Thursday 21 November 2019

Cristallizzato

Ho sempre pensato che le mie foto fossero, per la maggior parte, dei racconti allegorici. Tolte alcune che nascono solo per essere esteticamente piacevoli, cerco sempre di narrare qualcosa tramite loro: un’emozione, un’idea, una storia, la mia interpretazione di un elemento della cultura a cui appartengo. Del resto, perché creare delle vuote immagini solamente decorative?
L’allegoria, però, sta nel fatto che, a parte alcune immagini apertamente autobiografiche, c’è sempre un filtro, un simbolo che si frappone fra le emozioni che ci metto e l’immagine finita: di solito, questo filtro è la musica. È come un gioco di specchi: ascolto una canzone, ci proietto sopra le emozioni che fa risuonare dentro di me, e quella me le riflette indietro sotto forma di immagine mentale su cui basare la foto. C’è quindi quasi sempre una componente autobiografica, ma indiretta: sono emozioni che sento, sì, ma genericamente, associate più alla canzone che le risveglia che al momento in cui ho scattato la foto.

Non mi aspettavo, quindi, di ritrovarmi a sfogliare foto di qualche anno fa e sentirmi come se mi entrassero sotto le costole e me le strappassero via per lasciare il cuore esposto.

A forza di pubblicare meticolosamente l’intera mia gallery su La Terra dei Cachi, un nuovo gruppo a cui mi sono iscritto, sono arrivato a cavallo fra il 2011 e il 2012, l’anno della mia grande fuga da me stesso (quello durante il quale non riuscivo a resuscitare il blog dopo la morte di Splinder e di cui i miei lettori non hanno idea).
Ebbene, rivedere quelle foto riporta a me quei tempi con la stessa potenza di quando li ho vissuti. Le stesse emozioni, fresche come appena provate: l’incertezza, la confusione, l’isolamento, la delusione, il senso di tradimento, l’euforia, la spensieratezza, la frivolezza… tutti i motivi per cui finivo a Milano almeno una volta al mese, e adesso la evito quanto più possibile.

E mi sono reso conto che la stessa cosa accade con molte altre foto, a tutti i livelli della mia linea temporale. Perché se è facile che le foto che ho scattato nel 2014 subito dopo la morte di Murka mi riportino il lutto di quei giorni – del resto, le ho scattate nello stesso luogo dove l’ho seppellita – è meno ovvio che quelle che ho scattato nel 2013 il week end in cui la Mater mi ha chiamato per dirmi che era stata male la prima volta mi riportino indietro a quel periodo.
E prima di allora, fra il 2010 e il 2011, sento nuovamente il tumulto della mia carriera universitaria che cadeva a pezzi, della nevrosi che iniziava a masticarmi, i sensi di colpa, l’inadeguatezza, ma anche il puro e semplice piacere di riuscire a fregarmene e partire per Londra o per Stavanger a vedere la mia band preferita.

È tutto lì, cristallizzato nelle foto che ho scattato. Non mi aspettavo che, mentre al pubblico raccontano la storia che ho deciso di costruire, a me raccontano la mia autobiografia, riportandomi anno per anno, mese per mese, settimana per settimana, momento per momento, a ciò che ho vissuto negli ultimi dieci anni.
E sono grato di questo. Mi sento spesso come se avessi passato tutto questo tempo addormentato, senza che mi succedesse nulla, senza che io provassi nulla, mentre non è stato affatto così. Le mie foto mi dimostrano che ci sono, ho vissuto, esisto. Ed è una cosa bellissima.

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