È stato calcolato non ricordo da chi che una bugia che viene detta su quattro è “sto bene”. Statisticamente è anche la più usata, più del doppio della successiva, ed è una risposta talmente automatica alla domanda “Come va?” che spesso, quando anche c’è il desiderio di essere sinceri e raccontare cos’è che non va, si finisce per dire che va “tutto bene” e ci si corregge un secondo dopo.
Personalmente, sono un maestro nell’interagire socialmente col sorriso sulle labbra mentre sto morendo dentro. Oggi, ad esempio, eccomi in giro per Milano a fare commissioni, sorridere alla bigliettaia, al controllore, alla signora che mi chiede qual è la prossima fermata, fra un po’ al commesso dell’Unieuro dove sto andando d’urgenza, mentre sento davvero i pezzi che cadono uno dopo l’altro da sotto le costole e vorrei solo buttarmi in un angolo a fissare il vuoto mentre tento, probabilmente col solito, scarso successo, di farmi un bel pianto per buttare fuori un po’ di negatività. Tutte queste interazioni sociali di cui farei a meno sono, purtroppo, obbligatorie: mi si è guastato il caricabatterie della fotocamera e sto facendo un viaggio per cacciare fuori cinquanta euro che mi sarei volentieri tenuto per sostituirlo (e sì, ciò ha sicuramente contribuito al malessere).
Piuttosto, è interessante vedere come io non faccia nulla per evitare tutte le interazioni sociali non indispensabili. Bardato di auricolari e muso lungo, le probabilità di essere contattato in treno sono scarse, a parte il controllore e la signora della fermata; invece, eccomi attaccato allo smartphone a commentare in allegria l’ultimo episodio di Game of Thrones sotto stati altrui, come se fossi davvero dell’umore di scambiare battute su quanto sia paraculata Daenerys o su quanto Ramsey Bolton sia dell’ottimo cibo per cani. O, ancora meglio, riempire di quory i commenti sulla ship di Sansa e il Mastino. Da una parte è vero, almeno così mi distraggo dall’ennesimo contrattempo invece che rimuginarci sopra per i quaranta minuti di andata più altrettanti di ritorno, ma interagire normalmente con le persone in un momento in cui mi sento profondamente anormale è faticoso. Davvero, davvero faticoso. E potrei evitarmelo almeno in parte.
Ancora più incomprensibile è perché vada deliberatamente a cercarmi interazioni che sono ancora più faticose e, nella maggior parte dei casi, direttamente spiacevoli aprendo Romeo e Grindr: non sono nemmeno dell’umore per rifarmi gli occhi con le offerte locali, rischio solo di fare effetto carne fresca e attirare le attenzioni del solito stuolo di gente ben oltre i limiti di età, o di ragazzi decisamente al di sotto dei miei standard, o – ancora peggio – ragazzi carini ma con cui non combinerò nulla perché non ho letteralmente mezzo minuto di tempo da buttare a questo giro. È un po’ l’abitudine, forse: esaurite le foto nuove su Instagram e le notifiche su Facebook, pur di non restare solo coi miei pensieri il dito va automaticamente ad aprire le app.
Beh, non ho comunque tempo di riflettere su questa mia forma di masochismo da socializzazione: sono quasi a Repubblica. Magari faccio un salto in Buenos Aires a prendermi un gelato: un po’ di comfort food non può che fare bene.
Personalmente, sono un maestro nell’interagire socialmente col sorriso sulle labbra mentre sto morendo dentro. Oggi, ad esempio, eccomi in giro per Milano a fare commissioni, sorridere alla bigliettaia, al controllore, alla signora che mi chiede qual è la prossima fermata, fra un po’ al commesso dell’Unieuro dove sto andando d’urgenza, mentre sento davvero i pezzi che cadono uno dopo l’altro da sotto le costole e vorrei solo buttarmi in un angolo a fissare il vuoto mentre tento, probabilmente col solito, scarso successo, di farmi un bel pianto per buttare fuori un po’ di negatività. Tutte queste interazioni sociali di cui farei a meno sono, purtroppo, obbligatorie: mi si è guastato il caricabatterie della fotocamera e sto facendo un viaggio per cacciare fuori cinquanta euro che mi sarei volentieri tenuto per sostituirlo (e sì, ciò ha sicuramente contribuito al malessere).
Piuttosto, è interessante vedere come io non faccia nulla per evitare tutte le interazioni sociali non indispensabili. Bardato di auricolari e muso lungo, le probabilità di essere contattato in treno sono scarse, a parte il controllore e la signora della fermata; invece, eccomi attaccato allo smartphone a commentare in allegria l’ultimo episodio di Game of Thrones sotto stati altrui, come se fossi davvero dell’umore di scambiare battute su quanto sia paraculata Daenerys o su quanto Ramsey Bolton sia dell’ottimo cibo per cani. O, ancora meglio, riempire di quory i commenti sulla ship di Sansa e il Mastino. Da una parte è vero, almeno così mi distraggo dall’ennesimo contrattempo invece che rimuginarci sopra per i quaranta minuti di andata più altrettanti di ritorno, ma interagire normalmente con le persone in un momento in cui mi sento profondamente anormale è faticoso. Davvero, davvero faticoso. E potrei evitarmelo almeno in parte.
Ancora più incomprensibile è perché vada deliberatamente a cercarmi interazioni che sono ancora più faticose e, nella maggior parte dei casi, direttamente spiacevoli aprendo Romeo e Grindr: non sono nemmeno dell’umore per rifarmi gli occhi con le offerte locali, rischio solo di fare effetto carne fresca e attirare le attenzioni del solito stuolo di gente ben oltre i limiti di età, o di ragazzi decisamente al di sotto dei miei standard, o – ancora peggio – ragazzi carini ma con cui non combinerò nulla perché non ho letteralmente mezzo minuto di tempo da buttare a questo giro. È un po’ l’abitudine, forse: esaurite le foto nuove su Instagram e le notifiche su Facebook, pur di non restare solo coi miei pensieri il dito va automaticamente ad aprire le app.
Beh, non ho comunque tempo di riflettere su questa mia forma di masochismo da socializzazione: sono quasi a Repubblica. Magari faccio un salto in Buenos Aires a prendermi un gelato: un po’ di comfort food non può che fare bene.
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