Saturday 1 February 2020

Non ho bocca, e devo urlare

Tolte le brevi uscite a Lucca e Milano, sono stato via da Trieste tre volte da quando è successo Il Fattaccio.
La prima volta sono tornato in tempi utili perché avrei dovuto iniziare. La seconda e, adesso, la terza, not so much. È febbraio e ancora non ho nemmeno guardato i biglietti per tornare da Alghero, figurarsi stabilire una data o entrare nella forma mentis della partenza.

La verità è che non solo non ho fretta, ma non ho affatto voglia di tornare a Trieste e trascinarmi giorno dopo giorno. A che pro andare lì, inventarmi qualcosa da mangiare a pranzo, poi a cena, arrivare al giorno dopo solo per poi svegliarmi di nuovo e ricominciare daccapo? Qui almeno posso abdicare alcune responsabilità: trovare il cibo già pronto, i piatti lavati, il bucato fatto, la spesa sistemata e pagata. Posso involvere completamente nell’adolescente che sono ancora dentro, invece che occuparmi di me stesso e di che direzione prendere nella mia vita alla mia età.

Del resto, i miei esperimenti di autonomia qui sono stati puntualmente fallimentari: la domenica, quando la Mater è al lavoro e devo svegliarmi e pranzare da solo, non riesco a rotolare fuori dal letto prima delle tre del pomeriggio e mettere il pranzo in tavola prima delle quattro. Semplicemente, mi sveglio e non ho le forze o la motivazione di muovermi, spostare le coperte, vestirmi, metter i piedi sul pavimento e alzare l’avvolgibile per far entrare la luce. La sveglia suona all’una, poi alle due, ma non ce la faccio proprio, continuo a starmene rannicchiato al caldo e al buio.
Ecco, l’idea di dover affrontare questa tortura ogni giorno senza che sia il pranzo già pronto a costringermi ad alzarmi non è particolarmente attraente. Non ricordo nemmeno più se sono capace di cucinare, di fare le cose, di vivere. Mi sento un blob gelatinoso. Non ho bocca, e devo urlare.

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