Saturday 1 May 2021

A Millennial’s love letter to skinny jeans

Giusto oggi, grazie a un video di Mina Le, ho scoperto che c’è una faida tra i milennial e gli zoomer circa la forma dei jeans. Inevitabilmente, un po’ come vent’anni fa era per i jeans a vita alta, la moda è andata avanti e gli skinny sono visti dalle nuove leve come datati, indossati da quelli che ai miei tempi erano chiamati “i grezzi”, ormai un residuo di epoche passate. E a quanto pare la cosa è diventata una vera e propria guerra social con botta e risposta piuttosto brutali da entrambi i campi.
A parte che trovo assurdo che millennial e zoomer lottino tra loro quando c’è il nemico comune che sono i boomer e i vecchi gen-x (o forse non voglio accettare che i gggiovani mi vedano per il vecchio bacucco che sono), mentre ascoltavo le opinioni di Mina, che è una zoomer, mi sono reso conto che il succo del discorso è che gli zoomer hanno verso i jeans skinny lo stesso disturbo da stress post-traumatico che la mia generazione ha verso i jeans larghi e a vita bassa. Ovvero: prova a sopravvivere alle medie e superiori indossando quella roba.
E pur con le differenze del caso, capisco perfettamente il sentimento: in alcune circostanze, i jeans skinny non sono il massimo della comodità – specie se, come per i pantaloni larghi, si tende verso l’estremo del trend. In più, i ragazzini sono mostri, ed essere costantemente esposti al giudizio e ludibrio per quei capi porta inevitabilmente a odiarli.
 
A part quello, però, i jeans baggy degli Anni Duemila sono stati un incubo già solo a livello logistico: la combinazione tra larghezza, mancanza di struttura e vita bassa faceva sì che sui miei fianchi magri non stessero su nemmeno con un miracolo. Il cavallo penzolante peggiorava ulteriormente la situazione, così come le zampe d’elefante, che s’impigliavano di continuo sotto i tacchi delle scarpe e tiravano il tutto ancora più giù. A dare il colpo di grazia, la stupida moda delle cinture militari, le cui fibbie non reggevano nulla, specie stando sempre in tensione all’altezza del bacino, col risultato che la cintura cedeva lentamente e i pantaloni continuavano ad aver bisogno di essere riaggiustati ogni tre secondi. Giuro, se ripenso alle medie e ai primi anni delle superiori, il ricordo è di una lotta costante e continua contro i jeans.

Ma peggio ancora, quei pantaloni brutti, quelle felpe enormi, quelle magliette sformate cadevano malissimo su un corpo che la pressione sociale dei miei coetanei mi aveva insegnato a odiare. Già ero minuto, in tutta quella stoffa inutile scomparivo. E sempre la stessa pressione sociale mi toglieva qualunque alternativa, perché i vestiti stretti erano considerati “grezzi”, da sfigati, se non addirittura – tenetevi forte – da finocchi. Non scherzo, il disprezzo che avevo sentito nella voce di chi una volta mi aveva detto che i pantaloni stretti sono “da frufrù” aveva lasciato un’impressione profonda nel me adolescente, che ancora nemmeno si rendeva conto di esserlo davvero, “frufrù”.

Onestamente, passare ai jeans skinny e, in generale, all’abbigliamento form-fitting è stata una vera rinascita. E non solo perché, finalmente, le nuove taglie più strette mi stavano, ma proprio a livello concettuale. E sì, è concisa con due cose fondamentali: da una parte, con la mia presa di coscienza sulla mia sessualità, quindi sicuramente c’è anche stato un elemento di riappropriazione dei “pantaloni da frufrù”; dall’altra, col mio trasferimento via dalla Sardegna, che mi ha fatto associare quella sensazione di libertà alla nuova moda (per quanto ai tempi fossi più orientato al goth andante che a ciò che succedeva nel “mainstream”).
Ma principalmente era proprio l’idea che quei vestiti mi permettessero di mettermi in mostra senza però esagerare. È significato accettare e celebrare il mio corpo, vedere la snellezza come un punto di forza da valorizzare, non come qualcosa di cui vergognarmi, laddove percepivo la moda loose come un costante nascondermi.
I jeans attillati sono stati il mio momento di empowerment, ed è per questo che li amerò sempre e non intendo rinunciarvi, anche a costo di farmi dare del “grezzo” (o qualunque sia l’equivalente attuale del termine) dalle nuove generazioni. Lascio che abbiano i loro momenti di empowerment sartoriale e mi tengo i miei.

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