Nonostante l’impatto per niente positivo che ha avuto sul resto della mia vita, c’è una cosa di sono davvero grato alla Ziaccia.
In fondo alla via dove abitavamo sia noi che lei c’era una di quelle cassette grigie per i contatori elettrici; la via finiva in un incrocio a T quindi, risalendo la strada, questa cassetta stava proprio di fronte per tutta la lieve salita e si vedeva perfettamente.
Avrò avuto sì e no quattro anni: qualcuno aveva disegnato con la vernice a spruzzo nera una svastica su questa cassetta elettrica. Un pomeriggio io, che ovviamente non sapevo cosa fosse questo simbolo, ero a casa della zia, avevo carta e penna in mano per disegnare, e riprodussi la svastica.
Ho solo flash di quello che è successo dopo e, probabilmente, la mia memoria di bambino l’avrà drammatizzato più del dovuto, ma ricordo che la Ziaccia si teneva il petto e, con voce agonizzante, ripeteva: “Per carità, per carità, non voglio nemmeno vederlo, questo simbolo! Solo a vederlo mi sento male!”. La cosa che mi colpì fu che non era arrabbiata, men che meno con me. Non mi ha sgridato, non mi ha punito, era semplicemente atterrita.
Poi lei (quando si è calmata), mio padre e la Mater mi hanno spiegato insieme, a grandi linee, cosa fosse una svastica: che era il simbolo usato dai fascisti, che erano stati persone davvero cattive che avevano fatto delle cose terribili. Ma nonostante quella spiegazione, nonostante ciò che negli anni successivi ho studiato, i monumenti che ho visitato, i documentari che ho visto, le testimonianze che ho sentito, ciò che mi è rimasto più impresso circa il nazi-fascismo è la reazione della Ziaccia (che, essendo nata nel 1933, la guerra l’ha vissuta e nemmeno troppo da piccola): solo vedere il simbolo l’aveva letteralmente fatta sentire male. Avete presente Maria Von Trapp quando vede la spilla di Hans in Cantiamo Insieme? Ecco.
Le sono grato, dicevo, perché oltre al livello conscio, alla consapevolezza razionale dell’orrore che sono stati il nazismo e il fascismo, la sua uscita ha cementato nel mio subconscio il tabù assoluto del nazi-fascismo: fin da piccolo, ho imparato a considerarlo un argomento serio, terribile, da non prendere alla leggera, da non usare come battuta e da non riportare mai più in vita nel presente. Addirittura, vedere le svastiche in film o serie tv ambientati in quel periodo mi mette a disagio – probabilmente è proprio la consapevolezza che quel simbolo è stato riprodotto oggi negli oggetti di scena, per quanto a livello conscio io sappia che è una necessità di accuratezza storica e il framing condanna senza ambiguità il nazismo.
Tutta questa premessa, ovviamente, l’ho fatta per arrivare a lei, la pasta Molisana dal gusto coloniale e sapore littorio.
Credo che questo sia l’unico caso in cui mai dirò: dovrebbero esserci più Ziacce al mondo. O, per lo meno, più persone che, da piccole, hanno visto qualche parente avere un attacco di PTSD ancora cinquant’anni dopo di fronte a una svastica o un fascio littorio: forse avrebbero interiorizzato anche loro quanto profondamente il nazi-fascismo abbia ferito la psiche collettiva di chi l’ha vissuto davvero.
Non ci sono scuse. Non è un problema di marketing, non è colpa di una compagnia esterna, non è un errore in buona fede: il problema non è solo di chi ha scritto e pubblicato quel testo, ma è partito con chi ha pensato bene di recuperare i nomi del periodo fascista quando, per loro stessa ammissione, ci sono alternative, e si è esteso a tutti i gradi intermedi, tutti quelli che hanno approvato l’idea, disegnato i pacchi di pasta, supervisionato la produzione. È terribile che fra tutte quelle persone nessuno abbia avuto una zia anziana che ha impresso loro la gravità e la serietà di giocare col fascismo, che non esiste “non farlo apposta”, tanto meno farlo apposta perché non lo si ritiene chissà che problema.
Naturalmente, sono molto soddisfatto del putiferio mediatico che si è sollevato e faccio del mio meglio per alimentarlo. Non perché speri di vedere la Pasta Molisana in ginocchio pronta a dichiarare bancarotta, ma perché voglio che diventi un esempio. Voglio che sia chiaro a tutti che il fascismo non è una buona strategia di marketing, che per dieci deficienti che sono pronti a comprare il prodotto per la fiaschetta di olio di ricino in omaggio, mille sono ancora consapevoli che il fascismo è tabù.
Ricordo ancora, ad esempio, il putiferio che si era scatenato quando Barilla fece quel commento sulla famiglia tradizionale – tant’è che per un periodo ho utilizzato ironicamente “La Famiglia Barilla” per riferirmi a quell’agglomerato di disfunzionalità che è il mio clan allargato. Ebbene, Barilla è forse fallita? No, è ancora indisturbata su tutti gli scaffali ma, da allora, perfino in Italia ci si è guardati bene dal fare uscite del genere e, se anche non si sono incluse famiglie omosessuali nel marketing, per lo meno non le si è apertamente blastate (beh, a parte Stefano Dolce, ma quello non ci sta con la testa).
Il backlash funziona eccome, quindi è giusto implementarlo di fronte a casi così eclatanti: ormai è da troppo che si tenta di normalizzare il fascismo, è ora di riprendere la lotta dura e intransigente per ricacciarlo nelle fogne a cui appartiene con ogni mezzo a disposizione.
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