Tutte le famiglie sono complicate, anche quelle non disfunzionali. La mia, che disfunzionale lo è stata per la maggior parte della sua storia, riserva sempre nuove sorprese. È da relativamente poco che sto realizzando quanti livelli di complessità ci siano, e che la situazione non è bianca e nera come mi sembrava da piccolo, specie nel puntare il dito su una o sull’altra parte.
Però, fra le varie cose che pendono innegabilmente e oggettivamente a favore della Mater, c’è il modo in cui i due ex hanno tentato di influenzare il mio rapporto con la controparte: la famiglia di mio padre ha cercato attivamente di mettermi contro mia madre col beneplacito (o, per lo meno, col tacito assenso) di mio padre, mentre mia madre ha sempre tentato di incoraggiarmi ad avere un rapporto quantomeno civile con mio padre.
Alla luce della redistribuzione delle colpe che ho dovuto fare, è evidente che, nell’usarmi come mediatore fra loro due, la Mater ha finito inevitabilmente per espormi all’inaffidabilità e meschinità di mio padre. Però, dall’altra parte, ha sempre cercato di mitigarla, di incoraggiarmi a vederlo, a parlare con lui, a volergli bene, di sottolineare le cose che faceva per me. E no, non sono ingenuo: fin da ragazzino mi rendevo conto che lo faceva perché, essendo una giurista, era il modo più sicuro per evitarsi grane in tribunale. Parlandone molto dopo, l’ha anche ammesso candidamente: l’ha fatto per quello e per evitare che, diventato adulto, le rinfacciassi che mi aveva impedito di costruirmi un rapporto con mio padre, perché riteneva fosse importante che lo avessi.
La cosa che mi ha sorpreso, però, è che qualche sera fa mi abbia confessato di sentirsi in colpa per non essere riuscita a farmi instaurare un buon rapporto col Procreatore. Avrebbe potuto fare di più, mi ha detto, e questo le è pesato fin da quando si sono separati.
Sinceramente, io sono cascato dal pero.
Quando ero piccolo, ricordo che ero sempre felice quando, d’estate, mio padre ci raggiungeva al mare per il week end, perché sapeva costruitre le mura dei castelli di sabbia meglio della Mater.
E niente, questo è quanto. Questo è il miglior ricordo d’infanzia che ho di me e mio padre.
Ricordo anche la volta che ho imparato che le cuticole non si tirano via a mani nude: ero con lui nel bar del corso – quello con gli archi dentro – ed ero talmente annoiato mentre lui parlava con i suoi amici che avevo iniziato a tirarmi le pellicine alla base delle unghie, scoprendo con le cattive che sanguinano e fanno male.
Ho mille ricordi di quando la Mater mi portava a spasso in paese la domenica, verso la stradina bianca che scendeva giù dalla collina, sopra la vallata con quel grande abete, in centro a vedere il larice all’ingresso del paese, o a salutare “la mia amica quercetta”, o a raccogliere i fiori di tiglio. Non ho nulla del genere con mio padre.
Tutte le volte che si andava in campagna, era sempre la Mater a staccare un po’ dal raccogliere le olive o le ciliegie per fare una passeggiata nel bosco, cercare i funghi con me, osservare gli animaletti, addirittura arrampicarsi su per la collina di fronte alla vigna perché un vecchio pilone in cemento mi sembrava chissà cosa e volevo vederlo da vicino. Lui non si è mai staccato da ciò che stava facendo per assecondarmi un quarto d’ora. E non certo perché la Mater mi monopolizzasse: anche lei lavorava e spesso mi doveva lasciare con lui, che invece se ne stava a guardare la TV mentre io giocavo per conto mio sul tappeto.
Tolti i castelli di sabbia, i primi ricordi di me e mio padre davvero insieme li ho, cronologicamente parlando, da dopo il divorzio. Avevamo le storielle a puntate che mi raccontava sugli animaletti del bosco e della campagna, i giochi, i giri in macchina in cui ogni pulsante era un qualche gadget supertecnologico… oh, e ovviamente i viaggi a Salsomaggiore e perfino all’estero. Ma fin da piccolo ho pensato che fosse too little too late. Ha iniziato a occuparsi di me solo quando non ha avuto altra scelta, quando doveva fare bella figura col giudice, e mentre con una mano dava, con l’altra toglieva. Le storielle degli animali del bosco le ricorderei con molto più piacere se non fossero state intramezzate dalle sue sorelle che mi facevano pressione psicologica perché odiassi la Mater. I viaggi mi sarebbero sembrati meno un tentativo di metterci una pezza con i classici “grandi gesti”, se non fossero arrivati anni dopo quegli episodi.
Così, mi sono trovato, a trent’anni appena compiuti, a spiegare alla Mater che il massimo che ha potuto fare per incentivare il rapporto fra me e mio padre è stato proprio non mettergli i bastoni fra le ruote. Di più non poteva.
In primo luogo perché, con la scarsa attenzione che lui mi dava finché erano sposati, mio padre non ha fornito molto materiale con cui lavorare alla costruzione. In secondo luogo perché, a divorzio in corso, è stato lui stesso ad auto-sabotarsi fino a che non è stato troppo tardi.
E soprattutto perché, semplicemente, la Mater non poteva fare il lavoro per lui. Non era lei a dover costruire per mio padre il nostro rapporto, se lui non ci si è mai impegnato finché poi è stato troppo tardi, e anche lì ha fatto il minimo sindacale. Non può sentirsi responsabile per come sono andate le cose fra me e l’altro genitore, quando la responsabilità di costruire un rapporto è strettamente individuale: lei si è impegnata per costruirne uno con me, lui no. Fine.
Eravamo in Piazza Unità, di ritorno da Fiorellino, quando siamo arrivati a questo punto del discorso, e la Mater si è letteralmente fermata sul posto a fissare il vuoto in preda all’epifania. Era sorpresa perché non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista: poteva sopperire alle mancanze pratiche del suo ex, a tutto il livello educativo, economico, logistico… ma non a quello umano. Quello è una responsabilità individuale e ognuno deve coltivarlo per sé.
Mi ha detto che si è sentita liberata da un peso.
E onestamente, a me è anche dispiaciuto per lei: è vissuta per ventiquattro anni portandosi dietro un senso di colpa che non avevo idea che avesse. Anzi, a ben vedere non aveva proprio ragione di esistere. Se avessimo affrontato prima il discorso, magari se ne sarebbe liberata prima.
Beh, meglio tardi che mai.
Sinceramente, io sono cascato dal pero.
Quando ero piccolo, ricordo che ero sempre felice quando, d’estate, mio padre ci raggiungeva al mare per il week end, perché sapeva costruitre le mura dei castelli di sabbia meglio della Mater.
E niente, questo è quanto. Questo è il miglior ricordo d’infanzia che ho di me e mio padre.
Ricordo anche la volta che ho imparato che le cuticole non si tirano via a mani nude: ero con lui nel bar del corso – quello con gli archi dentro – ed ero talmente annoiato mentre lui parlava con i suoi amici che avevo iniziato a tirarmi le pellicine alla base delle unghie, scoprendo con le cattive che sanguinano e fanno male.
Ho mille ricordi di quando la Mater mi portava a spasso in paese la domenica, verso la stradina bianca che scendeva giù dalla collina, sopra la vallata con quel grande abete, in centro a vedere il larice all’ingresso del paese, o a salutare “la mia amica quercetta”, o a raccogliere i fiori di tiglio. Non ho nulla del genere con mio padre.
Tutte le volte che si andava in campagna, era sempre la Mater a staccare un po’ dal raccogliere le olive o le ciliegie per fare una passeggiata nel bosco, cercare i funghi con me, osservare gli animaletti, addirittura arrampicarsi su per la collina di fronte alla vigna perché un vecchio pilone in cemento mi sembrava chissà cosa e volevo vederlo da vicino. Lui non si è mai staccato da ciò che stava facendo per assecondarmi un quarto d’ora. E non certo perché la Mater mi monopolizzasse: anche lei lavorava e spesso mi doveva lasciare con lui, che invece se ne stava a guardare la TV mentre io giocavo per conto mio sul tappeto.
Tolti i castelli di sabbia, i primi ricordi di me e mio padre davvero insieme li ho, cronologicamente parlando, da dopo il divorzio. Avevamo le storielle a puntate che mi raccontava sugli animaletti del bosco e della campagna, i giochi, i giri in macchina in cui ogni pulsante era un qualche gadget supertecnologico… oh, e ovviamente i viaggi a Salsomaggiore e perfino all’estero. Ma fin da piccolo ho pensato che fosse too little too late. Ha iniziato a occuparsi di me solo quando non ha avuto altra scelta, quando doveva fare bella figura col giudice, e mentre con una mano dava, con l’altra toglieva. Le storielle degli animali del bosco le ricorderei con molto più piacere se non fossero state intramezzate dalle sue sorelle che mi facevano pressione psicologica perché odiassi la Mater. I viaggi mi sarebbero sembrati meno un tentativo di metterci una pezza con i classici “grandi gesti”, se non fossero arrivati anni dopo quegli episodi.
Così, mi sono trovato, a trent’anni appena compiuti, a spiegare alla Mater che il massimo che ha potuto fare per incentivare il rapporto fra me e mio padre è stato proprio non mettergli i bastoni fra le ruote. Di più non poteva.
In primo luogo perché, con la scarsa attenzione che lui mi dava finché erano sposati, mio padre non ha fornito molto materiale con cui lavorare alla costruzione. In secondo luogo perché, a divorzio in corso, è stato lui stesso ad auto-sabotarsi fino a che non è stato troppo tardi.
E soprattutto perché, semplicemente, la Mater non poteva fare il lavoro per lui. Non era lei a dover costruire per mio padre il nostro rapporto, se lui non ci si è mai impegnato finché poi è stato troppo tardi, e anche lì ha fatto il minimo sindacale. Non può sentirsi responsabile per come sono andate le cose fra me e l’altro genitore, quando la responsabilità di costruire un rapporto è strettamente individuale: lei si è impegnata per costruirne uno con me, lui no. Fine.
Eravamo in Piazza Unità, di ritorno da Fiorellino, quando siamo arrivati a questo punto del discorso, e la Mater si è letteralmente fermata sul posto a fissare il vuoto in preda all’epifania. Era sorpresa perché non aveva mai considerato la cosa da questo punto di vista: poteva sopperire alle mancanze pratiche del suo ex, a tutto il livello educativo, economico, logistico… ma non a quello umano. Quello è una responsabilità individuale e ognuno deve coltivarlo per sé.
Mi ha detto che si è sentita liberata da un peso.
E onestamente, a me è anche dispiaciuto per lei: è vissuta per ventiquattro anni portandosi dietro un senso di colpa che non avevo idea che avesse. Anzi, a ben vedere non aveva proprio ragione di esistere. Se avessimo affrontato prima il discorso, magari se ne sarebbe liberata prima.
Beh, meglio tardi che mai.
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