Saturday 10 September 2011

Evanescence, fra alti e bassi

È ottobre 2006: gli Evanescence, reduci dal successo plurimilionario del loro debutto internazionale Fallen, danno alle stampe la loro nuova fatica The Open Door. È dicembre 2007: dopo più di un anno di tour quasi ininterrotto, la band si prende una meritata pausa, per consentire, fra le altre cose, alla cantante Amy Lee di godersi il matrimonio da poco celebrato. Oggi, nel 2011, a cinque anni dalla precedente uscita discografica, e quattro dalla fine delle attività degne di nota, il quintetto americano torna per riproporci un nuovo full length, terzo con distribuzione internazionale sotto etichetta major e quarto in totale (contando anche il trascurato e quasi disconosciuto Origin). Per introdurre questo album non c’è davvero bisogno di ripercorrere nel dettaglio la storia della band, tanto travagliata da far invidia alla famiglia Forrester di Beautiful; piuttosto, è interessante descrivere i quattro anni intercorsi fra la fine del tour di The Open Door (concluso dopo l’ennesimo cambio di formazione) e l’uscita del nuovo disco.

Attenendosi strettamente alle fonti ufficiali, settembre 2008 vede, dopo un anno di silenzio, la pubblicazione da parte di una Amy Lee solista dell’acclamata cover di Sally’s Song per la compilation Nightmare Revisited, con la menzione, in un’intercista, dell’eventualità di una carriera solista. Alla dichiarazione seguono otto mesi di silenzio quasi assoluto finché, un bel giorno di maggio, Amy annuncia che un nuovo album degli Evanescence è alle porte, con materiale al quale aveva lavorato inizialmente con Will B. Hunt (produttore di Sally’s Song, da non confondersi con l’attuale batterista), e solo successivamente con Terry Balsamo e Tim McCord, unici membri ufficiali ancora nella band. Fioccano le notizie e i tweet sulla direzione electropop e decisamente poco rock dell’album fino a che, circa un anno dopo e a registrazioni praticamente ultimate sotto il produttore Steve Lillywhite, la cantante sente il bisogno (dopo aver fatto ascoltare l’album alla label) di tornare in studio per dare gli “ultimi ritocchi”, che si protraggono per altri otto mesi e includono la riscrittura ex novo dell’album in direzione assolutamente rock, “dark and epic” (cit.), sotto la produzione di Nick Raskulinecz e con la riconferma della stessa formazione che aveva concluso il tour di The Open DoorWill Hunt alla batteria e Troy McLawhorn alla chitarra. La vocalist annuncia che si tratta di un lavoro che coinvolge tutta la band in fase di scrittura (contrariamente ai precedenti album) e, per questo, si chiamerà “Evanescence”, come la band stessa (e il suo primo, scomodo EP del 1998, recentemente degradato a “compilation fatta dai fan” dalle parole della stessa Amy Lee).

Stando invece agli osservatori più scaltri malevoli, si può speculare che Amy volesse lasciar morire la band di vecchiaia concentrandosi sul progetto solista (sull’onda del successo di Sally’s Song), l’abbia tirata fuori sotto preciso ordine della label causa arrivo dei We Are The Fallen (Amy dichiara che la nuova band non ha nulla a che vedere con lei, ma l’annuncio del nuovo album degli Evanescence ha casualmente seguito di pochi giorni quello di Ben Moody), abbia cercato di riconvertire le canzoni del progetto solista in lavori per la band per guadagnare tempo, la label abbia giudicato l’esperimento fallito e abbia spedito la cantante a riscrivere un album di più sicuro impatto commerciale.
Ma queste sarebbero, appunto, solo speculazioni se non fossero avallate dal tenore generale del nuovo full length.


Evanescence si presenta infatti come un album fortemente altalenante, che a momenti di pregevolezza e godibilità ne alterna altri fiacchi, talmente poco coinvolgenti da non essere nemmeno radio-friendly. Tutto ciò non solo fra una canzone e l’altra: anche negli stessi brani si notano oscillazioni fra parti anche interessanti, ma che vengono demolite da altre di una banalità sconvolgente, solitamente nei ritornelli (che sono il vero tallone d’achille della maggior parte del disco). L’impressione generale è di genericità: sono quasi del tutto assenti sia la vena sofisticata e (entro certi limiti) sperimentale che ha caratterizzato il coraggioso ma commercialmente fallimentare The Open Door (che ha venduto sì e no un terzo del predecessore), sia le atmosfere intense e drammatiche del multimilionario Fallen (non parliamo poi del soffuso gothic rock a tinte darkwave di Origin), a favore di un rock nudo e crudo che, se non fosse per la riconoscibile voce di Amy Lee, potrebbe essere stato pubblicato da una qualsiasi band d’Oltreoceano. A parte la clamorosa assenza della tanto sbandierata elettronica, relegata a pochi sprazzi sullo sfondo, l’album punta tutto su chitarre onnipresenti e una batteria martellante, trascurando perfino archi e pianoforte, da sempre elemento chiave del sound degli Evanescence ma ridotti stavolta a spennellate occasionali; perfino il vero trademark della band, la voce di Amy Lee (che appare affaticata – eufemismo – perfino in studio), risulta in qualche modo penalizzato da linee vocali banali e talmente ammiccanti alla radio che, se facessero l’occhiolino, a momenti non aprirebbero più la palpebra.

L’album si apre in bruttezza con What You Want, singolo di traino di rara bruttezza che, sebbene accolto con fedele entusiasmo dai fan più affezionati, desta non poche perplessità per le linee vocali banali (quasi quanto il testo) e una ruffianeria generale da far impallidire la già radiofonica Call Me When You’re Sober; è una tipica canzone da radio rock americana usa e getta, che non lascia nessun sapore e che, come opener, non fa ben sperare.
Sulla stessa linea è l’intro pretenzioso di Made Of Stone, una cantonata hard rock che lascia pochi dubbi sulla direzione stilistica del disco; sfocia in una strofa moscia che, sebbene impreziosita da chitarre più elaborate, perde anche quel poco di smalto in un ritornello assolutamente banale. L’unico elemento degno di nota è il bridge, che vede protagonista un piano d
ispirazione classicheggiante (riconoscibile da uno dei video twittati da Amy in fase di produzione).
The Change, la terza traccia, si apre finalmente con un accenno di sintetizzatore e mostra un sound più morbido e peculiare, con una linea vocale più ricca che finalmente suona “Evanescence”. La strofa, vagamente reminescente di All That I’m Living For, sfocia in un ritornello che convince grazie a una melodia orecchiabile ma non banale. In definitiva, il primo episodio positivo dall’apertura.
Il quarto brano, My Heart Is Broken, è (a dispetto del titolo ultra-cliché) una delle highlight dell’album. Sorprende l’ascoltatore da subito, iniziando come una ballata per piano e voce ma introducendo immediatamente una batteria mid-tempo e chitarre ben presenti, che tuttavia non soffocano la bella melodia che richiama i tempi d’oro della band. Lodevole la linea vocale, da subito interessante e layerizzata nei ritornelli con vari inserti di seconde voci (cosa generalmente poco presente nelle altre tracce, e che indica poca cura nel cesellare i dettagli).
La successiva The Other Side è un nome già noto. Proposta live nelle performance di quest’estate, si era già fatta riconoscere come uno dei filler, con una melodia talmente insipida da richiamare quel buio episodio discografico che è la sua omonima scritta dai Sirenia. La versione di studio conferma l’impressione e le linee vocali, sebbene epurate dalle stonature sentite nel live, si mostrano in tutta la loro inutilità.
Erase This è una delle canzoni più frustranti dell’album. Introdotta da un frenetico arpeggio di piano sostenuto da una batteria martellante, a cui si uniscono chitarre sincopate e una bella melodia vocale nella strofa, avrebbe potuto essere un’altra delle highlight del disco. Ma poi si arriva all’inizio della seconda strofa e ci si chiede che fine abbia fatto il ritornello: quando poi si realizza che era quello stacchetto moscio infilato fra una strofa e l’altra, la canzone scade definitivamente in una seconda parte inutile e anonima. È forse questo il migliore esempio di come quest’album offra dei buoni spunti ma finisca puntualmente per perdersi in un bicchier d’acqua.
Le sorti del disco vengono stavolta risollevate dalla prima vera ballad: Lost In Paradise inizia con un pianoforte minimalista che sostiene una Amy dalla voce ariosa ed emozionante come mai prima (sebbene con un po’ troppo fiato nel tentativo di essere ancora più soffusa, ma dato l’ottima interpretazione la perdoniamo volentieri). Un violoncello solista seguito poco dopo dal resto del quartetto d
archi è l’unico nuovo inserto fino alla fine del ritornello, quando il resto della band irrompe, impreziosendo la traccia in maniera superlativa – ai livelli di episodi fortunati come Lithium o la Band Version di My Immortal. È ballata ricca ed intima, ma non pacchiana o strappalacrime a tutti i costi.
Rifrancato lo spirito, l’intro elettronico e vagamente reminescente della demo Surrender (inedito della sessione di Fallen) della successiva Sick lascia ben sperare. Peccato che la strofa perda subito grinta, fino a sfociare in un ritornello ripetitivo e di una bruttezza davvero rara. La canzone prosegue in un polpettone dove i vari elementi si susseguono monotoni e difficilmente distinguibili, e la voce filtrata di Amy che emerge in una pausa della schiacciasassi di chitarre nella ripresa del ritornello catalizza l’attenzione a mala pena per un secondo e mezzo.
Forse è anche per la pochezza di Sick che la successiva End Of The Dream (o
of the nightmare?) riesce a fare bella figura, con un andamento godibile e una linea vocale davvero bella. Ancora una volta, il ritornello è un po’ sottotono, ma non abbastanza da compromettere la riuscita della canzone, che si attesta più sulla lode che sullinfamia.
Oceans è un’altra delle nuove canzoni presentate live, e già in quella sede, nonostante le imprecisioni di Amy, si è dimostrata un pezzo relativamente valido. La resa sull’album le fa guadagnare ulteriori punti con una bella presenza di sintetizzatori ed archi, una linea vocale dinamica, un ritmo accattivante e il primo vero ritornello rock dell’album. Lodevole è anche l’outro di violini.
Never Go Back è un altro pezzo ben riuscito. Pesante senza essere banale (rasenta il metal), con una struttura che riserva piccole sorprese (il momento di quiete nella seconda strofa), un ritornello azzeccato nel suo essere appena più tranquillo della strofa, un pianoforte che spicca anche sul tappeto di chitarre (specie nel particolarmente lodevole bridge) e una performance di tutto rispetto da parte di Amy, rappresenta un perfetto climax per l’album in vista della chiusura, sebbene alla lunga tenda a stancare un po
.
La chiusura in questione è affidata a Swimming Home, unica superstite riconoscibile della sessione di Lillywhite e piccola perla dell’album. Un delicato connubio di elettronica di stampo Björk-esco, pianoforte, arpa e vocals quasi eteree, messa alla fine di un album così incostante fa sorgere il pensiero che forse, dopo tutto, sarebbe stato meglio se Amy avesse seguito il suo cuore e fosse andata a fare la solista piuttosto che riesumare una band per la quale ha evidentemente perso ogni interesse. (Fra l’altro, se è vero che, come dice lei, le canzoni parlano del suo rapporto con la band compreso presunto reinnamoramento, in questa è facile leggere una dichiarazione di rassegnato amore alla sua creatura solista, in pausa a tempo indeterminato).

In definitiva, l’album è tirato sopra la sufficienza solo da alcuni episodi particolarmente fortunati, che sono però circondati da materiale alla meglio mediocre. Non è sorprendente, considerando che si tratta di un disco scritto in fretta e furia, in maniera forzata e, molto probabilmente, col preciso intento di creare un prodotto vendibile. Contestualizzato in questa maniera, è anche comprensibile perché il lavoro soddisfi solo in parte ma, messo in prospettiva col resto della discografia della band, lascia molto amaro in bocca, nonostante il nucleo di canzoni migliori sia stato appositamente tenuto per il finale in modo da addolcire la pillola.
A dispetto delle spiegazioni di Amy Lee, il titolo “Evanescence” sembrerebbe più dettato dalla poca voglia di spremersi le meningi, a meno che non sia un’allusione a quanto evanescenti siano le tracce del sound caratteristico della band in mezzo a questa profusione di rock preconfezionato. E a questo proposito, una piccola menzione va anche alla copertina, che non è altro che un fractal assolutamente random su sfondo nero, fatto in non più di dieci minuti e senza reale interesse, che ben si accompagna ad un album a cui, fondamentalmente, manca la sostanza, l’anima. I pochi episodi del tutto positivi non valgono certo un’attesa di ben cinque anni e, se non avessi smesso da tempo di strapparmi i capelli per la band, dentro di me sarei rimasto ferocemente deluso, sebbene in superficie avrei sostenuto una silenziosa ma strenua lotta per farmi piacere tutto l’album a forza come molti fan staranno, comprensibilmente, facendo. Prima di decidere per l’acquisto, attenderò di vedere se le bonus track hanno da aggiungere qualcosa di interessante a un pacchetto che, al livello attuale, non varrà certo il prezzo a cui verrà proposto.

Il terzo album degli Evanescence sotto Wind-up è dunque uscito, il contratto è onorato e si può presumere che non ci saranno più obblighi in tal senso, un volta terminato il tour promozionale. Non resta che vedere cosa ci riserverà il futuro della band, anche se per Cassandro non è difficile immaginarlo.

2 comments:

  1. Ma tu devi vedere il video.

    No ok forse lo concepivo come robetta buttata lì della serie "siamo (sono) vivi(a)".

    Ma come opener.

    Ma come singolo.





    Per il resto ti dico solo che ovviamente sto ascoltando Swimming home.

    Saluti

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  2. Swimming Home l'ho ascoltata spesso anche io. Anche se non ho scrobblato, tiè. u_u

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