Wednesday 7 February 2018

San Scemi

Il confine fra indifferenza e fastidio è sottile: a volte non è altro che sentir parlare di un argomento una volta di troppo. Un po’ perché la nostra attenzione è praticamente costretta su qualcosa di cui dimenticheremmo perfino l’esistenza, un po’ perché sembra che le reazioni delle persone intorno a noi siano esagerate. Ad esempio, cani e bambini mi darebbero metà del fastidio se non fossero così spudoratamente overhyped.
Per questo, caro musone che detesti Sanremo e a cui viene il nervoso leggendo post dopo post che ne parla, posso capirti: vedere il solito carrozzone (anche se, a questo giro, i soliti vecchi sono un po’ meno), le solite sceneggiate,  una giuria che annovera Giovanni Allevi e Milly Carlucci (col massimo ammoreh e rispetto per la Milly – solo per la Milly) e accompagnato dalla solita orchestrina… eh. Io non lo farei nemmeno per Favino e mi risparmierei volentieri il buzz mediatico.

Detto questo, sono una persona con molte passioni: la musica (o non ne starei parlando), la lettura, le serie TV, i film, Pokémon Go… capisco cosa significhi tenere molto a qualcosa, seguirlo con assiduità, parlarne e condividerlo con gli altri. Il calcio non solo non mi piace, ma lo trovo piuttosto stupido; eppure, ho abbastanza empatia e capacità di immedesimazione da capire che a qualcuno può piacere con la stessa intensità con cui io amo Lucifer, ad esempio. Per questo, se trovo in dash un post sul calcio, o se anche ne trovo venti perché è periodo, non inforco la tastiera pronto a distinguermi dalla massa scrivendo quanto siano poracci quelli che lo seguono: non lo fa sparire, non me ne rende immune, rovina solo il divertimento agli altri e mi fa sembrare un cretino pretenzioso. Anche perché quando lo fanno a me lo trovo fastidioso: parto dal presupposto che sia così anche per gli altri. Viviamo e lasciamo vivere perché, a meno di non essere delle amebe, tutti quanti teniamo a qualcosa in particolare che a qualcun altro starà indifferente. In questo è compreso anche Sanremo.
Le uniche persone più fastidiose di chi parla in continuazione di qualcosa sono quelle che se ne lamentano con altrettanta costanza.

Però.
Anche se non voglio rovinare la parata a chi lo apprezza, Sanremo è una di quelle cose che rende musone anche me. Come il Natale, ma per motivi più razionali.
E no, non ce l’ho con quelli che lo guardano perché lo apprezzano genuinamente: se vi piace quel tipo di musica, se non avete ulteriori pretese, se quello spettacolo vi soddisfa, soffocherò un conato e non vi dirò cose tipo: “Ma che lo guardate a fare? Spegnete la tv”. Cioè, io sono il primo a guardare l’Eurovision perché mi piace – e sì, a confronto è cioccolata, ma di quella super processata – e qualcuno mi giudicherà con sdegno per questo. “One man’s trash is another’s treasure”, è così che funziona.
Il problema ce l’ho con quelli che guardano Sanremo ma sono frustrati dallo stato in cui versa buona parte della musica italiana. Quelli che normalmente ascoltano musica di maggior spessore, dal pop straniero più becero (che è meno becero del nostro) ad artisti di reale qualità. Quelli che, più o meno, condividono il mio pensiero sull’industria musicale italiana, pigra, codarda, chiusa e nepotistica. Quelli che ogni anno si imbarazzano per chi mandiamo all’Eurovision. Eppure, arriva febbraio-marzo ed eccoli puntuali come l’orologio davanti alla tv.
Ecco, a voi sì che lo dico: ma che lo guardate a fare? Perché ne parlate? Perché lo rendete ancora più grande di quel che è? Spegnete la tv e ignoratelo!
Se lo stato dell’industria musicale italiana vi fa pietà, perché la alimentate? C’è un modo per mostrare dissenso: fate - calare - gli ascolti. Sanremo lo tengono su gli sponsor: se vedono che è poco seguito, si ritirano. L’industria discografica sostiene certi artisti perché vendono: se perfino Sanremo, quello che anche voi guardate, inizia a sgonfiarsi, forse si chiederanno se sono ancora al passo col gusto del pubblico (ok, qui c’è davvero molto ottimismo, ma in teoria funziona). Se siete comunque curiosi o, come me, non volete giudicare senza aver sentito, cercatevi le canzoni su YouTube (non sul canale della Rai, se no siamo punto e accapo) per farvi un’idea, ma non c’è bisogno di sorbirsi tutte le sere e guardare la pubblicità che le tiene in piedi.
Cioè, è un po’ come la comunità LGBT italiana, che si lamenta dell’omofobia casuale del Grande Fratello VIP e pretende dalla TV contenuti più sensibili, e poi continua a comunque a guardare quello e parlarne: cioè, è stupidità o sindrome di Stoccolma? A ‘sta gente non importa della qualità, importa degli ascolti, dei soldi, degli sponsor. Fintanto che c’è quello, va tutto bene, un articolo contro di loro è comunque buzz mediatico. Se li si vuole colpire, bisogna colpire i loro sponsor; e per colpire i loro sponsor bisogna cambiare canale o spegnere la TV.

E sì, probabile che, anche levando tutti quelli che hanno pretese musicali di un certo tipo ma guardano comunque Sanremo, verrà a mancare una fetta di pubblico irrisoria e non cambierà nulla. Ma magari convincerete anche i vostri famigliari a spegnere la tv e provare ad ascoltare qualcosa di nuovo, ché tanto non si perdono nulla. Magari vi daranno ragione e l’anno prossimo convinceranno qualcun altro. Magari altre persone si stancheranno con le prossime edizioni. Magari fra cinque anni ci sarà un calo di ascolti preoccupante e dovranno già provare a darsi una svegliata.
Se le cose non funzionano, si deve pur iniziare a cambiarle da qualche parte. Perché essere scontenti dell’industria musicale italiana e guardare comunque Sanremo è come non andare a votare e poi lamentarsi del governo: perdete ogni diritto di farlo perché, quando c’era da intraprendere un’azione, per quanto piccola, vi siete tirati indietro. Per pigrizia, per rassegnazione, per noncuranza, ma è anche colpa vostra.
Non fate i San Scemi.

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