Sunday 31 January 2021

Pandemia e serietà

“Sai, stavo pensando…”, faccio io a cena, guardando il calendario.
“Sì?”, risponde la Mater.
“Oggi è domenica 31 gennaio. Praticamente è febbraio…”
Lei sogghigna: “Non è che, già che ci sei, rimani fino al mio compleanno?”
Ci guardiano e scoppiamo a ridere.

Questo del compleanno è un nostro inside joke: è proprio “rimanendo fino al compleanno di mamma” (ufficiosamente aspettando di vedere come si evolveva la situazione quando i primi casi sono arrivati in Nord Italia) che sono finito a stare ormai oltre un anno qui da lei invece che su da me, e francamente non è che me ne lamenti.
La battuta è poi diventata che, già che c’ero, potevo rimanere fino al mio compleanno a maggio, e infine che sono rimasto fino al compleanno dell’anno dopo. E non è nemmeno l’unico inside joke che abbiamo circa la pandemia – il più eclatante, quando si starnutisce invece che “salute“ ormai diciamo “Non ce n’è coviddi”. È quel meccanismo di difesa psicologico per cui si cerca di ridimensionare una situazione in qualcosa di risibile per non impazzire. Ma pur ridendoci sopra, prendiamo entrambi molto seriamente le norme di contenimento: usciamo il meno possibile, indossiamo sempre la mascherina (sopra il naso!), non viaggiamo, rispettiamo le norme igieniche (se già odiavo avere le mani sporche, ora provo un malessere fisico a non lavarmele dopo essere rincasato), non votiamo Renzi… facciamo la nostra parte per non finire ammalati e non aggravare ulteriormente la situazione collettiva.

In compenso, poco dopo lo scambio di cui sopra mi ha chiamato il Procreatore. “Ciao, Ale, sto andando in Turchia: non è che vuoi venire?”
E niente, fa già ridere così.
In sostanza, l’azienda per cui lavorava (e per conto della quale ha continuato a fare consulenze internazionali) sta aprendo una filiale da qualche parte lì e serviva che andasse un mio cugino addestrato dal Procreatore; il quale cugino ha subìto un intervento, così il proprietario, pur di non ritardare i lavori, ha deciso di andare lì trascinandosi dietro, in piena pandemia, un ottantenne con già problemi pregressi di sinusiti e malattie respiratorie.
Mi chiedo cosa direbbero i suoi Compagni dell’allora PCI, a sapere che ha messo a rischio la sua salute al servizio del capitalismo per beneficiare il padrone.
Per inciso, i due signori sono stati fermati all’imbarco dell’aereo per la Turchia, visto che sono partiti senza test sierologico, e si sono trovati costretti a prendere un albergo a Roma in attesa dei risultati di quello che hanno fatto lì sul posto. Complimenti, ulteriori occasioni di contagio. Che poi, il Procreatore è vecchio e tonto, posso capire, ma il padrone? Non si è informato sui documenti necessari per un viaggio internazionale, coi tempi che corrono? Non ce la posso fare.
Per non parlare del fatto che tempo qualche settimana e probabilmente l’avrebbero pure vaccinato, mannaggia a lui: che fretta c’era?

In tutto questo, nonostante le aspettative bassissime che ormai gli riservo sempre, il Procreatore mi ha deluso per l’ennesima volta. Vero, l’anno scorso a una certa ci siamo sentiti e ha iniziato a vomitare teorie del complotto sul 5G, i poteri forti e le cure nascoste, con me che, nella più totale disperazione, gli ho dato corda pur di chiudere la conversazione a suon di: “Sì, papà, ma è meglio non parlarne ora, sai… parliamone quando ci vediamo di persona senza telefoni, wink wink”. Ma qualche mese dopo, quando i casi hanno iniziato a diffondersi anche in Paese, aveva ricantato tutto e iniziato a prendere la situazione sul serio, e per un attimo ho sperato, ho sperato davvero che fosse rinsavito.
Poi a Natale ci siamo sentiti e mi ha detto che, quando fosse finita la zona rossa nazionale, ci saremmo visti “magari a pranzo in qualche ristorante”, ma ho ancora tentato di illudermi che fosse un tentativo goffo di organizzarsi per passare del tempo insieme, che per abitudine avesse pensato a un pranzo fuori. Invece no, evidentemente ha sempre continuato a non volersi rendere conto della gravità della situazione e non si meritava quel poco di credito che ero disposto a dargli.
Ecco, è questa la vera mancanza di serietà nell’affrontare una pandemia: non le battute, non gli scherzi, non le risate. È il viaggio non necessario di un uomo nella fascia più a rischio e con una storia di problemi respiratori. Andiamo bene.

Ps: quando mi sono rifiutato categoricamente di muovermi ora, lui ha parlato di “dopo la pandemia” in termini che mi hanno lasciato sottintendere un’idea di andare a vivere e lavorare lì. Nello Stato di Erdogan. Fra l’altro in Kurdistan, una zona che immagino essere assolutamente tranquilla e stabile. Ora, vero che, povero imbecille, era convinto che la Ciospa fosse la mia fidanzata e non sa di me, ma anche tralasciando il piccolo dettaglio che mi butterebbero giù da un tetto, pensa davvero che sarei disposto a rinunciare anche solo all’accesso a Internet e Netflix? Bitch, please.

Wednesday 20 January 2021

Silver Moonlight

Screaming at the walls of fire,
They’re closing in on me.
I hunger for the vertigo, the silver moonlight,
It’s where I wanna be.
Screaming at the walls of fire,
But I’m still running free:
In the silver moonlight I can breathe.

Oggi la Mater ha avuto un'idea folle: farci un giro a piedi lungo la strada che va verso Valverde, praticamente in aperta campagna, per andare a girare un nuovo Pokéstop nella speranza che ci fosse una missione sul campo che ci serviva.
Spoiler: ci ha visto giusto e la missione l'abbiamo trovata proprio lì. Tutto questo, però, è successo dopo le sette di sera, quindi il sole era già calato e la luna era altra nel cielo: sì e no un quarto sbavato sui bordi da un leggerissimo strato di nuvole. La strada in questione è praticamente già in campagna, con un marciapiede separato dalla strata da un guardrail (per questo ci siamo azzardati ad andare di sera) e senza già più lampioni.
Ed è proprio l'assenza di luci artificiali che mi ha permesso di apprezzare appieno come anche un pallido quarto di luna proietti delle ombre nette come quelle del sole. Come tipo di illuminazione, una notte di luna è in tutto e per tutto simile a una giornata soleggiata, se non per il fatto che gli highlight sono più scuri e tutti i colori sono attenuati e tendenti al blu profondo.

Tutto ciò mi ha fatto riflettere su quanto abituato io sia alla città se ho del tutto dimenticato come fosse una notte non illuminata artificialmente. La Mater stessa mi ha raccontato della sua infanzia in un piccolo villaggio in cui ancora non era arrivata l'elettricità, di come nelle notti di luna non servisse nemmeno una lampada a cherosene per camminare, ma bastasse proprio la luce lunare.
Non so perché mi abbia colpito così tanto, ma ho bevuto ogni singolo istante di quel paesaggio, dei rami dei pini, delle foglie delle agavi, dei pilastri dei cancelli, dei cespugli, delle asperità dell'asfalto. Una parte della mia mente ha immagazzinato quelle estetiche in caso serva riprodurle in una foto, ma per lo più è stato semplicemente bello concederci quel piccolo momento di fuga dalla pandemia e dalle mura di casa.

Thursday 14 January 2021

Quando il meme non fa più ridere

Ho appena letto un articolo su Elizabeth from Knoxville, Tennessee, in cui la chiamavano “la manifestante che brandiva una cipolla”.
Nonostante avessi guardato e riguardato il video perché per me era già il meme dell’anno, non ho colto subito il riferimento. Osservandolo meglio, mi sono accorto che quello che avevo pensato fosse un asciugamano bagnato con cui Elizabeth si tamponava la faccia perché, pora stella, le avevano spruzzato lo spray al peperoncino in faccia mentre tentava di fare la rivoluzioneh!, in realtà conteneva una cipolla.
In sostanza, mentre piagnucolava in camera che non le avevano lasciato fare quel che le pareva, si stava strofinando la cipolla sugli occhi per rendere credibile la storia di essere stata peperonata.

E niente, il meme non fa più ridere.
Perché il divertimento era tutto nell’incredulità di Elizabeth, nel fatto che sembrasse non capire perché mai le avessero spruzzato il peperoncino in faccia mentre compiva un reato federale, che fosse talmente entitled da pensare che fosse ok prendere d’assalto il Campidoglio solo perché non era d’accoro col risultato elettorale, e che fosse addirittura offesa che la legge non fosse dalla sua.
Ecco: se invece ha finto tutto, la musica cambia. Ciò che emerge non è più una ragazzina viziata che non capisce perché la maestra non la lascia uscire da scuola all’ora che vuole, ma una stronza che sa di potersi permettere di fingere che la polizia sia stata brutale perché, conscia del suo privilegio in quanto bianca, è sicura che non le capiterebbe mai per davvero.
Improvvisamente, l’intera situazione è diventata grottesca ma non in senso buffo. Elizabeth from Knoxville, Tennessee, non è più divertente, è disgustosa.

C’è poi anche lo Sciamano del Campidoglio e la copertura mediatica che la stampa nostrana gli ha riservato. Per i giornali americani è Jacob Chansley, mentre i giornali italiani si sono subito fiondati su “Jake Angeli”, calcando la mano sulla sua presunta ascendenza italiana, definendolo in alcuni casi italo-americano nonostante nelle fonti in inglese non abbia trovato nulla di simile. Tuttora non è chiaro e se “Angeli” sia un nome d’arte, quello della madre, del padre, del patrigno o cosa (le fonti sono in disaccordo), quindi forse un po’ di prudenza non sarebbe stata una cattiva idea.
Qualunque sia la verità, comunque, è vero che l’idea dell’imbecille italo-americano col costumino con le corna si presta bene alla battuta sul leghista confuso che, da Pontida, è finito a Washington DC a fangirlare Trump ancora agghindato a festa. Ma come ha giustamente fatto notare Katia, fa meno ridere quando a lanciare l’aggettivo “italiano” sul primo imbecille che spopola sul web sia la stessa gente che ancora fa finta che non siano italiani i figli di stranieri nati e cresciuti qui, che hanno frequentato le scuole qui e parlano con l’inflessione della regione in cui sono vissuti tutta la vita.

Forse però è meglio così. Forse il ceffone della falsità di Elizabeth from Knoxville, Tennessee, mi serviva per smettere di ridere come uno scemo e prendere sul serio la situazione penosa in cui versa la nostra società se è capace di produrre simili fenomeni. Anche perché non bisogna mai dimenticare, ad esempio, il fiasco di Io Sono Giorgia: nata come satira tagliente, ha finito col normalizzare la figura di quel mostro, renderla giocosa, quasi simpatica, trasformarsi in un jingle prontamente sfruttato da lei e il suo partito per aumentare la sua popolarità. Forse anche Elizabeth from Knoxville, Tennessee, e Jake Angeli dovrebbero rimanere nella coscienza collettiva per i mostri che sono, non come gli inoffensivi giullari che vorremmo che fossero.

Monday 11 January 2021

Assistere a un evento di portata storica

Devo ammettere che l’idea di aver assistito a un altro evento della portata dell’11 settembre ancora non si è del tutto depositata nella mia mente: l’ho presa abbastanza sul ridere, sul faceto.
Forse è perché il numero contenuto di vittime rispetto a quella volta inganna sulle proporzioni, forse perché, dopo tutto ciò che è successo nel giro degli ultimi dodici mesi, ormai nulla sembra più improbabile. Forse è perché non erano i miei due grattaceli newyorkesi preferiti, o forse perché nessuno si aspetterebbe di inanellare due eventi del genere di fila nel corso della propria vita. Ma è tutto così distante e ovattato che mi viene da accettarlo senza obiezioni come si fa con gli eventi assurdi in sogno: per qualche strano motivo, seguono la logica del mondo onirico e quindi ovvio che accadano così, duh.
Al momento l’intera faccenda è più che altro una fonte d’intrattenimento su Twitter, dove la gente che seguo (per lo più attori, musicisti e artisti, per lo più americani) ovviamente non parla d’altro; il mio contributo al discorso consiste nel lanciare frecciate, tipo sottolineare che la gente che sbraita “Make America great again!” è la stessa che ha dimostrato che gli Stati Uniti sono un Paese nei cui palazzi governativi chiunque può entrare come nulla fosse, o ironizzarci sopra, ad esempio vantarmi di aver avuto ragione, l’anno scorso, quando avevo detto che lasciare che i follower di Trump seguissero il suo consiglio di iniettarsi la varechina nelle vene era una soluzione – a un problema diverso dal covid, ma comunque una soluzione.

Il motivo per cui sto scrivendo questo post è proprio per fermarmi un attimo, mettere lo snark da parte e cercare di spacchettare quello che è successo per trarre qualche conclusione.
Ad esempio, la disorganizzazione del colpo di stato la dice lunga sulla mentalità di chi vi ha partecipato. O meglio, un’organizzazione di fondo c’è stata – il raduno stesso in primis, ma anche i dettagli sempre più orribili che stanno venendo a galla, tipo le fascette di plastica per sequestrare i membri del congresso, gli agenti collusi, i repubblicani che hanno fatto entrare la gente a studiare il luogo. La disorganizzazione a cui mi riferisco è altra: sono andati lì a volto scoperto, con telefoni e altri dispositivi che permettevano il tracciamento, spesso addirittura postando su internet le prove di aver partecipato a un crimine federale di massa, convinti che bastasse entrare in Campidoglio, fare la voce grossa, sequestrare qualche politico e impiccarne qualcun altro sulla pubblica pubblica piazza perché Trump rimanesse al potere.
Hanno dato per scontato che le forze dell’ordine e l’esercito fossero dalla loro parte, che nessun ufficiale avrebbe reagito e che, male che andasse, l’avrebbero fatta franca comunque. E ora sono shoccati – shoccati! – che l’FBI li stia rintracciando uno ad uno.

È forse questo il lato della vicenda che mi terrorizza di più spingendomi a cercare a tutti i costi di riderci sopra: che una fetta di popolazione di uno Stato socialmente avanzato sia così scollata dalla realtà da credere di poter fare quel che vuole senza alcuna conseguenza. A questo giro erano i Democratici in congresso, al prossimo ci passerà sotto qualsiasi altra categoria di persone. E dato che ciò che succede negli Stati Uniti purtroppo finisce per avvelenare pure noi oltreoceano, inizio a temere seriamente per l’integrità della società in cui vivo.

Tuesday 5 January 2021

Pasta indigesta

Nonostante l’impatto per niente positivo che ha avuto sul resto della mia vita, c’è una cosa di sono davvero grato alla Ziaccia.
In fondo alla via dove abitavamo sia noi che lei c’era una di quelle cassette grigie per i contatori elettrici; la via finiva in un incrocio a T quindi, risalendo la strada, questa cassetta stava proprio di fronte per tutta la lieve salita e si vedeva perfettamente.
Avrò avuto sì e no quattro anni: qualcuno aveva disegnato con la vernice a spruzzo nera una svastica su questa cassetta elettrica. Un pomeriggio io, che ovviamente non sapevo cosa fosse questo simbolo, ero a casa della zia, avevo carta e penna in mano per disegnare, e riprodussi la svastica.
Ho solo flash di quello che è successo dopo e, probabilmente, la mia memoria di bambino l’avrà drammatizzato più del dovuto, ma ricordo che la Ziaccia si teneva il petto e, con voce agonizzante, ripeteva: “Per carità, per carità, non voglio nemmeno vederlo, questo simbolo! Solo a vederlo mi sento male!”. La cosa che mi colpì fu che non era arrabbiata, men che meno con me. Non mi ha sgridato, non mi ha punito, era semplicemente atterrita.
Poi lei (quando si è calmata), mio padre e la Mater mi hanno spiegato insieme, a grandi linee, cosa fosse una svastica: che era il simbolo usato dai fascisti, che erano stati persone davvero cattive che avevano fatto delle cose terribili. Ma nonostante quella spiegazione, nonostante ciò che negli anni successivi ho studiato, i monumenti che ho visitato, i documentari che ho visto, le testimonianze che ho sentito, ciò che mi è rimasto più impresso circa il nazi-fascismo è la reazione della Ziaccia (che, essendo nata nel 1933, la guerra l’ha vissuta e nemmeno troppo da piccola): solo vedere il simbolo l’aveva letteralmente fatta sentire male. Avete presente Maria Von Trapp quando vede la spilla di Hans in Cantiamo Insieme? Ecco.
Le sono grato, dicevo, perché oltre al livello conscio, alla consapevolezza razionale dell’orrore che sono stati il nazismo e il fascismo, la sua uscita ha cementato nel mio subconscio il tabù assoluto del nazi-fascismo: fin da piccolo, ho imparato a considerarlo un argomento serio, terribile, da non prendere alla leggera, da non usare come battuta e da non riportare mai più in vita nel presente. Addirittura, vedere le svastiche in film o serie tv ambientati in quel periodo mi mette a disagio – probabilmente è proprio la consapevolezza che quel simbolo è stato riprodotto oggi negli oggetti di scena, per quanto a livello conscio io sappia che è una necessità di accuratezza storica e il framing condanna senza ambiguità il nazismo.

Tutta questa premessa, ovviamente, l’ho fatta per arrivare a lei, la pasta Molisana dal gusto coloniale e sapore littorio.
Credo che questo sia l’unico caso in cui mai dirò: dovrebbero esserci più Ziacce al mondo. O, per lo meno, più persone che, da piccole, hanno visto qualche parente avere un attacco di PTSD ancora cinquant’anni dopo di fronte a una svastica o un fascio littorio: forse avrebbero interiorizzato anche loro quanto profondamente il nazi-fascismo abbia ferito la psiche collettiva di chi l’ha vissuto davvero.
Non ci sono scuse. Non è un problema di marketing, non è colpa di una compagnia esterna, non è un errore in buona fede: il problema non è solo di chi ha scritto e pubblicato quel testo, ma è partito con chi ha pensato bene di recuperare i nomi del periodo fascista quando, per loro stessa ammissione, ci sono alternative, e si è esteso a tutti i gradi intermedi, tutti quelli che hanno approvato l’idea, disegnato i pacchi di pasta, supervisionato la produzione. È terribile che fra tutte quelle persone nessuno abbia avuto una zia anziana che ha impresso loro la gravità e la serietà di giocare col fascismo, che non esiste “non farlo apposta”, tanto meno farlo apposta perché non lo si ritiene chissà che problema.

Naturalmente, sono molto soddisfatto del putiferio mediatico che si è sollevato e faccio del mio meglio per alimentarlo. Non perché speri di vedere la Pasta Molisana in ginocchio pronta a dichiarare bancarotta, ma perché voglio che diventi un esempio. Voglio che sia chiaro a tutti che il fascismo non è una buona strategia di marketing, che per dieci deficienti che sono pronti a comprare il prodotto per la fiaschetta di olio di ricino in omaggio, mille sono ancora consapevoli che il fascismo è tabù.
Ricordo ancora, ad esempio, il putiferio che si era scatenato quando Barilla fece quel commento sulla famiglia tradizionale – tant’è che per un periodo ho utilizzato ironicamente “La Famiglia Barilla” per riferirmi a quell’agglomerato di disfunzionalità che è il mio clan allargato. Ebbene, Barilla è forse fallita? No, è ancora indisturbata su tutti gli scaffali ma, da allora, perfino in Italia ci si è guardati bene dal fare uscite del genere e, se anche non si sono incluse famiglie omosessuali nel marketing, per lo meno non le si è apertamente blastate (beh, a parte Stefano Dolce, ma quello non ci sta con la testa).
Il backlash funziona eccome, quindi è giusto implementarlo di fronte a casi così eclatanti: ormai è da troppo che si tenta di normalizzare il fascismo, è ora di riprendere la lotta dura e intransigente per ricacciarlo nelle fogne a cui appartiene con ogni mezzo a disposizione.

Friday 1 January 2021

Cominciamo bene

Prendendo esempio dal 2013, l’anno che ci portò la malattia di Murka e si concluse con un cotechino avariato per cenone, anche il 2020 ha deciso di regalarci un colpo di coda leggermente sgradevole sotto forma di rollata che non era una rollata, era un pezzo intero di muscolo con tanto di tessuto connettivo e tendini, che la Mater si è dovuta fare in quattro per ripulire e preparare per cena. Venduto come rollata, infilato nella retina, fortuna che la Mater disfa sempre per metterci uno strato di mortadella e qualche spezia, se no avremmo cotto ‘sto mattonazzo senza accorgerci di nulla. A parte la coda spugnosissima, però, alla fine questa… non rollata, questa intricata è stata saporita e tenera, anche perché la Mater l’ha innaffiata con più vino di quello che si scolava zia Anna, la sua amica alcolizzata.

Una cosa che non ho mai raccontato a nessuno per scaramanzia, per paura che poi diventasse vera, è che dopo il post tutto lustrini e fuochi d’artificio con cui accoglievo la nuova decade, la dura realtà è stata che, girando per giocare a Pokémon, lo scorso Capodanno ho schiacciato una cacca di cane. “Fantastico”, ho pensato mentre strofinavo furiosamente la suola contro il primo ciuffo d’erba a disposizione, “adesso tutto l’anno sarà una merda”; a quanto pare, ci avevo azzeccato.
Forse per compensare, ho cercato quantomeno di concludere il 2020 con dignità: alle 23:45 e 46 secondi ho fatto partire Goodbye di Apparat, che è stata la colonna sonora degli ultimi mesi, in modo che terminasse giusta giusta a mezzanotte e cedesse il posto a Forever Is The World, con cui tradizionalmente inizio l’anno nuovo. Che fra l’altro, come canzone è alquanto azzeccata: “I know, by now, every night has its dawn – be aware and see”, le parole di cui un po’ tutti sentiamo il bisogno in questo momento.

Dato che oggi non ho in programma di uscire, posso stare sicuro che non calpesterò nulla; in compenso, non ho nemmeno fatto in tempo a terminare Forever Is The World che già la Mater mi chiamava per una delle sue idiozie, e poi un’altra, e poi una terza perfino quando le ho dato la buona notte e ho tentato di chiamare un po’ Katia, e “Ma non puoi essere arrabbiato già i primi secondi dell’anno!”, quando chiaramente it’s not me who needs to manage my anger, it’s everybody else who needs to manage not to piss me off, goddamnit. (In inglese perché in italiano non rende).
Per cui sì, non sono ancora nemmeno le quattro del nuovo anno e io sono già esasperato e non ne posso più. Andiamo bene.
C’è solo da sperare che la traiettoria sia inversa rispetto al 2020, che all’inizio poco entusiastico corrisponda un proseguimento quantomeno accettabile.