Tuesday 13 September 2011

Ho fatto pace con Sally

Temo sia abbastanza inevitabile che, nonostante tutto, in questo periodo finirò per tornare su Amy Lee e gli Evanescence a più riprese. Perché, per quanto come Nell nessuna mai e non andrei letteralmente in capo al mondo per il concerto di nessun altro dopo i Theatre of Tragedy, è anche vero che il primo amore non si scorda mai. E, se mi soffermo a pensarci, gli Evanescence me li porterò dentro per tutta la vita, artisticamente parlando: basti solo pensare alla mia specialità fotografica, i ritratti integrati all’architettura, che sono riconducibili all’amore che ebbi per le promo di The Open Door; credo che il mio cuore palpiterà sempre nel fotografare qualcuno davanti a portoni, cancelli, finestre, inferriate, portefinestre e simili.

Detto ciò, dopo aver letto i testi di Evanescence (album), mi sono reso conto che il titolo non è tanto casuale quanto pensavo inizialmente. Non lo è affatto, anzi, ed Amy non scherzava quando diceva che parla della band. Nella fattispecie, è facile leggervi una montagna di rancore per la label e insofferenza verso la band, e il suo desiderio di libertà artistica. È tutto un susseguirsi di frustrazione per la situazione presente, rimpianto per gli errori passati e desiderio di libertà e ricongiungimento in futuro. Dato che l’intero album è praticamente una violenta dichiarazione di odio verso la pesante e soffocante macchina mediatica che si muove sotto il brand “Evanescence”, il titolo acquista senso.
Il che è comprensibile: vedersi costretta a suonare un genere di musica verso il quale ha perso interesse perché non ha avuto la schiettezza di decidere da che parte stare e dover mettere nel frattempo in pausa i progetti che davvero le stanno a cuore deve essere terribilmente avvilente. Considerando poi che ha avuto due anni estremamente frustranti a livello artistico (scrivere sotto la pressione del ritorno di Ben Moody e soci, e poi rifare tutto daccapo forzatamente perché alla label non piaceva) e che ora sarà costretta a fare buon viso a cattivo gioco ripetendo a manetta la stessa pappardella su quanto ama la musica che ha composto in ogni intervista, oltre a doverla riproporre live notte dopo notte fino alla fine del tour, è inevitabile che Amy finisca per farmi un po’ di compassione. Sottolineamo “un po’”, però: alla fine, ha semplicemente imaparato anche lei che si raccoglie ciò che si semina. Se non avesse voluto tenere il piede in due staffe ai tempi di decidersi sul da farsi, sondando il terreno per camminare da sola senza però sciogliere la band per non far rivoltare i fan, non si sarebbe ritrovata a gestire questo disastro, quindi le sta fin troppo bene.

A questo proposito, se considero che, appena finito di ascoltare il disco, la prima cosa che mi è venuta in mente è che non vedo l’ora di sentirla impegnata in un progetto ispirato e bello sulla scia di Swimming Home o Halfway Down The Stairs, mi sembra quasi assurdo, tre anni fa, di aver fatto il diavolo in quattro di fronte alla prospettiva degli Evanescence sciolti ed Amy Lee solista a fare chissà cosa lontano dal rock. Mi sento un po’ stupido per aver dato di matto per quello che, alla fine, sarebbe stata lo scenario migliore, e mi sento tristemente svuotato di una parte del rancore che nutro verso Amy (che, tuttavia, non riesco a perdonare per aver infangato il nome della band della mia adolescenza con mosse mediatiche di dubbio gusto e un album indegno, e per la montagna di bugie e sotterfugi verso i fan, nonostante sappia che la cosa le è sfuggita di mano e i suoi tentativi di apologia in The Change).
È vero che allora gli Evanescence erano ancora la vetta del mio Olimpo musicale, che ero in una fase di enormi cambiamenti nella mia vita e perdere uno dei miei punti fermi era una brutta prospettiva, che i Theatre of Tragedy erano entrati nel mio mondo da troppo poco tempo per rivelare la portata dell’amore che mi avrebbe legato a loro, che Forever Is The World sarebbe uscito a rivoluzionarmi nuovamente la vita e farmi innamorare di Nell solo un anno più tardi, che la mia deriva elettronica era ancora un’utopia perché avrei ascoltato Musique e Assembly solo pochi mesi più tardi, che non avevo ancora incontrato Kari Rueslåtten e non ero dunque stato battezzato al variopinto mondo delle cantanti soliste e le varie Emilie Simon, Florence Welch e Amanda Somerville - figurarsi Björk - dovevano ancora arrivare. Insomma, è vero che all’epoca non ero ancora musicalmente abbastanza maturo da uscire dal mio schemino dark e accogliere una novità del genere. Però resto sbalordito nel vedere un capovolgimento diametrale dei miei sentimenti verso i progetti musicali di Amy.

Poco fa, il mio iTunes mi ha passato Sally’s Song in riproduzione casuale, e l’ho messa in repeat per svariate volte perché mi sono accorto che mi piace. E dire che ho passato gli ultimi tre anni a odiare ciecamente quella canzone. In parte per i brutti ricordi che rievoca in virtù del periodo in cui è uscita. Ma soprattutto perché la consideravo il punto di non-ritorno della band, il momento in cui Amy ha capito di non averne più bisogno e da cui è partito tutto il dramma.
Oggi la mia visione è più chiara, e capisco che, Sally o no, il cuore di Amy aveva semplicemente smesso di battere per gli Evanescence, e forzarlo in quella direzione non ha portato ad altro che a un disastro. D
altro canto, ora comprendo il suo desiderio di libertà e innovazione: io stesso non ho più voglia né ispirazione di scattare le canoniche foto gotiche di qualche tempo fa, sento il bisogno di integrare con elementi eterogenei e ammiccare al fashion, e se mi obbligassero a tornare alle damine in corpetto e gonna lunga fine a se stesse finirei per fare qualcosa di poco ispirato.

Ottimo, noto di aver scritto un post enorme, confusionario e pieno di roba, e non ho proprio voglia di tentare di renderlo un tantino più organico e scorrevole. Basti sapere che la sostanza è che, per quanto non abbia ancora perdonato Amy per aver preso per i fondelli i fan e aver infangato la memoria della band con cui sono cresciuto sfruttandola prima per pararsi il sedere e poi perché non aveva scelta, la compatisco per il limbo artistico in cui è andata a ficcarsi. Però ben le sta, così impara, ecco. E Sally’s Song mi piace di nuovo.

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