Friday 29 October 2021

Questioni di zucche

“È questo il mio costume: sono un maniaco omicida. Non si distinguono dagli altri.”
Ed è questa la mia battuta preferita da fare in questo periodo dell’anno, specie ora che, senza Lucca, non posso sfangarmela con la scusa di essere distrutto dalla fiera / il lavoro la sera del trentun ottobre.
Una o due volte ho provato a fare il pioniere di Halloween da piccolo, ispirato principalmente da Piccoli Brividi e, in particolare, Le Zucche della Vendetta. Mi sono mascherato, ho fatto un giro di trick or treating nei palazzi vicini, qualcuno è anche stato al gioco e mi ha dato dei dolciumi, ma la cosa è più o meno finita lì. Semplicemente, Halloween non appartiene alla mia identità nella maniera viscerale e istintiva in cui, ad esempio, Carnevale o il Natale ne facevano parte, e il tentativo di trapiantarlo non ha attecchito alla lunga. Cioè, se verso i dieci o undici anni mi ero già stufato di inventarmi un costume per Carnevale, figurarsi se avevo (o ho) voglia di inventarne anche uno per Halloween. (Su come sia finito il mio rapporto col Natale penso sia superfluo aggiungere qualcosa ora, avrò tempo a dicembre per trovare qualcosa di cui lamentarmi anche quest’anno).

D’altro canto, essendo Halloween un prodotto d’importazione (almeno nella mia vita e nella comunità in cui sono cresciuto, poi leggo che in Veneto invece ne esiste una variante come residuo della cultura celtica di sostrato), non mi suscita nemmeno la forte reazione avversa che l’onnipresenza di altre feste mi causa.
Per ora.
Perché ragazzi, seriamente, a me sta benissimo che voi vi ci divertiate, che abbracciate i costumi, i dolci, le decorazioni e tutto, li facciate vostri e li trasformiate in uno spunto di divertimento. Solo, magari evitiamo di trasformarla nell’ennesima festa comandata per non partecipare alla quale serve trovare una scusa socialmente accettabile?
Certo, sarà sempre meno urticante dei buoni sentimenti preconfezionati che si respirano in altri periodi dell’anno, e ha in più l’aspetto creativo dei costumi e quello iconoclastico di esporre i benpensanti a tutto un immaginario macabro; ma il calendario festivo italiano è già abbastanza fitto di occasioni da schivare, non me ne serve un’altra.
Quindi non iniziamo a chiedere: “Cosa fai a Halloween?” o “Da cosa ti mascheri?”, perché se no quello da maniaco omicida non sarà più solo un non-costume e una citazione a Mercoledì Addams, mhkay?

Tuesday 12 October 2021

Stacked Smoke

La cosa più vicina a un incendio che io abbia mai vissuto è stata la Notte dei Lunghi Allarmi nella casa dello studente a Trieste. Ovvero, un prolungato quanto falso allarme dovuto a cause non meglio precisate che con gli incendi veri e propri non aveva nulla a che fare.
Almeno fino a stasera. Ieri sera, tecnicamente. Insomma, poche ore fa.
 


Sono le undici meno spicci di sera. Vado in bagno, sento odore di bruciato e, contrariamente al solito, scrollo le spalle e me ne frego. Dico “contrariamente al solito” perché al secondo piano abbiamo un tossicodipendente che vive da solo e io, essendo ansioso, ho sempre paura che metta la roba sui fornelli, si faccia di qualcosa e lasci che tutto bruci, quindi di solito mi affaccio a vedere se c’è fumo da lui.
Oggi, dicevo, decido di fregarmene e, tempo le undici, qualcuno ci suona il campanello: sono le vicine del piano di sopra che ci avvisano che c’è un incendio e dobbiamo scappare.
No, sul serio: c’è un incendio e dobbiamo scappare. Il pianerottolo è pieno di fumo, ci entra pure in casa.

Onestamente, non so tutt’ora come mi sia sentito in quel momento. Ho afferrato il telefono e chiamato il 118, dicendo con una voce incerta e incredula che c’era un incendio al mio indirizzo. E sottolineo, incredulo, perché queste cose di solito capitano o nei film, o agli altri.
Onestamente, mi fa strano ritrovarmi ora sotto shock perché, lì per lì, non credo di aver avuto paura. Non c’erano fiamme in vista e non penso che il cretino fosse riuscito a dar fuoco a chissà cosa – stupidamente non mi passa per la testa che le fiamme potrebbero raggiungere la bombola del gas, ma dettagli. Mi infilo un paio di pantaloni con le tasche, ci butto dentro l’iPod perché col cavolo che lo lascio bruciare se qualcosa va storto, poi il telefono e il borsellino con carte e documenti; infilo il computer nella borsa e prendo quello, la fotocamera e il teleobiettivo; la Mater nel frattempo ha afferrato un borsone e ci ha buttato dentro tutte le cartelle di documenti nostri, della casa e di chi più ne ha più ne metta.
Le vicine di sopra hanno già raccattato la loro roba, infilato il gatto nel trasportino e stanno scendendo. Noi ci accodiamo – rigorosamente per le scale, mai ascensore in queste situazioni – facendo il secondo giro di scampanellate a tutti.
Il grosso del fumo è nel terzo piano, il che significa che sta salendo, indovinate un po’, dal secondo, dalla casa del tossico. What a surprise. Dirimpetto a lui, la vedova (del tutto sola) è già da qualche mese che dà i numeri e mostra segni di senilità, e si rifiuta di uscire e mettersi in salvo. Io e la Mater la incoraggiamo, e quella chiude il portone. Ok.
Al piano di sotto, aiutiamo l’altra vedova, quella pluri-novantenne e super acciaccata (e anche lei del tutto sola), a scendere le scale. Ci troviamo sul marciapiede con i vigili del fuoco già sul posto e iniziamo a fare la conta: manca solo quella del secondo piano. Dal pian terreno portano un paio di sedie per far accomodare le più anziane. La Mater resta con la vedova del primo piano, tenendole le mani sulle spalle per tranquillizzarla; io afferro il telefono e chiamo Katia per avvisarla che potrei tardare un po’ al nostro appuntamento serale di visione di serie tv e roba su YouTube. La prima cosa che mi esce è una risata isterica che fa agghiacciare anche me. Giro l’angolo mentre le racconto in breve cosa succede perché improvvisamente sono fuori dalla grazia del Signore. Con tutto che non ho avuto paura sul momento e non sembra esserci nulla di davvero pericoloso.
Riattacco, mi assicuro che la Mater e la vedova stiano bene, mi avvicino ai canadesi del terzo piano perché, in tutto quel casino, col cavolo che mi lascio sfuggire l’occasione di parlare (e snarkare) in inglese. E perché, essendo i penultimi arrivati, si trovano in disparte e la cosa mi dispiace. Gli ultimi arrivati del palazzo sono quelli del pianterreno e hanno fornito le sedie, quindi almeno non sono esclusi.

Il nostro tossico ovviamente importuna i passanti curiosi che casualmente hanno da portare a spasso i cani proprio qui, chiedendo loro se hanno sigarette. Quando quello del terzo piano commenta che sente di nuovo odore di bruciato, io ribatto: “Yeah, well, somebody’s smoking. The irony. And the nerve.” facendo ridacchiare la moglie. Mi becco volentieri i complimenti per il mio inglese, ripercorriamo la mia carriera scolastica, scopro che lei aveva considerato di studiare a Trieste alla mia stessa facoltà, e intanto chiedo conferma ai pompieri che quella del secondo piano stia bene. Sì, per fortuna.
Ogni tanto mi avvicino anche alla Mater e alla vedova per vedere come stanno. La vedova ha freddo. Io poggio le borse, mi levo la giacca e gliela poggio sulle gambe, un po’ già pregustandomi i complimenti.
Si fa circa mezzanotte quando ci danno il via libera per tornare a casa; per fortuna la Mater si è fermata a fare pipì prima di uscire, e onestamente non l’ho nemmeno sgridata per quello perché immaginavo ne avremmo avuto per un po’.
 
Ringraziamo i pompieri, riaccompagniamo la vedova al primo piano, disseminiamo “buonanotte” ai vicini intorno a noi, torniamo a casa, spalanchiamo tutte le finestre, la vedova chiama e ringrazia tantissimo sia la Mater sia me: ecco i tanto agognati complimenti. Mi sento generoso e mando un WhatsApp al Guasto per dargli io la notizia e rassicurarlo sul fatto che noi stiamo tutti bene e la casa non ha subito danni, non si sa mai che finiamo sulla Nuova e lui legga. Chiamo Katia, le racconto e mi accorgo che inizio a tremare e sentirmi esausto: l’adrenalina è calata e sta subentrando lo shock.
Shock per cosa non lo so, visto che non ho visto le fiamme ed ero sempre consapevole che il pericolo fosse relativamente basso. Ma mi guardo intorno, vedo i miei pupazzi, i CD, i libri, l’armadio con i vestiti, tutte le cose che avrei perso se l’incendio si fosse propagato. Forse è la puzza pervasiva di bruciato, che si attacca a tutto e non lascia tregua anche ora che l’aria è tornata tecnicamente respirabile.
Forse, concludo, anche se è stato piccolo, è pur sempre stato un incendio, e gli incendi sono eventi intrinsecamente traumatici. E poi io sono un Tyrell: sono piuttosto suscettibile alle fiamme.
La battuta migliore, però, l’ha fatta Katia quando le ho detto che tutto è partito dal tossico che cucinava.
 
Ma stava cucinando cibo o crack?

Ha poi concluso che, visto che come inspiravo i fumi scoppiavo a ridere, probabilmente era la seconda. E, in tutto ciò, io rosicavo perché l’unica volta che avrei avuto ragione a insospettirmi per la puzza di bruciato non l’ho fatto. Mannaggia.
 
In questo momento sono esausto. Fisicamente esausto. Anche mentalmente: non ho avuto problemi a guardare Midnight Mass, ma ora non riuscirei, ad esempio, ad ascoltare musica o leggere o giocare a The Sims 4. Sto scrivendo più che altro per buttare fuori questo groppo di emozioni la cui natura non ho nemmeno compreso io stesso, e che si sono affastellate rapidamente quanto in sordina per tutta la sera.
Però adesso posso dire di essere sopravvissuto a un incendio. Non male, per un Tyrell.