolavoro che è Stacking Smoke sia il più sottovalutato di tutti perché la grossa pausa discografica ha fatto sì che molti si dimenticassero di loro.
33. Canzone peggiore della numero 29? (Nemesea)
Whenever mi tedia parecchio, ma anche Kids With Guns non mi fa impazzire.
34. Prima canzone ascoltata della numero 34? (Sleepthief)
Rainy World, grazie a (ovviamente) Luisa.
35. Album preferito della numero 28? (Alizée)
5. Mi spiace per Mylène Farmer e quell’altro tipo che lavevano marketizzata da eterna Lolita, ma ha fatto cose molto migliori da adulta.
36. Quante volte hai visto la numero 42 live? (Karen Elson)
• Karen, ti voglio bene, ma ora un live me lo devi per autografarmi il libro, visto che hai iniziato a dare le copie autografate dopo che l’avevo già comprato.
37. C’è qualche canzone della 36 che consideri un guilty pleasure? (Emmelie De Forest)
• L’ennesima ottima cover di Young And Beautiful di quella busta di plastica ambulante.
38. Come hai scoperto la numero 48? (Woodkid)
• Sono quasi sicuro di aver visto il video di Run Boy Run sul profilo del (fu) Uomo di Veronica, ma poi Luisa mi ha passato I Love You. Sarebbe stato umiliante per Veronica se il (fu) Uomo mi avesse fatto scoprire della musica mentre lei no!
39. Album preferito della numero 7? (Delain)
• Facciamo un respiro profondo: Apocalypse And Chill. Ecco, l’ho detto: mi piace più di Lucidity.
40. C’è qualche canzone della numero 31 che ti mette nostalgia? (Meg Myers)
• Ascoltavo Heart Heatd Head andando a trovare Francisco a Firenze.
41. Canzone della 41 che non ti piaceva ma adesso ami? (Portishead)
• Non mi viene in mente nulla di particolare.
42. Testo preferito della posizione numero 24? (Emilie Autumn)
Rose Red, ma un po’ tutto Enchant.
43. Canzone più emozionante della numero 46? (Amaranthe)
• Sembrerebbe una di quella domanda-trabbocchetto in cui ridi perché pensi: “Dai, gli Amaranthe si destreggiano tra shekera-culo profonde come una pozzanghera e ballad che ci provano troppo per emozionare davvero”. E poi c’è Exhale.
44. Canzone della numero 25 che ti rende felice? (Tristania)
• Sembra una barzelletta, ma ce n’è una: Ab Initio!
45. Canzone preferita della numero 9? (Marina & The Diamonds)
• Non so decidermi tra Happy e Immortal.
46. Primo album ascoltato della numero 37? (Clare Maguire)
• La seguo sin dai tempi del debutto, Light After Dark.
47. Membro preferito della numero 4? (Hurts)
• Dalle ultime notizie pare che Stupido Sexy Theo abbia fatto fuori il mocio vileda e sia tornato scopabilissimo.
48. Prima canzone ascoltata della posizione numero 43? (iamamiwhoami)
• Una delle canzoni della serie dei video misteriosi. Maremma, che tempi che erano!
49. Album che possiedi della numero 20? (Draconian)
• Ho i primi sei. Il settimo non l’ho (ancora) comprato perché sono tuttora offeso con Anders e Heike per le loro sparate “non sono né di destra né di sinistra ma forza Trump” del 2016, ma soffro molto perché è un ottimo disco.
50. Il miglior ricordo associato alla numero 1? (Theatre of Tragedy)
• Ma vogliamo parlare della volta che Hein mi ha contattato per chiedermi se potevano usare la mia foto per il booklet di Last Curtain Call, ed era il primo aprile ed ero convinto che mi stesse facendo un pesce d’aprile?

Thursday 16 September 2021

XV

Non scrivo il super cheesy post di “auguri” per il compleanno del blog dal 2016, il decennale dell’apertura. E anche prima, mi sono accorto ricontrollando il mese di settembre di ciascun anno, dopo il 2013 (l’anno del “ritorno”) ho più o meno lasciato perdere. In fondo, i modi di parafrasare “Ho aperto un blog tot anni fa, grazie a / per colpa di esso sono successe queste e queste cose, nell’anno del Signore 20xy continuo imperterrito a scriverci da vecchio Millennial bacucco quale sono” non sono illimitati.
Però ho un po’ la fissa delle “cifre tonde”, ovvero i multipli di cinque, per cui ho pensato che i quindici anni – quindici! – di attività di GothicDoor meritassero almeno una menzione en passant, ed eccoci qui. L’unica è che non ho voglia di cercare una foto di quindici candeline, anche perché è il caso di contenere il cringe.
 
Non avendo voglia di lanciarmi in sentimentalismi, miele o maratone di ricordi, stavo invece riflettendo sui numeri del blog. Non nel senso di traffico – mi rendo conto che GothicDoor è la mia personalissima vox clamantis in deserto, scrivo principalmente per me stesso – quanto di post, attività, anni di esistenza eccetera.
Ad esempio, continuo a pensare a GothicDoor come un blog esule di Splinder, ma non mi ero soffermato a riflettere sul fatto che ormai è su Blogspot da ben nove anni, paragonati ai cinque su Splinder. D’altro canto, il totale dei post degli anni su Blogspot è tuttora notevolmente inferiore rispetto a quello di Splinder, quando bloggavo in continuazione sulla qualunque, quindi forse non è scorretto identificare il blog in base a quello che è stato il suo “periodo d’oro” (almeno per quantità; qualitativamente, meno post significa che scrivo di cose più serie).
 
Comunque il succo del discorso è che, quindici anni dopo, con calma (un sacco di post salvati in bozze, terminati poi e pubblicati a posteriori nella data d’inizio) ma inossidabile costanza, sono ancora qui a scrivere muri di testo invece che fare i balletti su TikTok. Poi critico gli hipster che ascoltano ancora i vinili.
Preferisco non scrivere nulla sulle mie aspettative circa la longevità di GothicDoor, visto che il rischio di fare la Margaery di turno è sempre dietro l’angolo, ma sono sinceramente affezionato a questo posto.
 
Auguri, GothicDoor.

Friday 10 September 2021

Evanescence, dieci anni dopo

Sono passati dieci anni e credo sia il caso di parlare di Evanescence.
Non la band, non l’EP del 1998, ma l’album che porta questo titolo perché – lo sostengo ancora – Pescy & co. non avevano idea di cosa inventarsi.
Del resto, ho postato per il decennale del mio primo ascolto di Fallen, per quello dell’uscita di The Open Door, quindi perché rompere la tradizione? Dieci anni fa ad oggi Evanescence veniva diffuso illegalmente su internet (con un mesetto buono di anticipo rispetto alla pubblicazione, cosa che mi fece sghignazzare non poco) e sento di aver qualcosa da dire a riguardo.
 
Ovvero, col senno di poi ammetto che potrei essere stato eccessivamente duro con quell’album. Almeno un pochino.
Con questo no, Stefano, non sto dicendo che Evanescence fosse segretamente un bell’album fin dall’inizio: resto fondamentalmente dello stesso parere che espressi ai tempi (qui rifinito e approfondito come recensione vera e propria per Armonie Universali), al massimo alleggerirei un po’ il giudizio su un paio di brani. Però sarei sleale a non ammettere che lo espressi in maniera molto più dura del necessario e misi fin troppa enfasi sui lati negativi delle canzoni per pura Schadenfreude e pettiness.
Evanescence non è un buon album, ma non è la macchia indelebile sulla cultura musicale occidentale che cercai di farne all’epoca. A volte, vuoi per le circostanze, vuoi per stanchezza artistica, vuoi per la fretta, una band pubblica un album brutto: pace, ce ne si fa una ragione e si spera in quello successivo. Perché, quindi, tutta quell’acredine?

Beh, con dieci anni di maturità in più posso ammettere che il mio principale problema con Evanescence è che detesto non avere ragione. La sua stessa esistenza, a prescindere dal contenuto, mi urta perché ha smentito le mie teorie secondo le quali Pescy volesse lasciar morire gli Evanescence di incuria per dedicarsi al progetto solista, che ero pronto a sbattere in faccia con somma soddisfazione alla gentaglia del fanclub.
Che poi l’album fosse oggettivamente carente è stata una fortunata (quanto prevedibile) coincidenza, un bonus che mi ha permesso di ammantare di validità e critica musicale seria un’antipatia viscerale e personale. Per questo ho spolpato e rosicchiato la critica a quel disco con lo stesso gusto che riservavo alle alette di pollo dei Mastri d’Arme: perché avevo la scusa perfetta per farlo a pezzi a ragion veduta senza essere tacciato di parzialità. Ma sì, il vero motivo per cui criticare quella produzione opaca e cacofonica, quel songwriting insipido, quel sound generico e quegli arrangiamenti superficiali mi portava così tanto piacere è che rosicavo perché non avevo avuto ragione sul futuro della band. Quello, più il desiderio segreto di convincere quanta più gente possibile che quel disco non fosse necessario, così da sentirmi dire: “Cavolo, Alessandro, quanto sarebbe stato meglio se avessi avuto ragione e si fossero sciolti davvero!”. O che l’evidente mediocrità del prodotto fosse il colpo di grazia e la band si sciogliesse subito dopo.
Beh, a riguardarla dopo tutti questi anni, l’intera situazione era piuttosto ridicola. Me l’ero presa a morte per una futilità incredibile – se anche Pescy avesse messo la band in pausa a tempo indeterminato per fare le cose da solista, anche cinque, sei anni di silenzio non ne avrebbero necessariamente decretato la fine. E comunque, non fu poi molto tempo dopo che i miei gusti musicali maturarono e io stesso giunsi alla conclusione che un suo album solista synthpop sulla Luna (sempre per citare Stefano) sarebbe stato molto interessante.
 
Comunque sia andata con il non-split della band, ci tengo a sottolineare che in retrospettiva ho avuto ragione su praticamente tutto il resto circa il disco, come le interviste di Pescy hanno man mano rivelato esplicitamente o tra le righe: lei voleva dedicarsi al progetto solista, è stata la label a richiamarla (verosimilmente per via dei We Are The Fallen), le ha tirato dietro il materiale solista che aveva riconvertito di corsa ad album degli Evanescence, e poi hanno dovuto riscrivere tutto in fretta e furia – e da qui il disco è uscito com’è uscito.
 
Volendo dare un giudizio meno caustico, avrei comunque fatto fuori Siccoviroll Siccoviroll e The Other Side perché sono indegne, Made Of Stone continua a non potersi sentire (e non capisco perché i fan la adorino tanto), e Erase This avrebbe avuto bisogno di un vero ritornello.
Per il resto, se spengo il cervello e faccio finta forte forte che sia un’altra band, quasi quasi perfino Du Uocciuocciuon non è così insopportabile; buttata in radio ci sta, e forse non mi farebbe più perdere l’erezione per poterci alzare senza dare nell’occhio dalla panchina di Parco Sempione su cui stavamo limonando quella volta.
Sono anche abbastanza deciso a salvare Say You Will: non è un granché, ma nemmeno attivamente offensiva (perlomeno finché Pescy non tenta di cantarla live).
Droppate quelle tre canzonacce e incluse invece le quattro bonus track, avrebbe potuto essere un album decente degli Evanescence: non il loro migliore, sempre prodotto malissimo, ma ben sopra la sufficienza risicatissima che gli diedi ai tempi.
 
Quanto alla band, col senno di poi, sono tutto sommato contento di non aver avuto ragione: una volta fatta pace con Pescy, non mi sarei privato per nulla al mondo né di Synthesis, specie per come ha riportato in vita le canzoni di Evanescence, né tantomeno di The Bitter Truth.
Comunque, ritengo che l’intera epopea de La Pescivendola e dell’album peggiore di una delle mie band preferite sia una delle esperienze che più mi ha fatto crescere come fan e ascoltatore di musica: ho imparato che gli artisti hanno diritto a un loro arbitrio e una loro vita privata, che le loro creature possono anche sparire, ma i ricordi rimarranno sempre, che evolversi e cambiare idea è positivo, e che l’industria musicale è più complessa di “Ommioddio, se gli Evanescence non fanno un altro album entro tot tempo non avranno più i soldi per fare dei bei videclip e dovranno rassegnarsi a Pescy che fa jogging sul Brooklyn Bridge la sera per smaltire il matrimonio” (perché un rancore è per sempre, DeBeers™).

Ps, lo ribadisco per Stefano e Lukas: io sono stato perfido, ma Evanescence continua a essere un album brutto.
E per controbilanciare a questo mio momento di sincerità, ricordiamoci di quella volta che Pescy è cascata come una pera cotta sul palco.
DU UOCCIUOCCI– SBAM!


Monday 30 August 2021

Morigeratezza

Oggi sono uscito a cena dal messicano con Beatrice. Aspettavo il suo green pass prima di invitarla, e appena è arrivato ne abbiamo approfittato. Non ricordo nemmeno più come fosse la vita di prima, quando così, per capriccio, potevo prendere e andare a cena fuori, quando la Grande Shanghai la domenica sera era un rito.
A parte l’ottima cena, comunque, dopo siamo andati in un locale in centro e abbiamo ordinato qualcosa da bere. Una Coca Cola lei, un cocktail analcolico io. Ci ho scherzato sopra dicendo che siamo vecchi, ma la verità è che l’alcool non mi manca affatto. Non mi manca né come gusto aggiunto al cocktail, né tanto meno per come mi fa sentire.
 
C’è stato un periodo, tra il 2012 e il 2015, in cui essere “ubry” sarà anche stato divertente, ma è finito da lungo tempo. Ora, se ripenso alla sensazione di stordimento, di vertigine, di disorientamento, ne ho un ricordo distintamente negativo. Per non parlare, poi, della sensazione fisica, del bruciore nella gola, della leggera nausea, dello stomaco sottosopra. No grazie. E per fortuna ho sempre sofferto pochissimo di hangover, ne ricordo tre, massimo quattro esempi in cui davvero avevo esagerato o mischiato cose diverse. Anche senza il malessere del giorno dopo, proprio il ricordo della sensazione durante la stessa bevuta non mi suscita alcuna nostalgia. Credo di essermi lasciato quella fase della mia vita alle spalle, almeno nell’immediato futuro.
 
Poi magari tornerò a Trieste e prenderò volentieri un aperitivo, uno spritz bianco alla cannella da Lettera Viva, ad esempio, ma quello è forse più facile da immaginare perché l’intera mia vita a Trieste fa parte del prima. Per ora non mi dispiace questa vita più morigerata senza quel gusto per l’autodistruzione che ogni tanto mi prende.

Monday 23 August 2021

Red Nostalgic Hood

Stasera ho guardato Red Riding Hood, il film del 2011 con Amanda Seyfried, per la prima volta. Con solo dieci anni di ritardo, ma in compenso l’ho fatto (senza nemmeno pensarci, sulle prime) durante una notte di luna piena, come ulteriore bonus. Per essere un film col punteggio del 10% su Rotten Tomatoes, mi ha lasciato con un mucchio di pensieri in testa e sensazioni nel petto che sento la necessità di dipanare scrivendoci un po’ sopra.


Probabilmente è perché, come film, è moltissimo figlio del suo tempo. Nei primi Anni Dieci le versioni “adulte” e gotiche delle fiabe classiche andavano fortissimo: pochi mesi dopo Red Riding Hood iniziava la messa in onda della prima, gloriosa, bellissima stagione di Once Upon A Time; l’anno successivo uscivano ben due film su Biancaneve, l’ottimo Mirror Mirror e il pessimo Snow White And The Huntsman; Maleficent, che uscì tre anni dopo, era già in produzione, e… un momento. Per qualche strano motivo ho le idee molto confuse sulla timeline di quel periodo – in che senso il film di Twilight era uscito tre anni prima e per allora eravamo già a Breaking Dawn?
Beh, dicevo, ho odiato con passione Alice In Wonderland di Tim Burton quando l’ho visto (anche lui postumo) qualche anno fa ma, pur essendo un film tremendo che ha fatto un pessimo lavoro nel rendere “adulta” la storia originale, è uscito nel 2010 e devo quindi probabilmente rendergli atto di aver fatto da apripista a questo filone.
Side note, credo che la mia confusione temporale dipenda dal fatto che nella mia testa il 2006 è la fine del decennio precedente mentre il 2008 è già nella nuova decade, probabilmente perché è stato l’anno in cui mi sono trasferito a Trieste ed è quindi stato un momento di passaggio per me. Per questo ho sempre l’impressione (sbagliata) che ciò che è successo intorno a quell’anno sia successo molto dopo. Ma divago.

Dicevo, quindi, che il film è, almeno tematicamente, una capsula del tempo di quel periodo che, come ho già scritto di recente, mi è molto caro. Fra l’altro, questo film in particolare va a toccare una corda specifica della mia nostalgia, perché l’episodio con cui mi sono appassionato a Once Upon A Time è stato proprio Red-Handed, che Deborah stava guardando mentre trascorrevo il pomeriggio con lei uno dei week end che ero andato a Milano. Un po’ me lo immaginavo, un po’ ho avuto la conferma stasera, ma Red-Handed è stato praticamente ricalcato da questo film, dettaglio più dettaglio meno, con considerevoli modifiche al plot twist finale. Ma a prescindere, mi è piaciuto così tanto che mi ha fatto innamorare della mia prima serie dai tempi di Charmed, ed è stato poi facendo leva su Once Upon A Time che Katia mi ha introdotto all’intero mondo delle serie TV.

A proposito di Katia, ho scoperto che ama molto questo film per gli stessi motivi per cui è piaciuto a me – su cui tornerò dopo, però, perché al momento c’è altro da eviscerare.
La curiosità di guardarlo mi era salita l’anno scorso quando, sulla scia di Dark, avevo iniziato ad ascoltare Fever Ray, che ha scritto una canzone, The Wolf, specificamente per questo film (oltre ad aver concesso la magnifica Keep The Streets Empty For Me). Però il seme dell’interesse era stato piantato molto, molto prima.
Un’immagine che associo vividamente a questo film è un assolato pomeriggio a casa di Mariolina, nella sua cucina, nel 2012. Ricordo che si stava zappingando in TV e di aver visto una scena di Red Riding Hood, da qualche parte nel mezzo, ma le avevo chiesto di cambiare perché mi aveva colpito e volevo guardarlo dall’inizio senza spoiler. Poi me ne sono dimenticato, ma il punto è un altro: sono quasi sicuro che, delle due volte che ero andato a trovarla quell’anno, fosse in autunno perché faceva abbastanza fresco da stare in piedi. Quindi era la volta in cui lei mi aveva convinto a iscrivermi a Fatum Heredis e avevo creato il mio PG, Florian, decidendo di farlo ibrido vampiro con prestavolto Ben Barnes invece che half-veela con Chris Colfer. E oh boy, le ramificazioni positive di quella scelta.
Forse è anche per questo, perché mi è tornato in mente quell’episodio, che il film “è rimasto con me” dopo che l’ho visto.
 
Per quanto riguarda il film in sé, una volta fatto pace con i personaggi un po’ sottili, alcuni dialoghi un po’ scontati e una storia che avrebbe potuto avere uno sviluppo più profondo, ha delle estetiche davvero magnifiche, una cinematografia davvero bella e delle atmosfere di grande effetto. E questa è una cosa che apprezzo, tanto da soprassedere su altri difetti, che comunque qui non sono esagerati. Il mistero su chi fosse il lupo mi ha genuinamente tenuto inchiodato, forse in parte per il confronto inconscio con Red-Handed che mi ha fatto trascurare eventuali indizi (ero convinto che qui il lupo fosse Peter, visto che era il depistaggio su Once Upon A Time).
Oltretutto, l’ho trovato nettamente superiore sia a Alice In Whateverland e Maleficent, sia a Bellaswan e il CacciaThòr. Forse perché, nel suo voler dare un tono più adulto e gotico alla fiaba, almeno non tenta di darsi troppa importanza. La storia ha un’estensione modesta, copre un piccolo villaggio e i suoi piccoli drammi, e i personaggi riescono a trasportarla bene; per contro, i ritagli di carta velina che popolano gli altri tre film rimangono del tutto schiacciati sotto il peso di profezie, guerre epiche, macchinazioni politiche e destini di interi mondi. Bellaswan e il CacciaThòr, in particolare, è un ottimo termine di paragone perché, in teoria, anche quello è un film che si regge su delle belle estetiche (per quanto riciclate da destra, manca e centro); solo che anche quelle fanno parte del suo sforzo di darsi più importanza del necessario, di darsi un tono epico e grandioso, e finiscono quindi per evidenziare ancora di più quanto labile sia la storia, inconsistenti i personaggi e sprecata Charleze Theron, invece che risultare godibili a prescindere da tutto quello.
Red Riding Hood è invece come Mirror Mirror: un film che, pur non privo di difetti, comprende la semplicità archetipica della sua fonte, trova un modo personale di reinterpretarla e inserisce elementi che la rendono più interessante di una semplice fiaba per l’infanzia, ma senza aggiungere pesantezza non necessaria. E poi, presenta il tutto in una confezione visiva davvero magistrale che fa gustare ogni singolo fotogramma dall’inizio alla fine, con in più una colonna sonora davvero bella.

Se proprio devo trovarle una pecca, Red Riding Hood è una di quelle storie che avrebbe beneficiato tanto dal finire in One True Threesome: Valerie aveva chimica sia con Peter che con Henry, e Peter e Henry avevano ancora più chimica tra di loro. Per cui accetto il mio nuovo headcanon che Henry sia tornato dalle sue imprese e sia andato a vivere con loro nella casetta del bosco con la magnifica scala intagliata in un unico tronco d’albero, in tre in un letto con scambio generale di effusioni.
In fondo, non che io mi stia riaffacciando nel tunnel delle fanfiction or anything. O che, nove anni dopo, mi sia tornata la voglia di realizzare qualcuna di quelle serie fotografiche / simil-editoriali a tema “Fiabe contemporanee” che stavo concettualizzando i primi tempi in cui guardavo Once Upon A Time.
 
Ho decisamente nostalgia dell’inizio dello scorso decennio.

Tuesday 17 August 2021

The Millennial War

Ho seri dubbi che qualcuno di noi avesse mai pensato che la guerra in Afghanistan avrebbe mai risolto qualcosa.
Non ricordo quali fossero i sentimenti iniziali a riguardo, visto che è stata poi eclissata dalla ben più famosa e controversa guerra in Iraq: di quella sono sicuro, era stata percepita fin da subito come inutile, pretestuosa e imperialistica da questa parte dell’Atlantico, ma l’invasione dell’Afghanistan era arrivata proprio sulla scia dell’11 settembre che, per un motivo o per l’altro, era stato il più grosso trauma collettivo della mia generazione in tutto l’Occidente. L’opinione pubblica americana era sicuramente interventista, ma in Europa non ricordo proprio: something something Al-Qaeda, talebani brutti e cattivi, povere donne in burka – tutto questo sicuramente, ma dell’intervento militare in sé non ricordo cosa si pensasse dalle mie parti.
Dicevo, quindi: dubito che qualcuno si fosse illuso che questa guerra avrebbe portato benefici né a noi, né tanto meno agli Afghani. Però vederla concludersi nel modo in cui si è conclusa è davvero deprimente, e noto che molti dei miei coetanei stanno esprimendo un simile senso di scoramento e impotenza.

Forse è proprio per il perverso Ouroboros che ne è uscito: vent’anni fa siamo partiti con uno Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo, e oggi, nel momento in cui gli Occidentali hanno levato le tende, ci siamo ritrovati con quello stesso Stato fondamentalista, dittatoriale e oppressivo.
Cosa abbiamo fatto in queste due decadi? Qual è stato il senso di tutta questa violenza, della devastazione, delle morti a centinaia, della carneficina di un intero popolo? A cosa è servito?
Credo che sia così demoralizzante perché questa guerra è una metafora perfettamente calzante della vita di tutti noi, che nello stesso lasso di tempo siamo cresciuti e diventati adulti: appena abbiamo iniziato ad avere coscienza di come sia il mondo dopo l’infanzia, ce lo siamo visto stravolgere da eventi internazionali la cui portata era difficile da capire. Abbiamo lottato con unghie e denti per cercare di strappare un po’ di decenza, rispetto, empatia e calore dalla società intorno a noi. Abbiamo protestato contro governo dopo governo che erodeva la nostra base scolastica e distruggeva la nostra stabilità lavorativa. Abbiamo stretto i denti attraverso una serie infinita di crisi e difficoltà economiche. Abbiamo iniziato ad alzare davvero la voce sull’imminente crisi climatica. Siamo sopravvissuti allo stillicidio che, dagli Stati Uniti, il trumpismo ha avuto anche da noi. Pride dopo Pride, sciopero dopo sciopero, manifestazione dopo manifestazione, dibattito dopo dibattito. Abbiamo iniziato a vedere i risultati, a guardare la generazione dopo la nostra che finalmente poteva essere un po’ più libera, un po’ più se stessa, che cresceva non già più liberandosi di certi bigottismi e paraocchi, ma senza averli mai davvero indossati. Abbiamo sperato che la coscienza collettiva fosse maturata, che gli estremisti fossero solo una frangia che continuava a fare una guerriglia senza futuro con i suoi Family Day e i suoi slogan sui porti chiusi e i suoi Patti Lateranensi.
Ed eccoci qui, vent’anni dopo, ancora nella miseria più nera, ancora senza un futuro, ancora con crimini d’odio nelle strade senza che si facciano leggi per arginarli, con quell’accozzaglia di neofascisti, filonazisti, integralisti cristiani, ipocriti e terroristi domestici che sono praticamente alle porte di Montecitorio e Palazzo Madama, pronti ad aspettare il ricambio del Governo per impossessarsene perché la maggioranza del nostro popolo probabilmente vorrà quello. Il tutto mentre l’ambiente intorno a noi è sull’orlo della devastazione più totale.

Ora, lungi dal voler affermare che da noi le cose vanno male come in Afghanistan. Non abbiamo le bombe, le sparatorie le abbiamo in casi estremamente eccezionali (a parte gli Stati Uniti), non seppelliamo un caro ogni settimana e mezzo, i nostri estremisti devono sgusciare entro i limiti della legge invece che imporli loro, non abbiamo vissuto la guerra in quanto tale. Non voglio paragonare la svolta autoritaristica e nazionalista dei Paesi occidentali con la devastazione di vent’anni di conflitto miltiare.
Ma questo sentimento di aver combattuto per decenni solo per trovarci punto e accapo ce l’abbiamo anche noi. Forse è per questo che il triste, per quanto prevedibile, epilogo della guerra in Afghanistan ha toccato qualcosa in molti dei miei coetanei. È il senso d’impotenza di fronte a decenni di lotte e sofferenze solo per trovarci, se possibile, a un punto ancora peggiore, con la fine completa di qualunque speranza per il futuro. È pensare che questo stesso malessere esistenziale che anche noi proviamo, i nostri coetanei in Afghanistan ce l’avranno decuplicato, e in una maniera molto più concreta e devastante di quanto, si spera, noi potremo mai conoscere.
 
Siamo cresciuti nell’arco di tempo della guerra in Afghanistan, e la guerra in Afghanistan ha finito col trasformarsi nella triste metafora di tutti i Millennial del mondo.

Saturday 14 August 2021

Protectio memoriae

In un esercizio di assoluta futilità e pettiness, ho iniziato da un paio di giorni a togliere i tag della Ciospa a tutti i vecchi post su Facebook che li contenevano.
A dirla tutta, il vero motivo per cui non l’avevo fatto già gli anni scorsi è il ridottissimo tempo che dedicavo a quell’incubo di social network, figurarsi se avevo voglia di scavare tra i post passati. Ma dato che quest’anno Zuckerberg ha deciso di spammarmi i ricordi sotto forma di notifica quotidiana, probabilmente in un disperato tentativo di farmi trascorrere più tempo sulla sua piattaforma, ho ricominciato a scorrerli anche solo per levarmi la notifica, provando fastidio ogni volta che vedevo la Ciospa taggata.
Così ho deciso di intervenire caso per caso: basta uno schiocco di dita e voila, damnatio memoriae.
A volte lo faccio subito dopo mezzanotte, così che, se apre la pagina, dei suoi ricordi, non li troverà sicuramente. A volte me ne dimentico, e mi chiedo se l’anno prossimo si accorgerà che manca qualcosa.

Che poi mi chiedo: è davvero pettiness, la mia?
A muovermi è una specie di pudore. Si tratta dei miei ricordi, in fondo, e non voglio che una persona che si è dimostrata immeritevole del mio affetto e della mia considerazione vi abbia accesso.
È diverso rispetto alle foto: quelle, per quanto cariche di ricordi, hanno un valore primariamente artistico ed espressivo; c’è stato del lavoro da parte sua (per quanto, spesso, riluttante) ed è una cosa che rispetto.
Ma i post di cazzeggio su Facebook… quelli no. Non ha diritto di riviverli con me. Mi sono trovato spesso a sorridere per la nostalgia o perché dicevamo e facevamo cose genuinamente divertenti, e subito ho pensato che no, non si merita di sorridere e ricordare anche lei: ha perso quel diritto quando ha deciso di ignorare ciò che avevo da dirle per cercare di uscirne pulita.

Alla fine, forse non è nemmeno davvero una damnatio, quanto piuttosto una protectio memoriae. Lei ha fatto la sua scelta quando ha deciso di darmi per scontato pensando che non ci sarebbero state conseguenze. Ebbene, anche queste lo sono: mi riprendo l’esclusiva sui momenti di amicizia, visto che ormai posso essere certo della loro genuinità solo da parte mia.